mercoledì 27 aprile 2011

LINEA D’OMBRA : Adolescenti a rischio tra anoressia ,consumo di alcol e sballo da sostanze

LINEA D’OMBRA : Adolescenti a rischio tra anoressia ,consumo di alcol e sballo da sostanze


Tre recenti studi pubblicati in altrettanti volumi esaminano alcuni comportamenti di adolescenti e i fattori di rischio e protezione in caso di anoressia, consumo di alcolici e sostanze.

Il primo volume “La maledizione del cibo : le ragazze anoressiche e la coesistenza impossibile con il corpo “ tratteggia nel suo complesso un percorso interdisciplinare, utilizzando le suggestioni mitologiche e i contributi che può offrire l'antropologia culturale per contestualizzare scelte di vita che appaiono a un occhio inesperto frutto di singolarità ed eccezionalità che nulla hanno a che fare con una dimensione allargata al genere umano e alla storia della sua evoluzione culturale e sociale.


La narrazione del mito è carica di azioni, così come oggi appare satura di agiti la vita reale di ragazze anoressiche più gravi e delle loro famiglie. Anche i sistemi terapeutici organizzati per loro, sono esposti al rischio dei contro-agiti terapeutici, se non includono sin dall'inizio la decodifica degli affetti e di tutte le componenti meno visibili, la messa a fuoco del modo di vivere e di svolgere la reazione. Viceversa l'inclusione di questi aspetti consente di rifuggire dall'agito terapeutico verso un modello di trattamento integrato e maggiormente comprensivo dell' esperienza individuale e comunque comune. A questo si accompagna la possibilità di ricorrere allo studio delle interpretazioni antropologiche che possono ridare un senso umano all' esperienza clinica delle ragazze anoressiche, e a comprendere dal di dentro l'azione di senso che ciascuna dà alla propria vita e alle proprie scelte.


In tal senso è possibile considerare che se una competenza psichiatrica resta importante nel team diagnostico-terapeutico che si occupa delle ragazze anoressiche, è necessario interrogarsi sul ruolo che l'approccio integrato multidisciplinare e multiprofessionale può svolgere nella comprensione prima che nell'intervento delle esigenze individuali, e anche sulla specializzazione a tutto tondo verso le persone con gravi complicanze fisiche.

L'approccio fenomenologico e gli elementi della prospettiva kleiniana e post-kleiniana proposti offrono gli elementi teorici per inquadrare il fenomeno del rapporto con il cibo, applicati sul piano operativo grazie alla presentazione e discussione di casi di studio. A questi aspetti segue inoltre la trattazione dell' apporto della genetica e della medicina basata sulle evidenze.


Poiché l'anoressia nervosa è una patologia multideterminata in cui nessun singolo trattamento farmacologico o non farmacologico ha mostrato comprovata efficacia, di conseguenza le linee guida internazionali raccomandano un approccio terapeutico multidimensionale e multidisciplinare, che comporta l'attivazione di uno specifico team specialistico multiprofessionale, dedicato a tutto il raggruppamento dei disturbi del comportamento alimentare, e in grado di operare attraverso un modello integrato, con formazione e supervisione comune. Questo modello organizzativo richiede una forte comunicatività interna, congiunta con un'appropriata comunicazione esterna verso gli altri livelli dei circuiti sanitari, verso le istituzioni, o verso altri centri specialistici per i medesimi disturbi. A questo proposito il testo approfondisce il dibattito attuale riguardo ai modelli operativi e organizzativi che possono rispondere ai requisiti di un siffatto approccio multidisciplinare. All'interno di questi modelli emerge come l'elemento psicoterapico possa condurre le ragazze coinvolte a riconoscere la propria lack of identuy, a ripristinare la capacità di pensare, a riconciliarsi col corpo come tappa di un cammino interiore.

Il testo si rivolge agli operatori della salute mentale, ai professionisti delle varie discipline sanitarie, ai professionisti in formazione e quanti sono interessati ad approfondire il tema del rapporto tra cibo, identità in crescita e intervento clinico multidisciplinare.


Il secondo . “Fattori di rischio e protezione nel consumo di alcolici e di sostanze negli adolescenti “

a cura di Martina Smorti, Paola Benvenuti e Adolfo Pazzagli fa il punto sulle numerose ricerche che hanno affrontato il problema del consumo di alcol e di droga da parte degli adolescenti in quanto questi comportamenti , alterando gli stati di coscienza, accrescono il rischio di incidenti o di danni personali molto gravi.

Nello specifico l'articolo evidenzia come fattori familiari, sociali e individuali possano costituire fattori di .protezione o di rischio per l'assunzione di alcol e droghe.

Per ciò che concerne i fattori familiari, la presenza di genitori con atteggiamenti tolleranti verso il consumo di alcol e che consumano essi stessi regolarmente alcolici renderanno più probabile l'uso di queste sostanze nei figli adolescenti. Inoltre, uno stile autoritario genitoriale caratterizzato da alto controllo comportamentale e basso affetto risulta correlato con problemi di alcol e di droga nei figli; una relazione caratterizzata da conflitto, distanza personale e bassa responsività aumenta la probabilità per gli adolescenti di essere coinvolti in comportamenti a rischio.

Tra i fattori sociali che possono motivare nei ragazzi tali condotte a rischio, un'importanza particolare riveste il gruppo dei pari poiché viene assunto come riferimento normativo nel corso dell'adolescenza: il fatto che gli amici approvino e manifestino certi comportamenti a rischio aumenta la probabilità di essere coinvolto nello stesso tipo di condotta. Inoltre, è più facile che il ragazzo sia spinto ad adottare i comportamenti a rischio in un gruppo che presenta caratteristiche devianti o in relazioni interpersonali sbilanciate in termini di potere dove si attivano. più facilmente processi di pressione sociale.


D'altra parte, anche i fattori intraindividuali possono assumere un ruolo di fattori di protezione o di rischio: la convinzione di saper resistere alla pressione trasgressiva dei pari favorisce la resistenza all'uso di sostanze; invece, il tratto di personalità connotato dal bisogno di ricercare sempre sensazioni forti si associa a un uso maggiore e più precoce di alcol e droghe.

La ricerca presentata valuta il peso che alcune delle variabili sopra indicate- quali il sentimento di resistere alla pressione sociale dei pari la ncerca ,di sensazioni eccitanti, la percezione del rapporto con i genitori, l’ approvazione e il modellamento esercitato da amici in relazione al consumo di alcol e di sostanze – hanno sul consumo di alcolici e di sostanze nell’adolescenza.

La ncerca e stata svolta sulla popolazione di tre scuole secondarie superiori di una città toscana.


I soggetti sono stati classificati in quattro gruppi in funzione del consumo di alcol e, separatamente, in funzione del consumo di sostanze, distinguendo i non consumatori dai consumatori occasionali e da quelli abituali moderati e abituali forti. I dati sulla frequenza e quantità del consumo di alcol e di droghe pesanti rivelano un problema maggiormente a carico dei maschi, Per quanto riguarda l’ uso di sostanze è risultato coinvolto solo un campione esiguo che ,ne fa un uso abituale, ma che risulta ad altoa rischio poiché associa l’ uso di droghe leggere a quelle pesanti. Sia per quanto riguarda l’ alcol che la droga, gli adolescenti più coinvolti in questa tipo consumo sono anche quelli che hanno. un maggior numero di amici che condividono queste condotte a rischio. Inoltre, il fatto che la convinzione di saper resistere alle pressioni dei pari sia molto alta tra i non consumatori e diminuisca progressivamente nelle altre categorie lascia intendere che il consumo sia di alcol che di droghe sia frutto di un processo di madellamento e di pressione esercitato dai pari.Infine, un legame con il padre caratterizzato al contempo da alto controllo, cura e affetto sembra costituire un fattore di protezione rispetto al consumo di droga.


Il terzo studio “Sballo” Nuove tipologie di consumo di droga nei giovani “tiene conto del fatto che la preoccupazione dei genitori riguardo alla possibilità che i figli facciano uso di droghe è da anni al centro del pensiero educativo, ma con poche le conoscenze degli adulti utilizzabili per cercare di capire i rischi che corrono i giovani, le caratteristiche delle sostanze e gli effetti di queste.


Quindi il lavoro offre un' opportunità per orientarsi in tale ambito in modo più efficace, per trovare un supporto al percorso di comprensione delle difficoltà legate alle dipendenze.

Nell'ultimo decennio è cambiata radicalmente l'immagine sociale del consumatore di droga. Va scomparendo lo stereotipo dell'eroinomane, sbandato ed emarginato, appartenente a una sub¬cultura di degrado. Oggi si affacciano all'utilizzo di sostanze gruppi sociali diversi che vivono condizioni socioeconomiche varie e che sono quasi sempre ben inseriti nel contesto sociale: non si presentano ai Sert con la richiesta di una dose di metadone e non si trovano per strada storditi dall' effetto di una dose.

L'uso di sostanze è molto vario (anfetamine e derivate, eroina, cannabis, cocaina e altre), è occasionale o continuativo, è misto, è associato ad alcol e si svolge in contesti molto vari, ma prevalentemente in contesti sociali. La gran parte dei ragazzi fa uso di sostanze proprio in un contesto di socialità e come mezzo per condurre - una vita sociale più soddisfacente dal loro punto di vista.

Per questo non è facile distinguere chi è in una situazione di consumo problematico e chi nella dipendenza. Il consumo di una varietà di -sostanze stupefacenti viene quasi considerato normale in alcuni ambienti: ci si droga per distinguersi e per omologarsi, per ricercare stati di piacere e sensazioni particolari o per evadere da situazioni dolorose. L'uso di sostanze rappresenta ancora una forma di protesta e affermazione attraverso i l'ave, e riesce a raccogliere un numero di aderenti molto elevato tra i giovani e i meno giovani.

Ma si può parlare di sostanze anche come di merci valutate e scelte dai ragazzi in base alla loro efficacia nel soddisfare determinati bisogni come quelli sopra esposti. Così si può spiegare il diffondersi della moda della cocaina, o l'uso diffuso della cannabis da parte di sperimentatori occasionali, o un certo consumo rituale di alcol.


Ma quando sono da considerarsi patologiche queste abitudini? Si parla di abuso quando si perde la capacità di svolgere le proprie mansioni ordinarie, quando si corrono rischi fisici; si parla di dipendenza quando a fronte di una serie di problemi fisici, sociali e relazionali la persona continua a far uso della sostanza in modo compulsivo. L'uso più diffuso e che provoca più danni è attualmente quello della cocaina, che viene consumata da sola, o mescolata e fumata per aumentare l'effetto di altre droghe. Procura euforia, resistenza, potenza, libertà sessuale e danni come problemi cardiocircolatori, incidenti, suicidi (in seguito all' effetto down). Le morti e i danni per uso di cocaina sono registrati in aumento in Europa e negli Usa e sono maggiori di tutte le altre droghe. Le conseguenze meno gravi sono forme diffuse di disagio psichico e attacchi di panico, non necessariamente overdose, e i ragazzi non si considerano tossicodipendenti in senso classico, per la tendenza ad alternare e sostituire le sostanze alla ricerca di una sensazione sempre diversa.

Se è vero che i fattori protettivi sono legati alla tenuta dei legami familiari, al rapporto con i pari e a impegni sociali diversi, è anche vero che si deve comprendere il bisogno espresso da chi fa ricorso alle sostanze e aiutare tutti i ragazzi a ricostruire la propria identità a partire dalle mancanze, dalla percezione del proprio sé insoddisfacente, provando a dare risposte e speranze, sostegno a quelle aspirazioni segrete che la persona non ha il coraggio di affrontare e di dichiarare a se stessa.

La maledizione del cibo: le ragazze anoressiche e la coesistenza impossibile con il corpo a cura di Maurizio Bellini ,prefazione di Bruno Callieri CLUEB 2010

Fattori di rischio e protezione nel consumo di alcolici e da sostanze negli adolescenti Clinica dello sviluppo A.14 n.1 aprile 2010

Sballo : nuove tipologie di droga nei giovani a cura di Alessandro Dionigi e Raimondo Maria Pavarin Erikson 2010


Eremo Via vado di sole , L'Aquila,
mercoledì 27 aprile 2011

GRAFFITI : L’Aquila da ricostruire e l’idea di città

GRAFFITI : L’Aquila da ricostruire e l’idea di città


La lettura di un articolo di Irene Tinagli dal titolo “ Primo Maggio e vecchie barricate mentali “ su la stampa di mercoledì 27 aprile 2011 mi ha fatto pensare di nuovo e di prima mattina alla situazione di l’Aquila terremotata e delle difficoltà per la ricostruzione del centro storico .


Irene Tinagli che è una economista e insegna in Italia e in Spagna parte nella sua riflessione dalla questione “apertura si apertura no” dei negozi per le feste come quelle del 25 aprile e del 1 maggio, esaminando le polemiche tra la segreteria della Cgil Susanna Camusso contraria all’apertura e Matteo Renzi favorevole.

La questione che a me sembra interessante per tutti i risvolti sociali, culturali ed economici che contiene in realtà viene affrontata come riferisce la stessa Tinagli a livello di battaglia sul piano ideologico. Tinagli quindi nello stigmatizzare la polemica per la quale una questione così importante viene affrontata sulla punta del fioretto ideologico in un duello che non sa né di sale né di pepe , dico io, allarga il suo sguardo .


Afferma infatti : “A che servono i negozi, le botteghe, i bar o i ristoranti nei centri delle città? No, non servono solo a far cassa. Per quello basta un centro commerciale, uno dei tanti che punteggiano le uscite autostradali. I negozi cittadini, o meglio «le botteghe», così come i bar, le osterie e i ristoranti sono più di un registratore di cassa, sono parti vitali di un essere vivo e pulsante: la città. Solo chi non ha capito cosa è una città, come e perché è nata e perché sopravvive, può pensare ai negozi come meri luoghi di commercio o avamposti del consumismo moderno. Le botteghe cittadine sono una delle realtà più antiche del nostro Paese, uno dei fenomeni attraverso i quali si è manifestata in maniera più evidente l’imprenditorialità diffusa della nostra gente, e attorno ai quali brulicava la vita di paese e quella socialità che tutto il mondo ci invidiava.”

E continua : “ Le città sono equilibri delicati, sono luoghi di economia, ma anche di socialità e cultura, e queste tre anime, economica, culturale e sociale si sostengono reciprocamente. Non si va in un’osteria in centro solo per sfamarsi, ma perché prima si può fare un aperitivo nel corso e dopo una passeggiata in piazza. E raramente si va in centro solo per vedere un monumento o comprare un oggetto, ma perché sappiamo che mentre siamo lì possiamo incontrare persone che conosciamo, fare due chiacchiere, e allora sì, anche comprare il pane, il caffè, o giocare la schedina. E mentre passeggiamo in centro magari vediamo i cartelloni del teatro o del cinema e ci viene pure un’idea per la serata. Questo è il ruolo e l’essenza delle città. Luoghi vivi fatti per vivere. E in quest’ottica ogni piccolo elemento ha una sua funzione che non è meramente economica o sociale, ma un po’ tutto assieme. Nel suo capolavoro The Death and Life of Great American Cities l’urbanista Jane Jacobs fece un’accurata descrizione di come i marciapiedi, per esempio, siano uno strumento fondamentale per la struttura sociale della città, luoghi in cui

le persone si fermano a parlare, e in cui i bambini possono giocare. E così come i marciapiedi è importante il ruolo delle finestre, dei portoni, delle vetrine. Perché porte, finestre e vetrine aperte danno aria, vita e luce alla città e sono il miglior antidoto contro l’abbandono, il degrado, la delinquenza. Chi vede la città come un mero agglomerato di funzioni distaccate e distaccabili o addirittura contrapposte - il lavoro da una parte, il consumo dall’altra, la socialità in un’altra ancora - non solo non ha capito cos’è una città, ma la condannerà alla morte certa. Così come è già accaduto a molte città straniere e purtroppo anche da noi. La città ha bisogno di essere viva, libera e spontanea, e per farlo ha bisogno di elementi diversi e complementari: arte, musica e commercio, tradizione e modernità, italiani e stranieri. E la politica dovrebbe aiutarla a trovare soluzioni innovative per far convivere spontaneità ed esigenze di tutti.”

La politica dunque dovrebbe trovare soluzioni innovative. La politica dovrebbe creare le condizioni perché la città, questa città, e torno alla riflessione sull’Aquila e alle idee che questo articolo mi ha suscitato, la politica dovrebbe per una volta rinunciare alle barricate, alle passerelle per restituire a questa città la sua funzione che è quella che ha ben illustrato Tinagli nel breve articolo.


Perché conclude la Tinagli .“Dare la possibilità a un negozio di stare aperto se vuole non è tanto un favore che si fa al negoziante, ma anche un servizio a tutti quei lavoratori che durante la settimana sono chiusi in una fabbrica o un ufficio grigio e quando è festa non vedono l’ora di cambiarsi e andare fuori con i figli, andare al cinema, al parco giochi e anche a fare un po’ di spesa tutti insieme. Tutte cose che potrebbero essere fatte in città, senza essere costretti a rinchiudersi in un centro commerciale periferico. Le città aperte servono molto più a questi lavoratori che ai ricchi, perché questi ultimi possono sempre rifugiarsi in qualche villa al mare o in hotel di lusso a Londra o Parigi per sottrarsi alla noia di una città fantasma, ma i meno fortunati no. Certo, anche chi lavora nei negozi ha diritto al riposo, ci mancherebbe altro, ma viene da chiedersi se non sia possibile trovare delle soluzioni innovative che possano andare incontro alle esigenze di più persone senza imporre ulteriori divieti. La proposta del sindaco di Firenze di accordarsi con gli interinali per tenere aperti i negozi senza costringere commessi e commesse agli straordinari poteva essere una possibilità. Altri accordi potevano essere valutati, come è stato fatto in altre città senza troppi clamori.


Eremo Via vado di sole, L'Aquila,
mercoledì 27 aprile 2011

martedì 26 aprile 2011

SILLABARI : Sregolatezza LA FINANZA E IL RITORNO DELLA SREGOLATEZZA

SILLABARI : Sregolatezza

LA FINANZA E IL RITORNO DELLA SREGOLATEZZA

La finanza e il ritorno della sregolatezza. A febbraio è cominciato il brusio tra gli addetti ai lavori. A marzo i rumors sono arrivati agli analisti. Ad aprile sono scattati i primi campanelli d'allarme. Come quello lanciato dal Financial Stability Board sulle «potenziali vulnerabilità» della nuova categoria di prodotti finanziari sintetici chiamati Etf. Simultaneamente si è registrato un vero e proprio boom di Asset backed securities (Abs) con prestiti auto come sottostante, cioè cartolarizzazioni garantite dai flussi di cassa di una categoria di debito a rischio di mora molto alto.

Settembre 2008, bancarotta di Lehman Brothers. È stato il punto di svolta per otto milioni di americani rimasti senza lavoro nel grande crack finanziario che l'ha seguita. Per i nove milioni ai quali è stata pignorata l'abitazione. E per l'economia di tutto il mondo.


L'ironia è che l'unica strada d'America in cui ci sono stati meno cambiamenti è proprio quella da cui tutto è partito: Wall Street. Certo, il settore finanziario si è contratto, le cartolarizzazioni di mutui tossici sono cose del passato. Ma i regolamenti attuativi della riforma del sistema finanziario - la legge Dodd-Frank siglata da Barack Obama nel luglio scorso - non sono entrati in vigore. Anzi, li si attende ancora dalle cinque agenzie federali che li devono definire. Nel frattempo, nella finanza sono riemersi i tre ingredienti della ricetta che due anni e mezzo fa ha prodotto il grande crack: la liquidità, i prodotti o le operazioni borderline, e la propensione a correre rischi sempre più forti.

Martedì 19 aprile Hedge Fund Research ha comunicato che il denaro amministrato dagli hedge fund ha sfondato per la prima volta nella storia il tetto dei 2mila miliardi di dollari. Superando di 72 miliardi il record precedente raggiunto nel giugno 2008. Insomma, per i fondi hedge tutto come prima.


E non solo per loro. «Le banche di investimento hanno bisogno di mettere a frutto i soldi ma mancano i business. Quindi stanno rientrando in settori difficili e pericolosi. E poiché c'è molto liquidità non si vagliano adeguatamente i rischi», osserva Stefano Ghersi, ex dirigente Nomura e poi gestore di un fondo.

Con il mercato che nuota in un mare di liquidità alla rincorsa di rendimenti soddisfacenti e in un settore ancora di fatto deregolato, stanno crescendo pressioni e incentivi per tornare a imboccare quella che un analista di un fondo hedge del Connecticut che ci chiede l'anonimato definisce «la strada sdrucciolevole che porta al precipizio». Strada lastricata di prodotti e operazioni sul filo del rasoio.

A partire da veicoli finanziari strutturati ad alto rischio quali gli Asset Backed Securities che hanno come sottostante una categoria di debito di bassa qualità come è quella dei finanziamenti per l'acquisto di auto. Secondo l'agenzia Bloomberg, il volume di tali obbligazioni immesse sul mercato quest'anno ha già raggiunto i 18 miliardi di dollari. E proprio negli ultimi giorni sono state annunciate altre due operazioni. La prima da 2,9 miliardi della Ally Bank e la seconda da 784 milioni di Banco Santander.


Abs a parte, gli acronimi a tre lettere di prima della crisi - i famosi Cdo (Collateralized debt obligations), i Clo (Collaterized loan obligation) e i Cds (Credit default swap) - sembrano essere fuori moda. Ma adesso c'è il boom degli Edf, gli Exchange-traded fund.

In apparenza sono prodotti finanziari innocui, una sorta di fondi comuni di investimento indicizzati e quindi gestiti in maniera passiva con l'obiettivo di riprodurre un indice di riferimento. I loro vantaggi: non hanno costi di ingresso né di uscita, e costi di gestione molto bassi. Negli Usa gli Etf sono arrivati a un valore totale di circa mille miliardi di dollari. Nel mondo si è arrivati a circa 1.300.


Il problema, come per gli acronimi a tre lettere del passato, è il possibile abuso di un prodotto che altrimenti ha una sua legittima funzione e logica finanziaria. In altre parole, il rischio che venga trasformato in un Frankestein finanziario.

Il 12 aprile scorso il Financial Stability Board, presieduto dal Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, ha lanciato formalmente l'allarme sulla «complessità e la relativa opacità della più nuova razza di Etf», i cosiddetti Etf sintetici. Nel suo bollettino, il Fsb ha invitato le varie autorities nazionali a «prestare crescente attenzione» perché «in alcuni segmenti di mercato c'è un numero di sviluppi inquietanti... Gli Etf si sono infatti estesi in categorie di beni in cui liquidità e trasparenza sono tipicamente minori».

Molto meno diplomatico il linguaggio degli analisti che recentemente hanno lanciato il loro allarme sull'esplosione degli Etf. A preoccuparli è fatto che si stanno diffondendo tra gli investitori privati e che il loro straordinario successo possa spingere gestori disonesti a intascare i soldi degli investitori senza comprare le azioni o le commodities sottostanti. «A me pare impossibile che vi siano titoli sufficienti per tutti gli Etf che circolano», ha dichiarato Michael Lewitt, presidente di Harch Capital Management, autore del libro "Morte del capitale". A lui ha fatto eco Bradley Kay, capo ricercatore per gli Etf europei di di Morningstars: «Gli Etf sulle commodity mi impensieriscono. Perché faccio fatica a pensare che ci siano così tante commodity sul mercato».


Altri preoccupanti segnali vengono dai volumi di operazioni finanziarie sul filo del rasoio.

«Nei primi tre mesi del 2011 la percentuale dei prestiti istituzionali concessi senza vincoli a protezione del mutuante - i cosiddetti light covenant, o cov-light deals- sono arrivati a rappresentare il 24% del totale. Cinque volte la percentuale registrata nel 2010», ci fa notare l'analista. Stiamo parlando di circa 25 miliardi di dollari in prestiti istituzionali concessi senza vincoli protettivi e quindi a maggior rischio di mora. In termini assoluti è una cifra decisamente inferiore al volume-record registrato nel 2007, ultimo anno di follia finanziaria quando i cov-light arrivarono a sfiorare i 100 miliardi. Ma la percentuale dei cov-light sul totale dei prestiti istituzionali è esattamente la stessa.

Anche il movente finanziario sottostante è lo stesso che tre anni fa portò al boom dei mutui ipotecari subprime: chi genera il deal raccoglie una ricca commissione senza rischiare il proprio denaro. Con i Cdo, le grandi banche di investimento compravano mutui subprime, li impacchettavano e rivendevano sul mercato frazioni di quelle nuove confezioni, trasferendo così ad altri il rischio di mutui ad altissimo rischio di mora. Adesso le grandi banche concedono prestiti istituzionali cov-light e poi li trasformano in prestiti sindacati rivendendoli a pezzi e bocconi ad altre banche. La differenza - non insignificante - è che in questo caso non si impacchettano prodotti tossici come i mutui subprime e il contenuto di ogni pacchetto confezionato è trasparente. Ma la tecnica di fondo rimane quella che con rara eleganza il furbetto del quartierino Stefano Ricucci definì «fare il frocio con il culo degli altri».


«Per molte banche la percentuale di reddito che deriva da deal di questo genere è molto alta. È quindi logico che ci siano fortissimi incentivi a farne sempre di più. E sempre più rischiosi», osserva l'analista, che sottolinea il cambiamento di umore del settore: «Nel 2008 il mercato reagì alla crisi con panico eccessivo fino a paralizzarsi. Ma adesso sembra quasi di essere tornati al 2007. Come se negli ultimi tre anni non fosse successo nulla. Lo definirei uno stato di follia versione light».

Altro indicatore di follia-light viene dal ritorno di operazioni estremamente aggressive di dividend lending, e cioé prestiti per pagare dividendi, una prassi da tempo diffusa ma che prima della crisi era arrivata a superare ogni limite di ragionevolezza (o decenza) finanziaria. Un esempio: nel dicembre 2005 un consorzio di private equity comprò dalla Ford la società di auto a noleggio Hertz Corp e sei mesi dopo, con un megaprestito, si concesse un dividendo di un miliardo di dollari, pari a quasi la metà dell'intero investimento.

L'operazione di dividend lending completata nel marzo scorso dal fondo di private equity newyorkese American Securities sulla Fairmount Minerals, società dello Ohio produttrice di sabbie industriali, non è stata molto meno aggressiva. Sette mesi dopo aver comprato il 51% di Fairmount Minerals grazie a un prestito di 750 milioni di dollari, American Securities ha ricapitalizzato la società con un prestito un miliardo, e si è concesso un generoso dividendo di 300 milioni.

«Noi siamo per principio contrari al dividend lending perché si prendono soldi in prestito per aumentare i rendimenti degli azionisti ma non si accresce il flusso di cassa che serve a pagare gli interessi del nuovo debito», ha detto al Wall Street Journal Mark Shenkman, presidente di Shenkman Capital Management.

I dati sui volumi dei prestiti per dividendi sono emblematici. Secondo S&P Lsd, divisione specializzata di Standards & Poors, dopo quasi tre anni di stallo, sia nell'ultimo trimestre del 2010 sia nel primo del 2011 i prestiti per dividendi o acquisto di titoli propri sono stati di circa 17 miliardi di dollari. Cifra non lontana dal record assoluto di 25,8 miliardi raggiunto nel primo trimestre 2007. E cioè alla vigilia del crack.

Fonte : I titoli a rischio conquistano Wall Street - Perché non deve ripetersi

di Claudio Gatti Il sole 24 ore martedì 26 aprile 2011i.


Eremo Via vado di sole, L'Aquila,
martedì 26 aprile 2011

SILLABARI : Sregolatezza (anteprima )

SILLABARI : Sregolatezza (anteprima )

La musica è ripresa, con la stessa orchestra e gli stessi direttori di prima, sono cambiate le note e gli spartiti, sono quasi scomparsi i subprime con i loro pacchetti di riferimento Mbs e Cdo, ma si diffondono rapidamente altri strumenti finanziari (Etf) con modalità a volte altrettanto rischiose. Da segnalare, inoltre, che i nuovi pacchetti non si scambiano più tra operatore e operatore (banche in primis) ma tra operatore e risparmiatore finale.

La musica si assomiglia, restano le opacità, le complicazioni, le difficoltà a capire, soprattutto permane il rischio che si torni a vendere merce deperibile. Sia chiaro: non stiamo parlando dei meccanismi che hanno determinato la più grave crisi finanziaria globale, l'esplosione dei debiti privati americani e inglesi coperti da nuovo debito pubblico mondiale, ma riappaiono in circolazione prodotti «non standard» della fertile ingegneria finanziaria che nei momenti difficili «non hanno liquidità» e sui quali un uomo esperto e non aduso agli allarmismi, come Mario Draghi, governatore della Banca d'Italia e presidente del Financial Stability Board, ha voluto accendere nei giorni scorsi un faro esortando a «una vigilanza più attenta da parte delle autorità».

L'inchiesta di Claudio Gatti, che pubblichiamo oggi e apre il giornale, è la prima di una serie di puntate, con le quali Il Sole 24 Ore vuole offrire ai suoi lettori uno spaccato documentale su quello che sta avvenendo sui mercati dei prodotti finanziari sintetici per capire se si è deciso davvero di chiudere con gli eccessi del passato o se, sotto sotto, si ricomincia daccapo. Per avvertire i nostri lettori se siamo dentro un intervallo necessario, in una fase di passaggio, o se rischiamo di ripiombare dentro la malattia.

Non è vero che non è stato fatto nulla in termini di nuovi controlli e di nuove regole, ma è un dato certo che per fare luce su un disastro che ha avuto un costo senza precedenti per le finanze pubbliche e le famiglie si è assegnato alla Commissione d'indagine ufficiale del Congresso americano una dote pari a un quinto di quella che fu attribuita alla Commissione d'indagine per il caso di Monica Lewinsky. Come dire: non traspare una volontà di andare fino in fondo, e la stessa legge di riforma dei mercati varata da Barack Obama nel luglio 2010 promette molto ma (al momento) garantisce poco.


Per motivi opposti, Cina e Paesi emergenti da una parte (siamo in ascesa, perché fare l'accordo oggi, meglio domani) e Stati Uniti dall'altra (aspettino, che cosa vogliono?) hanno reso di fatto impossibile, con un'Europa a sua volta divisa, la definizione di una nuova Bretton Woods che potesse dare un segnale politico chiaro alla speculazione e ristabilisse nei fatti il primato dell'etica e della trasparenza. Quello che, però, il mondo non si può più permettere è che gli accordi globali e le riforme sui controlli faticosamente approvati non si traducano in strumenti operativi e cogenti che conducano finalmente a una trasparente regolazione dell'industria finanziaria.

La parola è ora ai governi. Se ciò non avvenisse, l'Italia, che si è tenuta abbastanza fuori per il suo provincialismo dalla finanza allegra e ha già comunque pagato un conto molto salato per colpe in gran parte non sue, potrebbe aggiungere al danno la beffa. Scoprire, cioè, che il vecchio vizio americano, al quale ha peraltro partecipato ampiamente il gotha bancario europeo, contagi ora anche la provinciale virtù italiana e rischi di ridimensionare la dote dei nuovi aumenti di capitale sottraendo risorse al miglior capitalismo di casa nostra.

Fonte: " Perché non deve ripetersi " di Roberto Napoletano il Sole 24 ore martedì 26 aprile 2011


Eremo Via vado di sole, L'Aquila,
martedì 26 aprile 2011

LINEA D’OMBRA : Rivivere l’attimo: Storie di bambini dopo il terremoto

LINEA D’OMBRA : Rivivere l’attimo: Storie di bambini dopo il terremoto


Nella situazione drammatica nella quale ci siamo trovati dopo il terremoto del 6 aprile 2009 unpericolo che incombe particolarmente sui giovani è la perdita dell'identità e della memoria dellapropria città. Proiettati nelle periferie o sulla costa i giovani hanno perso, o rischiano di perderegradualmente, un luogo centrale e condiviso da tutti nel quale incontrarsi, nel quale riconoscersicome eredi e discendenti degli abitanti del contado aquilano che nel 1254 dettero vita alla città enel 1266, dopo la distruzione per rappresaglia decretata da Manfredi nel 1259, organizzarono nei"quarti" e nei "locali" la ricostruzione urbanistica dell'insediamento che, ancora nel 1294, alcardinale Stefaneschi, che seguiva Pitero del Morrone per l'incoronazione papale, appariva "nonplenam civibus urbem, sed spatiis certis signatam, ob spemque futuram".

Ma non è solo questo il pericolo che appunto incombe sui giovani. Ci sono problemi immediati e anche più gravi specialmente per i bambini .

A distanza di ben 24 mesi dal terribile sisma che ha distrutto L'Aquila e i paesi limitrofi, un bambino su quindici rivive ancora lo stesso attimo drammatico, prova paura intensa, senso di impotenza e orrore: tutti disturbi che vanno sotto il nome di Sindrome Postraumatica da Stress.

Il dato emerge dalla prima ricerca sul campo mai realizzata al mondo per analizzare con evidenza scientifica quali cicatrici portino dentro di sé i piccoli esposti a catastrofi naturali come, ad esempio, il violento il terremoto de L'Aquila del 6 aprile 2009.


Conclusa la fase di screening, l'indagine - promossa dall'Ordine dei Ministri degli Infermi Camilliani con il coordinamento scientifico dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, il sostegno della Caritas Italiana e la collaborazione dei pediatri abruzzesi - è entrata nella fase della conferma, tramite visita specialistica neuropsichiatrica, delle diagnosi emerse dai test.

Sono circa 2.000 i bambini abruzzesi a cui sono stati somministrati i questionari dai pediatri del luogo che hanno aderito volontariamente alla ricerca: 500 di età compresa tra i 3 e i 5 anni e oltre 1.500 i tra i 6 e i 14 anni.

È proprio nella fascia d'età 6-14 anni che si differenzia la risposta al trauma a seconda della maggiore o minore prossimità del bambino all'epicentro del sisma e che si fa consistente il dato legato alla Sindrome Postraumatica da Stress: ad esserne colpito è ben il 7,1% dei ragazzi, ovvero più di 100 su 1.500.

Ancora più alto il dato relativo all'ansia legata all'evento traumatico, riscontrata nell'll % dei giovani sottoposti allo screening: 165 su 1.500. Seguono i disturbi dell'affettività (7,7%), vale a dire quella serie di problemi legati all'attività emotiva: fragilità d'umore, ipervigilanza, esagerate o alterate risposte al contesto ambientale.


Nella fascia 3 -5 anni non sono invece stati rilevati problemi neuropsichiatrici gravi se non - nel 6% dei casi - un disturbo d'ansia di probabile origine non post traumatica: la stessa percentuale è infatti riscontrabile nella popolazione pediatrica generale, ovvero anche tra quei bambini che non sono stati vittime di un violento terremoto. Inoltre è stata rilevata una certa omogeneità di condizione tra i piccoli aquilani e i bambini delle altre provincie d'Abruzzo.

Lo studio rivela quindi che più il bambino è piccolo, minori sono gli esiti del trauma: in questo caso concorrono più fattori ambientali di "protezione" come la famiglia e l'età, intesa come livello di sviluppo e maturazione del sistema nervoso.


Conoscere è il primo requisito per poter intervenire. Il progetto - e questo è un ulteriore elemento innovativo - non si ferma infatti allo screening dei fattori di rischio e degli effetti prodotti da una tragedia naturale sulla psiche di bambini e adolescenti o alla conferma della diagnosi, ma, conseguentemente, attiva processi formativi e terapeutici ad hoc. In tal senso la ricerca ha attivato percorsi di formazione per pediatri e insegnanti per riconoscere e gestire (ad esempio attraverso interventi di educazione alla pro-socialità) la sindrome Postraumatica da Stress.

Grazie agli ottimi risultati raggiunti si è deciso di replicare l'esperienza nella popolazione del Cile, colpita nel febbraio dello scorso anno da una terribile scossa sismica. In virtù delle solide evidenze scientifiche su cui si fonda, lo studio costituisce infatti un modello applicabile a tutte quelle zone colpite da catastrofi naturali, in primis Haiti e Giappone.

Fonte : http://www.salutedomani.com/


Eremo Via vado di sole , L’Aquila,
martedì 26 aprile 2011

lunedì 25 aprile 2011

BIBLIOFOLLIA : Le mosche del capitalismo


BIBLIOFOLLIA : Le mosche del capitalismo



Da qualche mese Einaudi ha rispedito in libreria Le mosche del capitale, il romanzo-testamento di Paolo Volponi. Così ne scrive Fabio Orrico :”Pubblicato nel 1989, questo libro può a tutti gli effetti essere visto come il compiersi della parabola narrativa di Volponi, summa dei suoi temi e allo stesso tempo, come succede coi grandi artisti, ennesimo gesto di rilancio all’interno di un movimento espressivo che, almeno a mio avviso, fa di Volponi uno dei quattro, cinque scrittori fondamentali del novecento. Oggi più che mai mi sembra che il grande urbinate sigli una sorta di triumvirato della nostra letteratura che, agli altri due lati trova Pier Paolo Pasolini e Elsa Morante. Fuori da questo triangolo estremo e terminale è difficile trovare una lingua altrettanto ricca, rugiadosa e blasfema, una visione così capillarmente apocalittica e insieme così minuziosamente precisa, laddove l’ansia e l’ambizione di questi autori era di rappresentare il proprio tempo. È una linea che, passando attraverso questi tre nomi, arriva direttamente al nostro Antonio Moresco che, pur nella sua totale unicità, è l’unico ad avere compiutamente raccolto l’intelligenza del loro sguardo e l’ampiezza del loro respiro. E prima, molto prima ancora, dobbiamo risalire al prismatico Leopardi dello Zibaldone per avere l’antenato più credibile di Volponi.Seppure desaparecido dai banchi delle librerie per diversi anni e molto meno citato di quanto meriterebbe, Le mosche del capitale è, forse, il libro più bello di Volponi, sicuramente il più estremo, sicuramente una delle punte più alte della letteratura del secolo scorso e questo per almeno due motivi: da un lato la prosa di Volponi, ricchissima, irta, acuminata, un doppio fondo della lingua in cui la potenza metaforica non si esaurisce nella trama (peraltro non ingombrante, ché Le mosche è sostanzialmente un’operetta morale) ma si riverbera in ogni parola. Dall’altro lato la rappresentazione sospesa tra sociologia e grand guignol del capitalismo italiano. La fabbrica, l’industria, la lotta personalissima di Bruto Saraccini, manager e intellettuale umanista, vero e proprio alter ego dell’autore, lo snobismo di una classe dirigente al collasso e lo sguardo duro e malinconico sugli ultimi operai fordisti. Come dicevamo, Le mosche del capitale esce nel 1989. volponi lo scrive un attimo prima che un intero mondo si polverizzi. Le mosche profetizza già quella polvere, la mette in scena come fosse una medievale danza macabra e, nel suo coro spastico e visionario, accorda la possibilità della parola a tutti, ma proprio a tutti, non ultimi i simboli più frivoli del potere: le valigette dei capitani d’industria, le loro ampie e comodissime poltrone, le piante che arredano l’ufficio e anche la luna, il cui sguardo abbraccia mestamente questo orizzonte decomposto.
Oggi più che mai un autore come Paolo Volponi è fondamentale. Portatore di un’idea massimalista, mai conciliante, di letteratura, Volponi è un antidoto alla banalità. I suoi grandi romanzi, ricchi di pensiero e visione, svettano misteriosi e durevoli come il monolito kubrickiano. Sono (erano) eloquenti segnali di crisi e insieme concrete opportunità di rinascita.”

Un libro quasi premonitore della realtà odierna Ecco che cosa racconta Luca Doninelli in chiave chiaramente autobiografica


Quando, ventun anni fa, uscì Le mosche del capitale di Paolo Volponi (oggi riproposto, con più di una ragione, da Einaudi) chi scrive era un giovane scrittore scalpitante per il prossimo esordio. Presuntuoso e smanioso quanto basta per essere infilato nel faldone dei Giovani Scrittori, anch’io mi godevo i miei astratti furori: ancora pochi mesi e la cultura, grazie anche a me, avrebbe cambiato faccia. C’era, nel 1989, un sentimento di storia che ricomincia, di Egloga IV, «et magni incipient procedere menses», di dissoluzione del vecchiume. Tra gli scrittori della vecchia generazione erano in pochi quelli che si salvavano da una sorta di febbre nichilista.

C’era però anche molta permanenza dell’antico. E non poteva essere altrimenti. C'era per esempio L’Unità che faceva da ponte tra le generazioni. I giovani scrittori di quell’area ideologica si interessarono ai vecchi della stessa area, anche se sovente i vecchi si sentivano ugualmente tagliati fuori, e forse volevano anche starsene fuori. La sinistra doveva modernizzarsi, ma per modernizzarsi era costretta a perdere dei pezzi per strada. Paolo Volponi fu uno di questi pezzi.

Pubblicato nel 1989, Le mosche del capitale è pieno di paure del 1989, di scricchiolii del 1989, di profezie del 1989, ma i suoi paesaggi, l’aria che vi si respira e soprattutto il pensiero - complesso e articolato - appartengono alla metà degli anni Settanta.

Il libro racconta, attraversando un gran numero di generi letterari come stratificazioni geologiche o qualcosa di simile, la vicenda di un qualunque Bruto Saraccini, uomo d’azienda geniale e dalle idee innovative, salito ai vertici dell’azienda fino al grado di amministratore delegato ma poi messo da parte in favore di un più grigio e ligio funzionario.
Quasi tutto ambientato nel mondo dell’industria (si riconoscono distintamente la Olivetti, dove Volponi lavorò per molti anni, e la Fiat), il romanzo disegna un ritratto magistrale dell’industria e dei suoi giochi di potere come metafora, chiave di lettura dell’intero complesso della società industriale - o fordista, come si preferisce dire oggi.

Rileggendo questo grande libro, da me ignorato a quel tempo, provo vergogna per l’elementarità delle mie narrazioni di allora al confronto con tanta articolazione di pensiero (anche letterario) e di struttura. Mi colpisce però anche un’altra cosa: che, di fronte al nuovo che avanzava (nel 1989 si parlava molto di nuovo che avanza, e ci si credeva), uno scrittore sperimentale e quindi votato al nuovo come Paolo Volponi cercasse una chiave di lettura narrativa della complessità sociale guardando all’indietro, agli anni dello scontro frontale tra capitale e sindacalismo, tra padronato e proletariato, tra custodia dell’ordine e sovversione.

La metafora della fabbrica, con le sue trame e il suo istinto di conservazione capace di trasformare un manager innovatore (Saraccini) in un sospetto terrorista e un operaio in cerca di giustizia (Antonino Tecraso, protagonista-ombra del romanzo) in un sovversivo, ci presenta la società industriale all’inizio del suo sfacelo, quando il sogno di dare più ricchezza al mondo si trasforma in un labirinto in cui ciascuno combatte solo per sé stesso (sono loro, le mosche del capitale) e in cui l’uomo non conta più niente.


La dissoluzione del mondo industriale segnò la dissoluzione di due culture: quella politica, che vide a poco a poco spegnersi la fiducia nelle regole condivise ad opera dell’egoismo indiscriminato e dell’odio per qualsiasi portatore di una vera idea; e la cultura operaia, che aveva a molti intellettuali gli strumenti per la comprensione e l’analisi della società ma che finì abbandonata come un ferro vecchio senza essere sostituita da nulla. Infine, Volponi ci parla della crisi di un’epoca in cui comunismo e umanesimo avevano formulato un’idea della dignità del lavoro. Racconta il lavoro, ne evidenzia bellezza e contraddizione.

Ma la dissoluzione, che già si profila nelle pagine di Volponi, toglierà al lavoro ogni parola. Chi, oggi, in Italia, tra gli scrittori più quotati, sa ancora parlare di lavoro? Chi ha le categorie per affrontarne i nodi? Alla vecchia dottrina estetica marxiana del rispecchiamento si sono sostituiti l’affabulazione, l’intrattenimento e la ghettizzazione della letteratura nel pollaio dei divertimenti e del tempo libero. Si è sostituito un pensiero che pensa separatamente dal «fare», un pensiero del dopolavoro, sentimentale, senza strumenti davanti alla notte che avanza.

FONTI :

Fabio Orrico su http://www.scrittinediti.it/blog/2010/12/16/le-mosche-del-capitale-ovvero-il-ritorno-di-un-capolavoro/

Il Giornale martedì 06 luglio 2010,

"Le mosche del capitale": quando romanzo faceva rima con lavoro

Eremo Via vado di sole , L'Aquila, lunedì 25 aprile 2011

ET TERRA MOTA EST : L’Aquila e la sua “ Red zone “

ET TERRA MOTA EST : L’Aquila e la sua “ Red zone “

Il centro storico aquilano ricorda, con polarità inverse, la favola di Cenerentola: di giorno è una zucca e a mezzanotte si trasforma in una carrozza dorata.

Nei giorni feriali, quando la luce del sole si infrange contro i puntelli disegnando gabbie d’ombra sul desolato suolo della tragedia, le vie “incerottate” dell’ex zona rossa, escludendo i turisti, sono quasi vuote, protagoniste di un triste panorama che porta la mente indietro nel tempo di 24 mesi. Con il tramonto, specialmente il giovedì e il sabato, il centro storico però cambia volto, riempiendosi dei giovani protagonisti della movida della «Red Zone». Un assaggio di vita che scompare alle prime luci dell’alba.

Da parte dei commercianti temerari che hanno riaperto le loro attività in centro arrivano lamentele quasi unanimi: frasi come «c’è poca gente» e «lavoriamo solo grazie ai turisti» rimbombano ormai da mesi tra gli edifici puntellati. Le cose vanno decisamente meglio per le strutture che lavorano di notte, ma anche queste ultime sono ben lontane dall’essere prive di problemi.

«Abbiamo aperto la nostra attività a gennaio fiduciosi nella ricostruzione, ma qui va tutto a rilento». A parlare è M.C., che gestisce, insieme a D.I., una paninoteca-bar nella parte iniziale del corso.

«Quando abbiamo aperto la paninoteca il trasferimento della Facoltà di Lettere e Filosofia nei locali dell’ex ospedale San Salvatore sembrava imminente, si parlava di maggio/giugno 2011, ma poi si è fermato tutto. Fino a qualche settimana fa nessuno stava lavorando sull’area e non sappiamo quando il progetto andrà in porto. Il nostro locale era pensato proprio per gli studenti, qui dentro abbiamo anche la connessione wi-fi, ma non sappiamo quanto dovremo ancora aspettare». Nel frattempo, tra gli studenti la reputazione “universitaria” dell’Aquila peggiora repentinamente: «gli studenti Erasmus – sottolinea M.C. – sono scontenti della vita in città e la sconsigliano a tutti».

«Oltre che negli studenti speravamo anche nel pranzo degli operai – aggiunge – ma anche questi ultimi sembrano diminuire. I lavori procedono a rilento, non c’è movimento, le uniche gru che vediamo sono quelle intorno alle chiese. Gli operai vengono, mettono le impalcature e poi non si sa più niente».

«Parlando con i militari che sorvegliano i varchi della zona rossa e gestiscono i pass di accesso sembrerebbe che gli ingressi sono in diminuzione» spiega M.C. e il dato è confermato anche dall’Ufficio Sicurezza Cantieri dal quale emerge che al momento in zona rossa operano «circa 300 maestranze per puntellamenti e demolizioni, meno dello scorso anno perché questa tipologia di lavoro va verso la conclusione».

«Non abbiamo nessun aiuto da parte del Comune e neanche agevolazioni – spiega M.C. –paghiamo tutte le tasse compresa l’occupazione di suolo pubblico». Poi c’è la burocrazia: «per sistemare i tavolini fuori dal locale abbiamo presentato richiesta alla Sovraintendenza, ci vorrà oltre un mese di tempo».

«Lavoriamo principalmente la notte – sottolinea M.C. – qui ci sono diversi locali e si sta creando un polo per i giovani. Ci sono locali con la musica alta e non so cosa accadrà quando la gente tornerà ad abitare in zona».

«Vorremmo avere delle risposte chiare da parte delle istituzioni – conclude M.C. – in particolare vorremo sapere il prima possibile quali sono i tempi per il trasferimento dell’Università nei locali dell’ex San Salvatore, quanti cantieri apriranno in centro nel prossimo futuro e se è nelle intenzioni del Comune sostenere in modo concreto le attività nel centro storico, magari con delle agevolazioni».

In attesa di riscontri i commercianti resistono aggrappandosi all’idea di un futuro più roseo e sperano che la scarpetta di cristallo, quando arriverà, sia almeno della misura giusta.

di Maria Chiara Zilli su http://www.ilcapoluogo.com/Blog/L-Aquila-unplugged/L-Aquila-un-centro-storico-che-vive-solo-di-movida-Video-51063


Eremo Via vado di sole ,L’Aquila,

lunedì 25 aprile 2011