giovedì 31 maggio 2012

ET TERRA MOTA EST : IL PRIMO PROGETTO DI CASA ANTISISMICA NASCE A FERRARA NEL 1571

ET TERRA MOTA  EST  :  IL PRIMO PROGETTO DI CASA ANTISISMICA NASCE A FERRARA NEL 1571

Chi l’avrebbe mai detto?  Veniamo da una grande civiltà abitativa di geniali e innovativi architetti-costruttori ma questa non se lo aspettava nessuno. Si riteneva che la prima casa antisismica, elaborata teoricamente fosse la gaiola portoghese, ideata dopo il terremoto di Lisbona del 1755, poi tornata di moda come casa baraccata, dopo i terremoti  della Calabria del 1783-1784.

Invece, più di due secoli prima, nel 1571, ci pensò Pirro Ligorio, architetto ed erudito illustre, già successore di Michelangelo come responsabile della fabbrica di San Pietro. Una vetta del sapere costruttivo. Nel suo Libro, o Trattato de’ diversi terremoti (codice 28 delle Antichità Romane, Archivio di Stato di Torino) si pose il problema:  ma perchè le case cadono con i terremoti? Perchè non ci si difende?  Se lo chiese camminando per una Ferrara semi distrutta dal un forte terremoto, accaduto appena due anni dopo al suo arrivo alla corte estense, nel novembre 1570.



L’ultima parte del suo trattato si intitola in modo inequivocabile: Rimedi contra terremoti per la sicurezza degli edifici. Egli motiva e disegna questa casa, che non ha precedenti nella cultura occidentale, e che si fonda sull’idea, davvero inusuale a quei tempi, che gli edifici possano resistere anche ai colpi trasversali inferti dai terremoti, non solo ai carichi verticali.
Una convinzione guida Pirro Ligorio in questo percorso: ossia che i terremoti non sono forze oscure e ineluttabili, ma stanno entro il campo della ragione e dell’umano capire: infatti come i terremoti accadono, dove e quali danni fanno è pertinenza della razionalità umana, perché, sostiene Ligorio, difendersi dai terremoti è un dovere dell’intelletto umano. Fa pensare il rimedio: costruire bene, costruire seguendo delle regole, ossia con scrupolo e preveggenza, pensando al futuro.  Un concetto che la nostra cultura italiana si è persa purtroppo alle spalle...

(il trattato è stato edito nel 2006 a cura di E. Guidoboni, coadiuvata da A. Cristofori e A. Comastri, De Luca editore, Roma). (1)




Domenica 20 maggio E’ accaduto da poche ore: un terremoto di magnitudo 5.9 o 6, secondo gli ultimi calcoli, alla profondità di circa 10 km, ha colpito il nord del ferrarese, un’area che aveva di sé un’immagine
non sismica, espressa dalla cultura diffusa e dalla resistenza e quasi sottovalutazione, con cui i suoi amministratori hanno spesso trattato questo tema. Quando si perde la memoria di eventi distruttivi del passato, come i terremoti, quando i risultati delle ricerche non vengono diffuse, si perde anche la percezione del rischio a cui si è esposti. Questo terremoto del ferrarese è un’amara dimostrazione: la maggior parte della popolazione non era consapevole di trovarsi in un’area sismica.
Un fulmine a ciel sereno.

Non basta quindi che qualcuno studi i terremoti del passato, che i risultati circolino in ambienti ristretti per formare la consapevolezza del rischio. Anzi, questi dati, passando fra culture diverse e poco comunicanti, come quella scientifica e quella storica, rischiano di essere scarsamente capiti e contestualizzati da chi poi li dovrebbe rendere noti.  Ridotti a meri parametri numerici, i risultati degli studi storici non dicono molto del potenziale distruttivo che indirettamente indicano, dei costi sociali ed economici che quei numeri dovrebbero richiamare alla mente, per trovare soluzioni, per vigilare.
E’ la “memoria consapevole” che può quindi stimolare un efficace e responsabile controllo sulla qualità delle costruzioni, a partire da quelle in cui si abita, dei monumenti e delle vetuste costruzioni con cui si convive e a cui è legata la propria memoria individuale. Chiese, torri, rocche: le vogliamo conservare?
Anche terremoti di elevata magnitudo non sarebbero necessariamente dei disastri, a condizione di accadere in società preparate a sostenere questa sfida.



Se prevedere è ricordare
Di questi paesi del ferrarese le cronache di oggi ci mostrano  desolati crolli, crepe sulle case, lesioni, muri lacerati di alcune costruzioni, capannoni crollati. Ancora non abbiamo un bilancio dei danni, oltre a quello delle cinque persone decedute e dei primi video. Per questi paesi, per Sant’Agostino in particolare, ai margini del grande bosco della Panfilia – uno dei rari boschi di pianura sopravvissuti – ho girato in bicicletta da bambina, e spesso ritorno ad esplorare questa pianura ampia e bellissima, piena di storia, strappata in molti punti alle acque delle esondazioni ricorrenti nella sua storia. Una terra che solo da alcuni decenni è stata regolamentata e resa florida, dopo secoli di perdite e di tormentosi abitare. Una terra i cui abitanti hanno l’attenzione nel DNA.  E i  suoi abitanti sono ben capaci di risolvere i problemi che questa terra pone. Ma i caratteri sismici non si vedono, né i terremoti si valutano prima che accadano. Però la storia ci mette in condizione di conoscere i danni già indotti. Però le scienze della Terra ci possono dare altre informazioni.

Però chi sa deve preoccuparsi di far sapere. E quindi deve essere ben chiaro che la trascuratezza sul rischio sismico e la sua sottovalutazione finisce per essere fortemente una responsabilità di chi amministra, e non ci sono deleghe e alibi.
E’ la responsabilità di chi deve informarsi e informare, e poi scegliere per altri. Se governare è prevedere, mai come nel caso dei caratteri sismici si deve aggiungere che prevedere è ricordare ciò che è già accaduto in passato. E qui, nel ferrarese, di terremoti ce ne sono stati già molti.


Fonte Il terremoto del 20 maggio 2012 del ferrarese .Un rischio sottovalutato di Emanuela Guidoboni (2)



Forti terremoti e ricostruzioni: la “catena” dei  disastri sismici
Nelle ricostruzioni si è sempre giocato il progetto di futuro che le società colpite sono state in grado di esprimere. In Italia le ricostruzioni totali di interi abitati (paesi e città) sono state negli ultimi cinque secoli molte centinaia. La ricostruzione è una fase delicata e poco nota della storia dei siti e degli assetti sociali ed economici delle aree colpite. La ricostruzione, anche oggi come in passato, non è solo la riparazione materiale o la ricostruzione ex novo di edifici: implica scelte, progetti, risposte.
Conservare o abbandonare sono stati nel lungo periodo i due poli entro cui si sono susseguite le ricostruzioni nella storia del nostro paese. Mai si è ricostruito tutto, mai si è abbandonato tutto. I segni di tali “scelte” sono rimasti nel paesaggio, nel patrimonio edilizio storico, nelle forme urbanistiche e persino nella forma delle reti abitative.  “Scelte” è tuttavia un termine che non esprime la realtà degli avvenimenti. Le ricostruzioni non sono infatti il risultato di atti dirigistici di volontà, ma di orientamenti politici e di contingenze culturali ed economiche, di opportunità, interessi, aspettative, ma anche di disponibilità tecnologiche e di conoscenze scientifiche e pratiche. Conoscere la storia delle ricostruzioni significa conoscere meglio la storia dei luoghi e dell’Italia.
Questa sorta di selezione, fra ciò che si è conservato e ciò che si è perso, ha dipeso in passato  dalle scelte amministrative e di governo, dai mezzi economici messi a disposizione, ma anche dalle prassi amministrative del tempo (che possono aver facilitato o ostacolato una ripresa): solo in tempi molto recenti, e non sempre, ha contato anche la volontà delle popolazioni colpite di scegliere “come” ricostruire. Nelle ricostruzioni si è comunque giocato il progetto di futuro, che una società è stata in grado di esprimere. Nel tempo breve (alcuni anni) e medio (diversi decenni) si possono storicamente rilevare anche altri fattori di grande importanza, quali la capacità o meno di una società di razionalizzare il terremoto e di sviluppare forme di adattamento, ossia di prevenzione. Le risposte al disastro sismico possono delinearsi come forme di adattamento se tendono a mitigare gli effetti di altri terremoti futuri.
Su questo aspetto ogni epoca ha elaborato un suo pensiero. I terremoti che negli anni sono accaduti nelle stesse aree hanno in un certo senso “collaudato” il patrimonio edilizio e la qualità di una ricostruzione precedente.

LE RICOSTRUZIONI DOPO UN TERREMOTO:  un nodo storico quasi sconosciuto della storia d’Italia  di Emanuela Guidoboni  (3)
  Fonte  ( 1 )   (2 )  (3) http://www.centroeedis.it/articoli/casa_antisism.html

Eremo Via vado di sole, L'Aqiuila, giovedì 31 maggio 2012

HISTORICA : Scienza e storia

HISTORICA :  Scienza e storia


CHE COSA E' UN EVENTO ESTREMO?
E CHE COSA E' UN DISASTRO?
Un "EVENTO ESTREMO" è qualsiasi evento di origine naturale fuori dalla norma misurata per quel determinato ambiente geofisico in un determinato spazio di tempo. Un "DISASTRO" è l'interazione distruttiva fra un evento estremo e i caratteri del contesto abitato in cui esso accade.

PERCHE’ IN GENERE NON SI RICORDANO I DISASTRI?
IL PESO INSOSTENIBILE DELLA MEMORIA “DISASTROSA”
I disastri sono sentiti come una sconfitta nel rapporto uomo-natura, o peggio si fa leva sul vittimismo delle comunità e degli individui, in un rapporto spesso di dipendenza con i decisori (quasi sempre poteri statali). Ma proprio nei momenti di crisi si possono aprire nuove prospettive, in un rapporto istituzionale equilibrato, dove la responsabilità individuale può diventare un perno di decisioni diverse. Ricordare per imparare.

SCIENZA E DISASTRI: QUALCOSA NON TORNA?
Oggi le scienze lavorano tutte sul presente: tecnicamente si sa benissimo come difendersi dai terremoti, come consolidare versanti, come evitare che le acque di piena travolgano case ecc.  Eppure i disastri non flettono in frequenza, anzi negli ultimi decenni è aumentata la propensione ai disastri. Eppure siamo più ricchi, più colti, più bravi di cinquanta o cento anni fa. I saperi scientifici e tecnici non fermano speculazioni e interessi individuali, anzi sono spesso utilizzati per soluzioni–tampone. Serve una cultura diversa e diffusa, basata su conoscenze e consapevolezza. Serve una conoscenza delle pericolosità ambientali ben radicata. Serve sapere cosa chiedere a chi amministra un territorio e serve che il rispetto delle norme divenga una priorità nazionale inderogabile.

PERCHE’ CONIUGARE SCIENZA E STORIA?
E’ possibile conoscere con molti dettagli e per un lungo arco di tempo la sismicità, l’attività vulcanica, la piovosità o la propensione alle frane di intere aree abitate. L’interazione di questi eventi di origine naturale, con la vita delle persone e dei luoghi abitati, significa conoscere quanto i disastri abbiano pesato sulle generazioni che ci hanno preceduto e le risposte che siano state date o meno a quei caratteri ambientali. Addentrarsi in questa storia consolida l’identità culturale e rafforza la consapevolezza che a quegli stessi rischi siamo ancora esposti, se non si interviene adeguatamente.
I fenomeni naturali geodinamici (terremoti, eruzioni vulcaniche) e quelli di origine atmosferica o climatica (alluvioni, siccità), anche se non sono eventi estremi, divengono disastri in un contesto abitato reso fragile e vulnerabile dalle azioni umane.
La conoscenza scientifica e storica degli eventi distruttivi già accaduti è in grado di mostrare, senza distorsioni catastrofiste o paure, la pericolosità e la sua stabilità nel tempo, quasi mai nota.  Alla pericolosità sismica e vulcanica sono esposti paesi e città. Conoscere la storia di queste interazioni con i centri abitati è la base per non temere la pericolosità della natura, ma cercare risposte corrette.

E IL DESTINO? CI SONO AREE “MALEDETTE”?
Atteggiamenti fatalistici e irrazionali favoriscono la perdita di consapevolezza della pericolosità ambientale e dei rischi connessi. Perché affidare le nostre prospettive di futuro a un “destino” ancorato a fantasiose cabale e coincidenze? Gli elementi di pericolosità sono noti all’ambiente scientifico degli addetti ai lavori. La possibilità di trovare soluzioni corrette dovrebbe essere valutata dai cittadini, così come si valuta l’eliminazione dei rifiuti urbani o la circolazione delle merci, o lo stato di efficienza delle automobili. Occorre attivare sempre più la comunicazione fra ambienti della ricerca e società. Se si conoscono i rischi a cui si è esposti, si accettano in modo responsabile norme di tutela e vincoli. Queste sono le basi di una nuova cultura della sicurezza abitativa.

POSSIAMO FERMARE I DISASTRI DI ORIGINE NATURALE?
SENZA ILLUSIONI
Non cerchiamo rassicurazioni – Non vogliamo allarmismi

Questo titolo SENZA ILLUSIONI poteva essere quello della giornata di Studio del 12 dicembre 2011, organizzata a Roma dal Centro EEDIS, nella prestigiosa sede storica dell’Accademia di San Luca, a due passi dalla fontana di Trevi.
La giornata atmosferica è stata fedele al tema: nella mattina un potente acquazzone ha mandato in tilt i trasporti di Roma, dando una pallida idea di quello che succede quando non si è pronti a sopportare eventi climatici, ben lontani dall’essere estremi!
All’insegna quindi della nostra debolezza di sistema, per così dire, hanno preso la parola oltre venti specialisti presentando uno spaccato inedito della storia d’Italia dal punto di vista dei disastri di origine naturale, e dei problemi connessi. Terremoti, frane, alluvioni, eruzioni vulcaniche hanno segnato la vita del Paese appena unificato, come d’altra parte era già successo nei secoli precedenti, negli antichi stati italiani, e come – non facciamoci illusioni – continuerà a succedere nei prossimi anni e secoli. Senza allarmismi, ma con le idee chiare, si è aperta una riflessione a più risvolti. Perché la scienza non riesca a comunicare correttamente e con convincimento i rischi che stiamo correndo, la cui conoscenza è invece alla base di ogni strategia di difesa? Perché rendere responsabile chi abita nelle aree a rischio sembra così difficile, come se si trattasse di bambini da rassicurare, anziché di adulti da responsabilizzare? Perché i beni culturali, la nostra ricchezza italiana, continuano ad essere erosi dai terremoti e da altri eventi distruttivi? La verità è che l’Italia, paese sviluppato e industrializzato, non è ancora riuscita a dare una risposta condivisa e di lungo periodo al problema dei disastri, ossia a formare una cultura della sicurezza, per la quale non sono sufficienti le conoscenze scientifiche e tecniche. Cosa possiamo fare fra i due poli portanti del problema, istituzioni e decisioni individuali?
Da questo incontro, ricco di dati e di riflessioni multidisciplinari, volto a un pubblico non specialistico, si farà nel corso del 2012 un libro, una sorta di manuale di sopravvivenza per il futuro, in cui la memoria storica e la consapevolezza dei danni subiti saranno la base da cui trarre gli orientamenti.
Fonte  : Centro EEDIS     http://www.centroeedis.it/articoli/casa_antisism.html


Eremo Via vado di sole, L'Aquila, giovedì 31 maggio 2012

martedì 29 maggio 2012

AD HOC : La conversione del plusvalore in profitto

AD HOC : La conversione del plusvalore in profitto

Nel messe di gennaio dello scorso anno   i lavoratori Fiat  hanno votato in un referendum le clausole di un nuovo contratto  che  si applicherà a una nuova società composta in joint venture tra FIAT e Chrysler, che è nata  nel 2012. In caso di entrata in vigore dell’accordo, FIAT confermerà e aumenterà ulteriormente gli investimenti nella storica fabbrica di Mirafiori, che arriveranno a un miliardo di euro.

Tale contratto prevede condizioni  diverse da quelle  nei contratti attualmente in vigore . In particolare  ci saranno quattro tipi di orario. Un primo tipo sarà quello attuale: due turni da otto ore al giorno, cinque giorni la settimana. Poi uno schema con turno di notte su cinque giorni lavorativi e uno con il turno di notte su sei giorni lavorativi, sabato compreso. L’azienda si è impegnata però a esaminare con i sindacati la fase di passaggio da un turno e l’altro, e a valutare insieme a loro la sperimentazione di uno schema che prevede turni due turni al giorno da dieci ore per sei giorni alla settimana. I lavoratori che lavoreranno dieci ore al giorno per quattro giorni potranno riposare gli altri tre giorni della settimana. L’azienda potrà ordinare ai lavoratori fino a 120 ore l’anno di straordinari. Il ricorso ai turni di notte e agli straordinari produrrà un incremento in busta paga fino a 3700 euro lordi l’anno.

E inoltre  l’’accordo in vigore prevede quaranta minuti di pausa per ciascun turno di lavoro. Il nuovo accordo prevede invece tre pause, ciascuna da dieci minuti: i dieci minuti lavorati in più verranno pagati 45 euro lordi al mese. Per i turni da dieci ore, invece, il totale delle pause rimarrà di 40 minuti. La collocazione della mezz’ora di pausa mensa sarà discussa successivamente tra la nuova società e i sindacati.

Infine l’accordo stabilisce delle quote proporzionali di assenze in azienda oltre le quali l’assenteismo si giudica eccessivo: il 6 per cento a luglio 2011, il 4 per cento a gennaio 2012, il 3,5 per cento dal 2013. In caso di assenze collettive oltre queste soglie, non si pagano i primi due giorni di malattia a chi negli ultimi dodici mesi si è ammalato subito prima di un giorno di riposo o di ferie. Sono escluse patologie gravi.

Leggendo sui giornali e assistendo al dibattito nelle  trasmissioni tivvù  i pareri su queste ipotesi ( che tra l’altro sono state accettate dai lavoratori e dalle organizzazioni sindacali, ad esclusione della Fiom   stando ai risultati del referendum ) mi è venuto in mente che forse Marchionne nel  fare queste proposte aveva davanti questa pagina  de “ Il Capitale”  di Carlo Marx



“Poniamo per esempio che un capitale di 100 produca 20 operai, tramite un lavoro di 10 ore e con un salario totale settimanale di 20, un plusvalore di 20; si ha in tal modo:
                                        80 C+20 v+20 pv; pv' = 100%, p' =20%.
Prolunghiamo la giornata lavorativa, senza accrescere i salari, a 15 ore; il valore totale prodotto dai 20 operai aumenterà da 40 a 60 (10: 15 = 40:60); giacché v, il salario pagato, resta identico, il plusvalore aumenterà da 20 a 40, ed avremo:
                                        80 C+20 v+40 pv; pv' =200%, p' =40%.
Qualora del resto, supposto un lavoro di 10 ore, il salario cala da 20 a 12, avremo un prodotto valore totale di 40 come prima, ma suddiviso in maniera diversa; v scende a 12 e quindi lascia un resto di 28 per pv. In tal modo avremo:
                                      80 c + 12 v + 28 pv; pv' = 233 1/3%, p' = 28/92 = 30 10/23%.

Vediamo quindi che tanto un prolungamento della giornata lavorativa (o un corrispondente incremento della intensità del lavoro ) quanto una caduta nei salari accrescono la massa e quindi il saggio del plusvalore; al contrario un aumento dei salari, restando immutata ogni altra circostanza, diminuirebbe il saggio del plusvalore. Qualora perciò v aumenta in seguito a un incremento dei salari, questo non significa un aumento della quantità di lavoro retribuito ma solo un suo pagamento a un prezzo più alto; pv' e p' non aumentano bensì diminuiscono.

Già da qui si vede come variazioni in una giornata lavorativa, nell'intensità di lavoro e nel salario non possano verificarsi senza contemporanee variazioni in v e pv nonché nel loro rapporto, cioè anche in p', rapporto di pv riguardo a c + v (capitale complessivo); come del resto cambiamenti in almeno una delle tre condizioni di lavoro summenzionate.
Qui si evidenzia appunto il particolare rapporto organico che lega il capitale variabile al movimento del capitale complessivo e alla valorizzazione di quest'ul¬timo, non meno che la sua differenza dal capitale costante. Quest'ultimo, allorché si consideri la formazione del valore, ha importanza esclusivamente per il valore che possiede; per questo importa ben poco per la formazione del valore se un capitale costante d: 1.500 L.St. rappresenti 1.500 tonnellate di ferro equivalenti ciascuna al L.St. oppure 500 tonnellate equivalenti ciascuna a 3 L.St. La quantità delle materie reali che il suo valore rappresenta è completamente indifferente per la formazione del valore e per il saggio del profitto, che cambia in senso contrario a questo valore; poco importa in qual rapporto stia l'aumento o la diminuzione del capitale costante nei riguardi della massa dei valori materiali d'uso di cui è espressione.


Allorché quindi la grandezza del valore del capitai e variabile cessa di essere indice della massa di.lavoro che esso pone in azione, allorché cambia la misura di questo stesso indice, alla stessa maniera cambia il saggio del plusvalore, ma in senso opposto e in rapporto inverso.”

E’ possibile che Marchionne voglia attualizzarla e attuarla ?

Eremo Via vado di sole ,L’Aquila martedì 29 maggio 2012 



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GRAMSCIANA : Gli indifferenti

GRAMSCIANA : Gli indifferenti


Odio gli indifferenti; Credo come Federico Hebbel che «Vivere vuol dire essere partigiani ». Non possono esistere i solamente uomini , gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L'indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica.

L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costrutti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all' indifferenza, all' assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa.

I destini di un'epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell'ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale. un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato-attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.

I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano cosi la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più  urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.
Odio gli indifferenti anche per ciò, che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in   essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l'attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli in-
differenti.

 Gli indifferenti Non firmato  su La Città futura   11 febbraio 1917 p.1

Eremo  via vado di sole, L'Aquila, martedì 29  maggio 2012

ET TERRA MOTA EST : Sismografie. Ritornare a L’Aquila mille giorni dopo il sisma

ET TERRA MOTA EST  :  Sismografie. Ritornare a L’Aquila mille giorni dopo il sisma

Sismografie. Ritornare a L’Aquila mille giorni dopo il sisma è una raccolta di nove saggi a cura di Fabio Carnelli, Orlando Paris e Francesco Tommasi, pubblicata poche settimane fa da Edizione Effigi. Nelle intenzioni dei curatori non si tratta di commemorare, bensì di rimemorare la catastrofe dell’Aquila. Se il lavoro di commemorazione fissa l’attenzione sull’evento singolo, straordinario e puntuale all’origine del trauma – una scala temporale, quella dell’evento, che la commemorazione condivide con il discorso giornalistico ed emergenziale –, il lavoro della rimemorazione esige uno sguardo lungo sui fenomeni, capace di tenere insieme le storie e di metterle a confronto: se la commemorazione lavora marcando una discontinuità narrativa, la rimemorazione è “ricostruzione” di una continuità di senso nel dopo-catastrofe.

I nove contributi – risultato di una rielaborazione di articoli pubblicati online sul blog di Il lavoro culturale – sono divisi in tre sezioni tematiche: economie del sisma, ricostruire l’abitare e spettrografie.
Nonostante la diversità delle prospettive disciplinari, delle aree d’analisi e delle metodologie applicate, mi sembra che emerga nei nove saggi una problematica comune: il rapporto tra l’agire “dall’alto” dell’istituzione e l’azione “dal basso” dei cittadini. Da una parte ci vengono così descritte le pratiche governamentali – per dirla con Michel Foucault – dispiegate dopo l’evento sismico. Tali pratiche di gestione dell’emergenza riducono la popolazione e il territorio a meri oggetti dell’esercizio di un potere eccezionale: quello garantito, in questo caso, dalle procedure di emergenza che hanno avuto come principale attore la Protezione Civile guidata da Guido Bertolaso. Sull’altro versante i saggi descrivono le strategie e le azioni di resistenza orizzontale messe in campo dagli abruzzesi e finalizzate a una riappropriazione del “diritto di decisione”: alla popolazione-oggetto dell’istituzione si contrappone così l’azione di una comunità-soggetto che rivendica il diritto ad autodeterminarsi.

Nell’ambito economico le procedure di emergenza trovano nella shock doctrine, emersa nell’ambito del neoliberalismo americano all’indomani del disastro di New Orleans, un fondamentale principio ispiratore per la gestione della popolazione e del territorio: le istituzioni e i governi, secondo i principi della shock economy, devono interpretare l’evento catastrofico come occasione “per plasmare le società che la catastrofe ha riportato all’anno zero” (p. 20), come spiega Stefano Ventura nel suo contributo.
Come sottolineano Fabrizio Petrei e Lina Maria Calandra nei loro articoli, questo tipo di dinamica , che sottrae il territorio alla disponibilità di chi lo abita, si crea soprattutto lì dove i circuiti di comunicazione tra istituzione e cittadini non funzionano più. In questi casi, come dice Calandra, occorre riconfigurare la sfera pubblica e il rapporto tra cittadino e istituzione al fine di permettere, in fase progettuale e decisionale, che il singolo possa contribuire a ripristinare “i propri dove”, partecipando alla ideazione e alla realizzazione tecnica, scientifica e politica della ricostruzione (p.32).

Nella seconda sezione, dedicata alle forme dell’abitare, la dialettica tra pratiche governamentali e pratiche di riappropriazione emerge in tutta la sua chiarezza con l’analisi della tendopoli come forma di “istituzione totale” portata avanti da Rita Ciccaglione ed Emanuele Sirolli. L’istituzione totale è:

    il luogo in cui gruppi di persone risiedono e convivono per un significativo periodo di tempo.
    I tratti distintivi di detta istituzione sono:

        l’allontanamento e l’esclusione dei soggetti istituzionalizzati
        l’organizzazione formale e centralizzata del luogo e delle sue dinamiche interne
        il controllo operato dall’alto sui soggetti-membri” (p. 63)

L’irreggimentazione spaziale (la divisione degli spazi interni ai campi) e temporale (per esempio i riti dell’alzabandiera e del silenzio che aprono e chiudono le giornate degli sfollati) della vita nella tendopoli è alla base secondo Sirolli dell’emergere tra gli aquilani di una “sindrome da istituzionalizzazione”. La vita dei singoli, regolata e resa funzionale agli scopi organizzativi e di gestione dell’emergenza dettati dall’autorità (spesso militare), diviene mero oggetto passivo di intervento esterno: la capacità di azione e iniziativa del singolo viene così mortificata e il soggetto si sente incapace di incidere sulla propria condizione. La sindrome da istituzionalizzazione costituisce in questo senso l’effetto di pratiche governamentali che invece di aiutare il soggetto a sviluppare capacità di resilienza e recupero, come auspica Ciccaglione, ne peggiorano lo stato psico-fisico.

Soprattutto di pratiche di resistenza e riappropriazione parlano invece i due saggi di Fabio Carnelli su Paganica e di Salima Cure, Isabella Tomassi e Filippo Tronca su Pescomaggiore. Si tratta del caso di due comunità che ricostruiscono la propria “geografica simbolica” sia attraverso la riproposizione di processioni religiose – nel caso di Paganica –  che attraverso la “autocostruzione” di un villaggio ecosostenibile seguita al rifiuto della popolazione di Pescomaggiore di abbandonare il territorio così come richiesto dalle autorità. Cure, Tomassi e Tronca rileggono quest’atto alla luce delle filosofie della comunità recentemente sviluppate e vedono in Pescomaggiore un esempio pratico di governance as a common.


L’ultima sezione, Spettrografie, integra al quadro fin qui tracciato due aspetti fondamentali: il discorso mediatico e quello umanitario. L’analisi di Daniele Dodaro e Antonio Milanese ha al centro le gallerie fotografiche online pubblicate sul sito del quotidiano La Repubblica e sul sito del settimanale L’Espresso. I tempi della cronaca e quelli dell’emergenza si rispecchiano nella scelta del quotidiano di racchiudere il percorso del lutto in sei giorni, tracciando una scansione narrativa che va dalle immagini “intense” della distruzione a quelle “distese” degli sfollati nelle tendopoli ritratti in una “straordinaria ordinarietà”. L’Espresso decide invece di prolungare il proprio racconto fotografico e soprattutto di riprendere anche l’azione degli sfollati: non più dunque soggetti “agiti” prima dalla forza naturale e poi dall’istituzione, ma soggetti d’azione e in azione.
Il saggio di Francesco Zucconi, nella analisi della sovrapposizione tra la sofferenza degli aquilani e i riti e l’iconografia della settimana santa (il terremoto avvenne il lunedì santo e i funerali di duecentocinque delle trecentootto vittime si tennero il venerdì), mette in evidenza quanto il discorso umanitario rischi di divenire elemento di rinforzo delle pratiche governamentali, dando luogo a una “tecnocrazia umanitaria” che sospende “ogni partecipazione democratica e ogni collegialità decisionale” (p. 106) in nome della tutela della vittima e per la buona riuscita di una nuova missione umanitaria

Gli autori di Sismografie lavorano su un evento che è ancora molto vicino a noi e su cui abbiamo ancora molto da riflettere. In tal senso i saggi della raccolta sono ricchissimi di idee e analisi interessanti che però a volte non vengono pienamente sviluppate, lasciando il lettore con la voglia di saperne di più. Inoltre in alcuni passaggi sarebbe stato utile collegare gli studi sul sisma aquilano a una bibliografia ormai abbastanza ricca sui fenomeni sismici: dagli studi storici di John Dickie sul terremoto di Messina alle analisi di Augusto Placanica su un terremoto calabrese del 1783, dalle riflessioni filosofiche di Susan Neiman sul terremoto di Lisbona al filone degli studi sulla governamentalità della scuola di Paul Rabinow fino a giungere in Italia al “paradigma immunitario” di Roberto Esposito.

Il volume dimostra tuttavia con chiarezza, all’indomani del terremoto emiliano, l’importanza di indagini di questo tipo. Ci dimentichiamo molto spesso, infatti, che la catastrofe sismica è il risultato dell’“incontro” tra due grandezze su cui è possibile in qualche modo agire: l’evento naturale e il sistema antropico in cui questo avviene.

Se dal lato dello studio dell’evento naturale siamo in attesa che la sismologia arrivi presto all’elaborazione di sistemi affidabili per la previsione dei fenomeni sismici, dal lato dell’analisi dei sistemi antropici l’economia, la geografia umana, la psicologia, l’antropologia e la semiotica possono aiutarci a elaborare nuove strategie per diffondere una buona cultura della prevenzione, per rafforzare la resilienza rispetto a eventi catastrofici e per migliorare i processi di “empowerment” delle popolazioni colpite dai disastri. Sismografie e il lavoro degli autori dei saggi in esso contenuti sono un buon esempio di quanto questi saperi pratici e teorici, se messi opportunamente in azione, ci aiutino ad affrontare questi eventi con più consapevolezza e forse con più efficacia.

Il libro è disponibile in formato ebook, ordinabile in libreria o scrivendo all’editore


 Daniele Salerno in  http://centrotrame.wordpress.com/2012/05/25/sismografie/#more-2310

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì 29 maggio 2012

sabato 26 maggio 2012

BIBLIOFOLLIA : “La Biblioteca sfregiata ”

BIBLIOFOLLIA   :  “La Biblioteca sfregiata ”

Almeno 240 libri sottratti a una grande biblioteca storica, quella dei Girolamini a Napoli, sono stati ritrovati a Verona in un deposito collegabile a Marino Massimo De Caro, che ne è il direttore. Questa non è solo una devastante notizia di cronaca, ma il simbolo della colpevole incuria in cui giace il nostro patrimonio culturale. La biblioteca dei Girolamini è illustre. Non solo per la sua origine (dagli Oratoriani di San Filippo Neri) e perché vi studiò G. B. Vico, ma anche per l´imponente raccolta di manoscritti e volumi antichi. E´ famosa anche per essere stata depredata negli anni Sessanta, con uno strascico di processi in cui furono coinvolti alcuni Oratoriani. La biblioteca divenne statale sin dal 1866, ma con una struttura istituzionale assai fragile: conservatore dei Girolamini, con nomina ratificata dallo Stato, è un Oratoriano (oggi il p. Sandro Marsano), e a lui spetta nominare, col consenso del ministero, il direttore della biblioteca. Massimo titolo del De Caro al momento della nomina era la sua qualifica di consulente del ministro dei Beni Culturali «per le relazioni impresa-cultura, l´editoria e le energie rinnovabili». Nessuna laurea, nessun titolo specifico: se non quello di mercante di libri antichi (indagato in Italia, e sospettato in Argentina, per commercio di libri rubati) e amico di un famoso bibliofilo (il sen. Dell´Utri). Curriculum davvero brillante, quel che ci vuole per esser nominato consulente da due ministri: prima Galan, poi Ornaghi.
Lo stato di abbandono della biblioteca, anche prima che i sospetti di furti diventassero certezza, fu denunciato da due professori dell´università di Napoli e da un giornalista, Gian Antonio Stella (sul Corriere del 17 aprile). Ma né queste accuse né un appello con migliaia di firme hanno indotto Ornaghi a rimuovere De Caro dall´incarico, né a istituire una commissione d´inchiesta. Intanto la sen. De Feo (Pdl) si è affrettata a scrivere sul Corriere del Mezzogiorno (11 aprile) che De Caro tratta i libri dei Girolamini come «un medico che amorevolmente esamina i pazienti»; in un´interrogazione dei sen. Piscicelli e Palmizio (gruppo “buongoverno”) si chiedeva al ministro Profumo di indagare se i due professori di Napoli avessero il diritto di denunciare lo stato miserevole dei Girolamini. Altri invece (le onn. Bossa e Di Biasi, del Pd) chiesero a Ornaghi come intendesse reagire alle allarmanti notizie, ma il ministro rispose il 19 aprile lavandosi le mani, scaricando ogni responsabilità sugli Oratoriani e annunciando che il De Caro si era “autosospeso” da direttore della biblioteca. C´è voluto un blitz dei Carabinieri, che hanno messo i sigilli alla biblioteca, ci sono volute le indagini della magistratura per indurre l´indeciso Ornaghi a cancellare De Caro dalla lista dei propri consulenti, senza peraltro rimuoverlo dall´incarico.
MASSIMO MARINO DE CARO direttore biblioteca Girolamini (foto Pinde)
Per evitare scandali di tal fatta, sarebbe necessario un forte intervento istituzionale di natura generale: si dovrebbe portare la biblioteca dei Girolamini sotto il pieno controllo dello Stato (come è per altre biblioteche di identica origine, fra cui la Vallicelliana a Roma). Si è provato a fare il contrario: il Regio Decreto del 1866 è stato incluso da Calderoli (2008) fra le leggi “inutili” da abrogare. Per fortuna l´ufficio legislativo dei Beni Culturali nel 2009 riuscì in extremis a salvare quella norma tutt´altro che inutile. La situazione attuale è intollerabile: la convenzione fra lo Stato e gli Oratoriani va rinnovata anno per anno (!), favorendo l´indecente scaricabarile a cui abbiamo assistito.
De Caro rivendica per sé stesso altri meriti: per esempio dice di essere il vero principe di Lampedusa (ma Gioacchino Lanza Tomasi, a cui spetta il titolo, ha smentito l´impostura); ha avuto onori e gloria da un´oscura università privata argentina, in cambio di quattro libri e un meteorite. Ma nel curriculum di questo non-laureato, non-principe e non-bibliotecario autosospeso da direttore dei Girolamini (ma non dimissionario né licenziato) brilla un´altra stella: egli è segretario organizzativo dell´associazione politica del “buongoverno”, che a sua volta è erede dei circoli del sen. Dell´Utri.
L´irresponsabile taglio al bilancio dei Beni Culturali operato da Tremonti nel 2008 col complice silenzio di Bondi è alla radice del precipitoso degrado del nostro patrimonio, affrettato dal progressivo estinguersi del personale per limiti di età e mancanza di turn over. Intanto, voci interessate o incompetenti ripetono che per tutelare bisogna mettere in soffitta l´art. 9 della Costituzione, che assegna questo compito allo Stato, e privatizzare a marce forzate. Per costoro, chi ruba i libri da una biblioteca sarà forse un eroe (o un martire?) della privatizzazione. Per chi ancora crede nella Costituzione e nella legalità diventa sempre più urgente capire quali mai siano in proposito le idee e i progetti del ministro Ornaghi, bravissimo a tacere. Intende assecondare l´agonia del suo ministero o proporre un piano di rilancio della tutela (e dunque anche delle assunzioni)?
Per tornare a Napoli: come mai il ministro non ha commissariato la biblioteca nonostante le indagini in corso? Il 13 aprile Ornaghi ha avviato le procedure di commissariamento del Maxxi di Roma, defenestrando di fatto un funzionario bravo e competente come Pio Baldi; il 19 aprile al Senato ha legittimato la nomina di un incompetente alla direzione dei Girolamini. E´ questo, ministro Ornaghi, quello che dobbiamo aspettarci da Lei? Il trionfo dell´incompetenza, un ministero dei Beni Culturali intento a delegittimare i propri migliori funzionari, cioè se stesso?

La Repubblica 23.05.12  “La Biblioteca sfregiata e il ministro Ponzio Pilato”, di Salvatore Settis
Cinque persone sono state arrestate dai carabinieri per la tutela del Patrimonio artistico per il furto di antichi volumi e manoscritti custoditi nella Biblioteca dei Girolamini di Napoli. In carcere anche Massimo Marino De Caro, direttore della struttura fino al 19 aprile quando aveva annunciato la sua autosospensione dall’incarico.

Ordinanze di custodia cautelare, emesse dal Gip di Napoli, anche per l’argentino Eloy Alejandro Cabello, l’ucraino Viktoriya Pavlovskiy, l’argentina Paola Lorena Weigandt e Mirko Camuri. Le indagini sono state condotte dai carabinieri per la tutela del patrimonio artistico e coordinate dalla Procura di Napoli. Accertamenti in corso nei riguardi di un altro cittadino argentino, Cabello Cesar Abel, individuato e sottoposto a perquisizione poche ore prima di imbarcarsi su volo diretto a Buenos Aires.Con «più azioni esecutive anche in tempi diversi di un medesimo disegno criminoso, si appropriavano di manoscritti, volumi e beni costituenti il patrimonio librario» della biblioteca Girolamini: ben 257 volumi. È questa l’accusa della Procura di Napoli rivolta ai cinque arrestati. Una biblioteca, scrive il procuratore aggiunto, Giovanni Melillo, «gravemente e forse irrimediabilmente smembrata e mutilata». Per la Procura di Napoli, Massimo Marino De Caro, nella sua qualità di direttore della Biblioteca statale oratoriale annessa al Monumento nazionale dei Girolamini, Sandro Marsano, nella sua qualità di Conservatore della Biblioteca e sottoposto a indagini, Eloy Alejandro Cabello, Viktoriya Pavlovskiy, Abel Cesar Cabello e Paola Lorena Weigandt, «quali collaboratori personali di De Caro, si appropriavano di manoscritti e di altri beni, con l’aggravante di di aver cagionato all’amministrazione dei beni culturali, con condotte realizzate dopo aver acquisito il sostanziale controllo dei luoghi adibiti alla custodia dei beni librari e una pressochè assoluta libertà di movimento all’interno dei medesimi in capo anche a soggetti estranei all’amministrazione pubblica e alla congregazione religiosa».

Il tutto, scrive Melillo, determinando un «danno patrimoniale allo stato non ancora determinabile, ma di ingente quantità». Sono in corso accertamenti, anche mediante richieste di assistenza giudiziaria internazionale, «volti ad individuare le modalità operative, i canali di commercializzazione dei libri e dei manoscritti sottratti nonchè ad individuare i beni librari recuperabli».

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, sabato 26 maggio 2012

giovedì 24 maggio 2012

ET TERRA MOTA EST : La città senza urbanistica rischia anche l’oblio

ET TERRA MOTA EST :  La città senza urbanistica  rischia anche l’oblio


In attesa del nuovo assessore all'urbanistica. Mezzo secolo di Prg di prima generazione. L'Aquila che cresce senza programmazione. Il professor Romano e la città policentrica.



Finita la campagna elettorale e scelto il Sindaco della Ricostruzione, si passa al piano B: immaginare e disegnare la nuova città. L'ultimo anno è trascorso con l'anestesia delle imminenti elezioni e nessuna decisione, soprattutto tra quelle scomode, è stata presa, per non creare malessere e malcontento tra la popolazione. Ora si sceglie la squadra di governo, cioè la regia della programmazione.
La tematica centrale della delicata fase di ricostruzione della città dell'Aquila è sicuramente l'urbanistica e, quindi, fondamentale sarà l'assessore competente. Il post sisma ha brutalmente evidenziato le mancanze del piano regolatore aquilano, vecchio ed anacronistico. Il comune dell'Aquila è rimasto fermo, in ambito di pianificazione territoriale, agli anni compresi tra il 1968 e il 1977, quando cioè le esigenze abitative e di vita erano totalmente diverse. «Del resto la pianificazione degli anni '70, definita di prima generazione, - come ci dice il prof. Bernardino Romano dell'Università degli studi dell'Aquila - serviva a raggiungere determinati esiti di crescita, senza sensibilità e maturità per affrontare tematiche che si sono imposte successivamente, come gli elevati requisiti ambientali e la sostenibilità in campo edilizio, urbanistico, energetico e trasportistico.

In termini di classifiche - ha aggiunto il professore - il comune dell'Aquila appartiene a quella sparuta minoranza di capoluoghi di provincia (meno di 10 su quasi 120, di cui la maggior parte in avanzata fase di rinnovo) e a quel 7-8% dei comuni italiani che, secondo i dati del Rapporto dal Territorio dell'INU, è attualmente ancora fermo alla pianificazione degli anni compresi tra il 1968-77. Non è ben chiaro come una città che ambisce al blasone di Capitale Europea della Cultura non appartenga almeno a quell'80% dei comuni dell'Italia centrale che ha un piano elaborato dopo il 1985, o a quel 60% che lo ha aggiornato dopo il 1996 o a quel 40% che ha pianificato dopo il 2000.» Il confronto con le date di ultimo aggiornamento di altri comuni affini per dimensioni e problematiche è impietoso: Terni 2003, Rieti 2004, Lanciano 2011, Sulmona 2006, Teramo 2006, Chieti 2008, Pescara 2009.

L'Aquila del post sisma si è sviluppata con comportamenti sociali individuali ed estemporanei, non ascritti ad una programmazione, nè urbanistica nè commerciale, che risulta essere inesistente anche laddove si sono dovuti abbattere delle porzioni di quartiere che avrebbero permesso di ridisegnare organicamente la zona, nel rispetto di tutti gli aspetti urbanistici più moderni.

«La periferia urbana dell'Aquila - afferma Romano - non viene mai presa in considerazione nelle tante esternazioni propagandistiche che si fanno sulla ricostruzione della città, come se fosse un elemento estraneo all'assetto territoriale e non si analizzano le qualità di questa periferia che, allungata per oltre 30 km (da S. Gregorio a Barete), misura quasi 10 km in più del diametro massimo del GRA di Roma (Roma ha quasi 3 milioni di abitanti), nonché circa i 3/4 delle massime diagonali urbane di Parigi o di Berlino (metropoli con, rispettivamente, più di 6 milioni e 3,5 milioni di abitanti.

Dopo il terremoto - ha spiegato il professore - c'è stata l'acquisizione, spontanea, di una fisionomia policentrica della città. La forzata e totale estromissione delle funzioni dal centro storico ha proiettato nelle periferie quella tipica gamma di servizi che danno spessore ai "centri", cioè quelli commerciali specializzati, quelli direzionali e professionali, quelli finanziari o quelli ospedalieri. Naturalmente un ruolo significativo è stato giocato dal trasferimento delle masse di popolazione nelle new town e ricollocate in posizioni geografiche del tutto diverse da quelle precedenti. Se i servizi pubblici si sono spostati con criteri di disponibilità ed economia dei nuovi contenitori, quelli di mercato (e anche questo è uno dei "fondamentali" dell'urbanistica) hanno seguito le concentrazioni demografiche da cui traggono la clientela. La assenza di un disegno programmatico che possa pilotare questa evoluzione sta creando larghi spazi di affermazione a fenomeni attrattivi parassiti senza controllo, che sono in atto e che si rinforzeranno sempre di più irrobustendo l'attuale fisionomia delle conurbazioni maggiori.

Non avendo la possibilità, quindi, di costruire centri storici ex novo che diventano tali grazie alla stratificazione storica avvenuta nel corso dei secoli, bisogna dotare la città di altri luoghi "centrali" utili a coprire le esigenze insediative di una comunità che si evolve e che abbiano - come dice Romano - una elevatissima qualità di progettazione urbanistica ed architettonica, creando cioè attrazione con impianti ed edifici innovativi nelle forme, nei materiali e, in altre parole, nel paesaggio urbano costruito». Creare quindi una città "policentrica" che deve essere progettata in tutte le sue funzioni e servizi utili alla cittadinanza come ad esempio la mobilità, anello portante della catena dell'organismo urbanistico. «Dopo il terremoto del 6 aprile c'è stata l'acquisizione, spontanea, di una fisionomia policentrica molto più accentuata. "Spontaneamente" appunto, cioè senza una guida dei processi e quindi con una enorme incertezza negli esiti. Naturalmente un ruolo significativo è stato giocato dal trasferimento delle masse di popolazione nella new town.

Il territorio aquilano - conclude l'urbanista - viene, senza un efficiente piano programmatico, mangiato quotidianamente dalle costruzioni selvagge che stanno invadendo le pianure esponendo l'ambiente a rischi idrogeologici e rendendo, in un futuro prossimo, molto più complicata un'azione di pianificazione e riordino del connettivo urbano. La periferia aquilana deve essere ripensata in termini urbanistici che prevedano un accordo sulle tipologie volumetriche, le finiture e i colori da utilizzare per gli esterni. Senza questa programmazione si perde un'occasione clamorosa di miglioramento della funzionalità e dell'estetica della città».
IL capoluogo 24 maggio 2012

Salvatore Settis: "Gli Aquilani cambino mentalità o L'Aquila sarà dimenticata"
Salvatore Settis, docente emerito presso la Scuola Normale Superiore di Pisa ed eminente figura del panorama culturale nazionale ed internazionale, ha visitato L'Aquila ed il suo centro storico in occasione del convegno Paesaggio Costituzione Cemento.

Intervistato da Germana Galli, per la rivista culturale Mu6, ha detto la sua sul terremoto aquilano e sulla difficile ricostruzione.

-In questi giorni ha avuto modo di visitare la città e le new towns. crede che L’Aquila sia metafora della situazione del degrado paesaggistico dell’intero paese?

L’abbandono del centro storico dell’Aquila al suo destino è uno scandalo nazionale, e non solo nazionale. Il fatto che un tessuto urbano tanto ricco e prezioso sia sostanzialmente ancora nello stato in cui era all’indomani del terremoto è raccapricciante. Quando diciamo che questo abbandono è metafora di quanto accade in tutta Italia, qualcuno può pensare che stiamo esagerando, che l’emergenza e il degrado dell’Aquila sono dovuti a un evento straordinario come il terremoto. Ma un Paese dal territorio fragilissimo, franoso e a rischio sismico dovrebbe prima di tutto lavorare di più nella prevenzione e messa in sicurezza; dovrebbe, anche, reagire prontamente e con criteri chiari agli eventi distruttivi. Nulla di tutto questo: la cifra del degrado di cui l’Aquila è il simbolo la danno le sinistre risate di un imprenditore edile, che nella notte stessa del terremoto individuò nelle disgrazie altrui un’opportunità di profitto per se stesso. Lo sciagurato sapeva già, con l’intuito sicuro dei predoni,che un sano progetto di ricostruzione non ci sarebbe stato. Ma è con decisioni a livello nazionale che si sarebbe dovuto porre rimedio, e invece abbiamo visto montare intorno al terremoto quasi solo ciniche operazioni propagandistiche.

-Le responsabilità di questo degrado sono ascrivibili al legislatore, agli enti locali o all’assenza di controllo al controllore?

Credo che siano responsabilità condivise, ma l’incapacità di creare una regia unica e soprattutto competente è certamente un fattore primario del degrado. C’è tuttavia da chiedersi se la frammentazione delle iniziative e delle istanze, l’assenza di una visione generale, la rinunzia a ogni progetto coerente non siano anche ispirate, sotterraneamente, dalla diffusa tendenza ad approfittare sempre di tutto, quando siano disponibili fondi pubblici, perché i soliti furbi possano tirare l’acqua al proprio mulino.

-La cementificazione comporta anche danni collaterali, tra i più evidenti il vulnus al paesaggio provocato dalle attività estrattive. Le sembra adeguata l’attuale normativa che regola questa attività?

Il problema non sono solo le norme, ma anche la rinuncia a farle osservare. Le cave, per esempio, sono una necessaria attività estrattiva, che però dev’essere limitata nel tempo, e quando una cava viene chiusa dovrebbe essere “ripasciuta”, sanando la ferita inferta al paesaggio. Ma questo non viene fatto quasi mai, e chi dovrebbe intervenire e costringere le imprese a seguire questa norma elementare spesso non si muove. In Campania, anzi, alcune cave sono state riempite con orrendi ammassi di rifiuti anche tossici. Così un danno si agiunge all’altro, e il degrado cresce.

-Con la fine delle gestioni commissariali all’Aquila, le Soprintendenze svolgeranno una funzione centrale nella ricostruzione dei beni culturali. Crede che gli uffici territoriali, a fronte di un così imponente lavoro, abbiano le “forze” necessarie?

Non ho tutti gli elementi per rispondere. Posso solo dire che non è solo questione di contare i numeri delle persone disponibili. Se, come pare, ci sono circa 300 unità, per sapere se bastano occorrerebbe avere altri tre elementi di giudizio: primo, come sono stati selezionati, e se le competenze e la motivazione di ciascuno di loro sono all’altezza del problema; secondo, se esiste un piano ben fatto di intervento; terzo, se è stata creata una struttura organizzativa e amministrativa in grado di gestire la situazione con altissima professionalità e piena efficacia.

-In occasione della visita del premier Mario Monti a L’Aquila si è discusso del futuro della città ed è stato illustrato il progetto “Abruzzo verso il 2030: sulle ali dell’Aquila” proposto dall’OCSE e dall’Università di Groningen. Cosa ne pensa?

Come ho scritto su Repubblica del 7 aprile, mi pare un pessimo segno lo slogan assai frivolo “trasformare l’Aquila in una smart city”. Il progetto contiene affermazioni generiche e retoriche, come l’idea di fare della città «un prototipo, un laboratorio vivente, uno studio di caso, che sfrutti nuove tecnologie per migliorare la qualità della vita». Cito da quel mio articolo: «La ricostruzione? Può aspettare, anzi secondo il progetto sarebbe sbagliata «l’intenzione di ricostruire prima e poi trovare i mezzi per progredire». Bisogna, anzi, «spostare il centro dell’attenzione dalla ricostruzione fisica allo sviluppo economico e sociale». L’Aquila dev’essere «adatta a nuovi modelli di business», candidarsi a capitale europea della cultura, e non toccare una pietra senza prima aver lanciato un concorso fra «architetti di fama mondiale», che intervengano sugli edifici cambiandone la destinazione d’uso per farne «luoghi moderni concepiti in maniera creativa, modificando gli interni e conservando le facciate storiche degli edifici». Insomma, «celebrare il passato» lasciando in piedi le facciate, costruire il futuro sventrandone gli interni. E poi, tanta tecnologia: energia pulita, Internet per tutti, città cablata. Non una parola sul riscatto dei cittadini dall’esilio nelle squallide newtowns: per sentirsi intelligenti, smart, all’avanguardia, per volare «sulle ali dell’Aquila» (altro slogan del progetto) meglio rimandare la ricostruzione, puntare su concorsi di architetti e realtà virtuale. Gli aquilani sono invitati a «cambiare modo di pensare», se no «L’Aquila diventerà una collettività frammentata, una città isolata e dimenticata»: ottima descrizione, vien da dire, di quel che oggi essa è.». Insomma, mi pare un pessimo progetto, velleitario e parolaio.

-Pensando alle sue esperienze lavorative nel mondo della cultura non solo di docente alla Normale di Pisa ma anche ai prestigiosi incarichi all’estero come al Getty Center di Los Angeles, come si potrebbero aiutare i musei, i teatri, i siti archeologici, le biblioteche, a raggiungere una maggior autonomia dallo Statoitaliano?

Non penso affatto che i musei debbano essere autonomi dallo Stato, penso che debbano esserlo nello Stato, e nelle altre amministrazioni pubbliche. Occorrerebbe in tal senso una profonda riforma, le cui linee essenziali sono a mio avviso chiarissime. Ma la mancanza di indirizzo al Ministero dei Beni Culturali, e la marginalizzazione di questi temi anche nell’agenda del governo Monti, non fanno sperare bene in tempi brevi.

Abruzzo 24 ore  giovedì 12 maggio 2012

Eremo Via vado si sole, L'Aquila   giovedì 24 maggio 2012