sabato 14 settembre 2013

VERSI D’ALTRI E ALTRI VERSI . "Senza prima né poi, appena un mentre"

VERSI D’ALTRI E ALTRI VERSI . "Senza prima né poi, appena un mentre"


  
Sulla poesia di Emilio Rentocchini


Cominciamo da due fotografie. Meglio, daun’unica istantanea che si scompone – o si biforca? - in due.
C’è un uomo che cammina per un sentierodi campagna; a vederlo così, il gesto di chi mette avanti la gamba destra, unpasso ancora, deciso, negli abiti chiari, le mani nelle tasche, di fianco lanatura che dà aria e sembra supplisca al volto - tagliato fuoridall’inquadratura - sembra davvero che naturaleo natura siano l’aggettivo e ilnome giusto per chiudere il quadro nella misura di una cornice idillica, senzaombre.   
Ma l’ombra c’è. Basta guardare la stessafoto a figura intera: lì c’è sempre la natura, e l’uomo che cammina, ma nescorgiamo il volto, e dietro quel volto, l’ombra - la sua ombra - gettata comeun soprabito dietro le spalle che lo accompagna come per dare una vibrazione didisequilibrio a quel passo che il flash dell’ istantanea tenta di sottrarre allaprecarietà.
Chi abbia per le mani una copia di Segrè, l’elegante volumetto di poesiestampato nel 1998 dalla Libreria Incontri di Sassuolo, ha bene impresso nellamente quel passo, e la cadenza con cui Emilio Rentocchini fin dalla copertinaci convoca nel mondo della sua poesia.
Il suo infatti non sembra il passocordiale di chi ti viene incontro, ma piuttosto quello ritroso e schivo di chisi allontana, lasciando però una scia che chiede con discrezione di essereseguita.
Questa impressione di allontanamento èforse data, nel libro, dalla disposizione - o come si diceva prima,scomposizione - della foto (a proposito, l’autore, il fotografo Diego Cuoghi, èanche l’artefice del raffinato progetto grafico del libro), in maniera tale chel'’ingrandimento, campeggiando in copertina, rigetta, come un enjambement, lafoto intera nello spazio più riposto del controfrontespizio, di fattoproiettandola in una distanza evocativa, prolungandola come un’eco ancorapercepibile di parole a distesa.
Chiediamo scusa al lettore se abbiamoaperto il discorso su un poeta con una divagazione apparentemente cosìimmotivata a riguardo di una foto di copertina. A nostra scusante vorremmoavvertire, qui ed ora, che per una strana casualità (ma sarà davvero casuale?Sciascia ci ha insegnato che nella casualità è da ricercarsi l’unico ordinepossibile) l’osservazione di quella fotografia, il suo scomporsi in due, e ineffetti proprio la sua esibita dualità, ci sembrano istruttive per avvicinarel’opera di un poeta che scrive due volte i suoi testi, in italiano e neldialetto di Sassuolo. Restiamo ancora un poco sulla soglia per aggiungereun’altra cosa che ci preme molto: noi non intendiamo contribuire ai dibattiti,le querelles, le petizioni a favore o contro, per non dire le discussioniteologicamente raffinatissime sull’ontologia della poesia dialettale, tral’altro crediamo che Emilio Rentocchini al di là di tutto tra i cosiddetti neo - dialettali ci starebbe assai apigione. Neanche ci interesserebbe parlare della sua poesia se si trattassesoltanto di prenderla e collocarla come fosse una bandierina nell’affollatacartina geopolitica della poesia italiana contemporanea. Lasciamo ad altriquesta ed infinite altre “eunucomachie” (direbbe il Foscolo; e penso a una sualettera –attualissima, dovrebbero impararla a memoria tutti i direttori diriviste letterarie - al Pellico) . A noi piace in questa sede ricordare esoprattutto mettere in pratica con i nostri poveri mezzi un dupliceinsegnamento: quello pavesiano, per cui i libri sono strumenti privilegiati perarrivare al cuore di un uomo; ad esso aggiungendovi le parole che abbiamoascoltato proprio dalla voce di Rentocchini: “L’arte è libertà”.
Adesso parliamo pure di ottave. Sì perché le poesie di Emilionascono tutte da questo stampo: l’ottava, lo spazio limitato eppuresorprendentemente infinito in cui abbiamo preso gusto a seguire le gesta diTancredi e Orlando,, la fuga di Erminia tra i pastori, la morte di Clorinda, ilcastello dell’incantatore Atlante, che appare e scompare nel suo smaltoevanescente.
Giovanni Giudici nel suo elzeviro apparsosul «Corriere» del 4 giugno 1999, ha scritto che «con le sue otèvi di boiardesca, ariostesca e tassesca memoria (...)Rentocchini ci offre nella sua ricca tematica un dono di poesia antica e nuova:il coraggio della malinconia; la vanità delle imprese umane in al casèin /sense d’la tèra (nelcasino sensato della terra); uno sguardo impietosamente aperto sul gran finaledi Vuoto e di Buio».
Si potrebbero fare molte riflessionisull’uso di questo metro da parte del poeta, ma in fondo la riflessione piùesaustiva conviene cercarla proprio in un’ottava del libro: si tratta per laprecisione di un’epistola in versi, naturalmente in forma di ottava, offertaall’italianista Gian Paolo Biasin:
     

Ma l’è acsè fina ch’l’anper gnanch na vòus,

Come ch’la fòssacherta vlèina dèinter,
Ma grèsta d’ariae do paròli in cròus
Seinsa prèmma nepo’, apèina un mèinter
Lasè apòsta apasèr quèsi d’ascòus
Adrè al pensèrch’pensèr l’è uguèl a sèinter,
E quèll ch’à pasain l’òrba as fa lusèint
Piò as dèsfa inl’aria e piò t’al sèint arèint.
     
Ma è così pura che non pare neanche unavoce,
Come se fosse carta velina dentro,
Una crosta d’aria e due parole in croce
Senza prima né poi, appena un mentre
Lasciato apposta passare quasi dinascosto
Dietro al pensiero che pensare è uguale asentire,
E ciò che passa nel buio diventaluccicante
Più si disfa nell’aria e più lo sentiaccanto.
   
Ha scritto Paolo Fabrizio Jacuzzi cheRentocchini «è il poeta di un unico libro: un poema del pensiero che digeriscela materia e produce la musica straziata e straziante delle viscere» (Decalogo per Rentocchini, in «Origini»,pag. 75) . In effetti l’ossatura di Ottave(Garzanti, Milano, ottobre 2001) è già tutta manifesta nel libroprecedente, Segrè, basti considerarel’indice: tre sezioni (di complessive 95 ottave), di cui la prima intitolataappunto Otèvi, la seconda sezioneeponima (leggiamo in nota all’ottava 19 che Segrè è il nome di «un’antica villadiroccata»), la terza, intitolata Dop (Dopo)composta da appena tre ottave. L‘emersione lenta del volto del poeta nellefotografie di Segrè sembra pertantoavere riscontro nella lavorazione altrettanto lenta e minuziosa delle ottave;di una « lingua che non cresce mica, che si consuma» (Segrè, ottava 1) . D’altronde abbiamo sentito Emilio affermare diaver sempre scritto in un anno, mediamente, non più di una decina di poesie.
La poesia per Rentocchini è un «mentre»(cfr. supra), ma dietro, perafferrare questo «mentre», c’è un lavoro formale di eleganza straordinaria, maituttavia barocca. La forma non diventa mai «concetto», «Argudeza», ilmetaforismo e le ricche risorse stilistiche del poeta mai trasgredisconol’istinto e il gusto di una misura, di una contenutezza in cui consiste appuntola sua squisita formalità.
Sembra facile a dirlo, ma viene dapensare a un bel paradosso di Pablo Picasso, il quale spesso ricordava di averimpiegato tutta la sua vita per imparare a disegnare «come i bambini», conquella naturalezza, con quella semplicità. Nemica di ogni spontaneismo, lapoesia di Rentocchini ha il carisma della semplicità, e siccome la semplicità(ma potremmo dire la Grazia)si sconta in qualche modo, le sue Ottave cisembrano, a guardarle con attenzione, come un edificio perfetto,dall’architettura sapiente, ma segnato da crepe e fenditure che loattraversano, ne minacciano l’equilibrio: colpa di quei «buchi» di cui ci diceil poeta nell’ ottava 3 di Segrè: «l’erba chersuda ingenua in tòtt i righ: intòtt i bus la vètta dmand un sigh» (l’erbacresciuta ingenua in tutte le fessure: in ogni buco la vita come un urlo») ? Diquesta semplicità raggiunta seguendo il percorso, la geometria folle di crepe efenditure, sono spia non pochi elementi stilistici, a partire dalle ricorrentiiterazioni (faresfarsi faresfarsifaresfarsi, Otevi, 9) e gliaccumuli (bimbo bimbo bimbettobambinello, Otevi 33) che intersecandosi con le iterazioni creano uncontinuum fonosillabico, un ritmo da carillon, un clima musicale in cui ilvortice apparente degli avvenimenti sembra pietrificarsi in monotonia musicale.In questo telaio di suoni che si incrociano e si elidono acquista rilevanteimportanza la frequenza delle allitterazioni: (Parole in fila fili Fino alla fine, Otevi 16), che più che un giocofonico fine a sé sembrano significare lo sforzo della lingua di legare le cosea un senso, a un terreno comune, per fronteggiare il «sapore di assenza» (Otevi, 15) il pericolo dell’astrazionedi cui è veicolo la logica di un io –raziocinante, cavalcantianamentesbigottito dal proprio «dritto sapere» (Otevi,14), a cui si contrappongono l’eternità e la pazienza delle cose, deglioggetti, della natura: «stendardi di preghiera» (si pensi ad un magistralesaggio di Giacomo De Benedetti sulla poesia di Mallarmè, in Poesia italiana del Novecento, Garzanti,Milano, 1993, pagg. 11 - 32), unica voce ancora viva, gli oggetti, capaci diesprimere sofferenza e tensione verso l’alto (si veda l’ottava 2: L’alba ai lenzuoli distesi graffiati dalvento, di Segrè).  Le peculiarità stilistiche fino a quievidenziate, applicate alla struttura circolare dell’ottava, sembrano postulareuna tensione metafisica che spinge verso l’alto il cerchio ripetitivo - come ilritmo delle stagioni spesso chiamate per nome dal poeta - dell’ordito metrico.Si può dire meglio, attingendo alla sapienza di Giovanni Giudici, che questapoesia di Rentocchini è paragonabile a «un lungo, bisbigliato soliloquio doveparole lillipuziane si affollano imprigionando nei loro fili e spilli unGulliver homo loquens, quasi lorozimbello» (cit.) . A tutto ciò si aggiunga il peso rilevante di un’altra figuraretorica, l’apostrofe, la più dantesca delle figure retoriche, capace diavocare nel cerchio magico della poesia, per dirla con Auerbach, lacomprensione e la compartecipazione emotiva del lettore. E’ il casodell’ottava: Luna d’inverno, buco in unnero di carta (Segrè, 34), ma anche di: Ciccio,io vorrei che qui, tra le solite linee (Otevi, 22), calco del famososonetto dantesco: Guido i’ vorrei……
A proposito di modelli letterari, sarebbesuperfluo citare per il lettore più avvertito i tanti calchi, prestiti,rifacimenti, modelli, a cui il colto Rentocchini attinge con libertà erispetto: da Dante e Cavalcanti appena citati, al Montale degli Ossi brevi, al Pascoli capace (come ciha insegnato Walter Binni, La Poetica del Decadentismo, Sansoni, Firenze, 1996, pagg. 95 - 115) di ingrandire lecose minuscole e di rimpiccolire ciò che è grande, senza dimenticare la suareligione dei morti (di cui ci offre una antologia di motivi l’ottava 3 di Segrè), al Saba dell’ «aere natio» e del« cantuccio a me fatto, alla mia vita/pensosa e schiva» (Trieste, in Canzoniere, Einaudi,Torino, 1961, pag79), la cui memoria poetica sembra accompagnare Rentocchininel suo solitario randonnèe per leaure e i paesaggi purgatoriali di Sassuolo. E infine, a fare da sostrato, datessuto a tutte queste suggestioni così originalmente elaborate da Rentocchinie consumate nella sua lingua poetica, quel sentimento lunare, un po’ folle,tipicamente emiliano (tanto che nel corso dei secoli lo hanno condiviso Tassonie Ariosto, il Fellini lettore di Tonino Guerra e di Cavazzoni, e Zavattini) dibucare il cielo, come fosse un fondale di cartone dietro al quale alita ilNulla (viene da pensare al Nulla leopardiano, ma più dolce, caprioleggiante,infantile) .
Un capitolo a parte meriterebbero i nomie i soprannomi che ritornano come preghiere familiari nelle poesie. I nomi diluoghi come Montegibbio, Capriana, il fiume Secchia, la Marazzi, o di persone,strambe e lunari come il barbiere - violinista Valcerchi che «ha fatto letame/ ma con un amore per ogni do venuto bene/ che credo abbia campato perqualcosa» (Segrè, 36) . I nomi sono soprattutto appigli concreti contro ilrischio di perdere il contatto con la semplicità così ardua ed evanescentedell’esistenza: dici un nome, e il mondo compare ancora integro nella suaprecaria bellezza: meglio ancora se lo reinventi storpiandolo come faceva ilnonno –che forse è stato per Rentocchini la prima vera incarnazione dellapoesia - si veda Segrè, 3:
   
Adelmo ch’al giva sèimper Munsòbbi
Per Munsèbbi, sirèli per tirànti,
Sèra la cerinèsca, sèinsa un dobbi
Ch’as gèssa saracinèsca; davanti
Al vèdr opàch dl’usdèl, so tòtt in gòbbi,
An psiva piò parlèr, l’era in mudànti
E dre a serchèr al sòul coi òc smaltè,
D’in dove na paròla giosta: istè.
 
Adelmo che diceva sempre Montegiubbio
Per Montegibbio, sirelle per bretelle,
Chiudi la cerinesca, senza un dubbio
Che si dicesse saracinesca; davanti
Al vetro opaco dell’ospedale, giù tuttoingobbito,
Non poteva più parlare, era in mutande
E cercava il sole con occhi smaltati,
Dai quali una parola giusta: estate.
  
Tornando adesso alla forma dell’ottava,l‘impressione è che questo metro lavorato da Rentocchini nella maniera e congli accorgimenti che abbiamo illustrato, sia solo apparentemente chiuso nelproprio esibito rigore formale, ma in realtà aperto a brividi e vertigini chemettono in discussione ogni equilibrio, non solo formale: è come se l’ars, la tecnica, all’acme del suovirtuosismo, subisse per contrappasso una metamorfosi che la trasforma nelcorpo ferito della poesia, e solo da queste piaghe, da questo dolore rappresoin forma di parole in rima nel dialetto materno, riacquistasse la propria voceautentica, la semplicità nativa, dolce e violenta, di chi dice tutto in ungrido.
Il dialetto sassolese in questo senso,come ha riconosciuto il poeta, è l’indispensabile «strumento di escavazione, ilpiù acuminato anzi»: dà i nomi alle cose, le ricrea, le fa rinascere, prima dilasciarle di nuovo vitali, nuovamente nutritive, ma sempre fragili eminacciate, sul precipizio di una ennesima rinascita, che ha la pronuncia di unitaliano «compromesso» dalla contiguità della pronuncia sassolese. E’ ildialetto - con il suo acuminato vocalismo tonico a cui fanno da cassa armonica,prolungandone la durata e modulandone il suono, le corone di aspriconsonantismi, le molteplici parole tronche che si allungano e accorciano comeil grido di richiamo di un uccello - ad imbattersi nella ventura di scoprire ilmondo, di prenderlo a tradimento nella sua consistenza, nella sua autenticafisicità di silenzio.
Il silenzio, per l’appunto, unicopossibile approdo della parola poetica. E torniamo un’ultima volta alla foto dicopertina, il cui linguaggio fisico, gestuale, la sua impressione di movimentorichiama invece la stasi. Il silenzio, ha scritto Rentocchini, somiglia alpensiero, condividendone la fragilità, la nudità, gli abbagli, spesso lasolitudine. Quell’impressione di stasi e di solitudine nel cui silenzio siconsuma il pensiero ha un corrispettivo coerente nelle pagine di Segrè, laddove anche gli esergopiuttosto che limitarsi ad una funzione di paratesto sembrano condividere lastessa necessità di attraversare un paesaggio - fisico e mentale - riguadagnatoscrivendo.
Tra tutti gli esergo che nel librocollaborano alla scrittura poetica ne scegliamo uno in particolare, una frase diMaria Callas: «La musica continui a pulsare anche attraverso le pause», che sistaglia in cima alla pagina riempita dall’ottava 15. Ci sembra particolarmentesignificativa, poiché ad essa segue il testo poetico nella sua «diglossiacostitutiva» (A. Bertoni, prefazione a Segrè,cit., pagg. 7 - 12) lingua -dialetto, ma tra il testo dialettale e la sua «variante» in lingua (ladefinizione, illuminante, è di Giudici, cit. ) c’è una bianca spaziatura chepiù di introdurre una pausazione, sembra assolvere a una funzione metricaimparentabile a quella che svolge nella strofe canonica di canzone la «diesi»,quel verso cioè che in assenza del supporto musicale, facendo ruotare la strofesu sé stessa, ne ottiene una modulazione che è il principio della concordia discors del componimento,della sua musica tutta rappresa nel contorcersi della parola, nel tornare suisuoi passi, nel farsi eco di sé.
Perché le due lingue - le due anime - diquesta poesia si chiudano perfettamente, e diventino l’una il ripensamento dell’altra,combaciando ed aderendo una sull’altra, è necessario questo alimentodiscordante offerto dal silenzio, dal bianco intervallo della spaziatura (quasiuna terza lingua, se vogliamo). E’ anche così che la parola, cogliendo atradimento il pensiero, sciogliendone il «dritto sapere» in una pietà che si famusica e paesaggio, senza perdere per questo consapevolezza, ma anziacquistandone una dimensione più pacata e famigliare, scivola quasiipnoticamente nel sogno, nel sonno, nel luogo dove ogni verità è contemporaneamenteintegra e nuda, come la lingua prossima e remota dei defunti, come quella dellapoesia:
   
   
Na sènn... al sènn…n’insènni… al sèggn ch’an sèmm
Srè so per sèimpr in al scutmài d’aièr
E che an gh’ègàbia ch’l’àbia un ùnich nèmm,
Ch’l’è d’aria undi cantòun, e col pensèr
Va bè striflè, vabè svanì, a gnèmm
Al lèberdescurdèrs di persunèr…
Fintant ch’alsèggn dl’insènni, al sènn, sta sènn
Ch’l’as dèsda aldè, l’an s’indurmèinta el pènn.
     
Una sonnolenza… il sonno… un sogno… ilsegno che non siamo
Racchiusi per sempre nel soprannome diieri
E che non c’è gabbia che abbia un uniconome,
Che è d’aria uno degli angoli, e colpensiero
Vabbè schiacciato, vabbè stordito,giungiamo
Al libero dimenticare dei prigionieri...
Fintantochè il segno del sogno, il sonno,questa sonnolenza
Che si ridesta al giorno, nonriaddormenta le nostre penne.
 (Otevi, 42)
  
E in questa zona di confine ci fermiamo.
    
Adriano Napoli, dicembre 2001. http://www.poiein.it/autori/R/rentocchini.htm
Eremo Rocca S.Stefano sabato 14 settembre2013






mercoledì 11 settembre 2013

AUTODAFE :«Le paure del mio Gadda:tasse, matrimonio, sinistra»


AUTODAFE  :«Le paure del mio Gadda:tasse, matrimonio, sinistra»



A trent'annidalla morte escono le lettere dirette a Piero Citati, allora suo giovane editore confidente. In cui parla di soldi, donne, omosessualità. E dell'orrore perogni ideologismo
Un'amicizia formidabile tra due uomini di penna e di pensiero. Unavibrazione profonda tra menti affini, non comuni, che ancor oggi, a trent'annidalla scomparsa di Carlo Emilio Gadda, Pietro Citati evoca nel racconto di quelsodalizio, fisicamente disciolto nel '73, alla morte dell'Ingegnere, tuttaviainestinguibile nell'unico sacrario che conti, tra la mente e il cuore.

«Non ho mai più conosciuto un uomo così grande», dice lo scrittore che domal'emozione del ricordo abbassando lo sguardo sul divano giallo della suaelegante casa romana, ai Parioli. Le 44 lettere che Gadda gli spedì, dal '57 al'69, sono ora raccolte in Un gomitolo di concause (Adelphi, pagg. 239, euro 14, a cura di GiorgioPinotti). E gettano una luce nuova sul più grande autore del nostro Novecentoche col suo giovane editor e confidente, conosciuto nel '55 quando Citatirecensì sullo Spettatore italiano il gaddiano Giornale di guerra e diprigionia, parlava di tasse, cinema, cibo, editori - avvoltoi che vogliono la«ghiotta preda» cioè lui, gite di relax e amici come Moravia e la Morante che una volta, auna cena, l'hanno «sfiancato, rintronato e vilipeso».
Che tipo di amico fu, per lei, Gadda e come potremmo definire lavostra amicizia?
«Un'amicizia molto singolare: io avevo 27 anni, lui oltre 60. Aveva moltoaffetto per me, ma non era lui che si occupava di me, ero io a occuparmi dilui. Mi telefonava, spietato, ogni giorno all'una e mezzo, mentre ero a pranzo.La mia carne gelava e dopo una ventina di minuti era una suola».
Gli amici, però, si educano: gli ha mai detto nulla?
«Mai educato nessuno. Il fatto è che per dieci-dodici anni i suoi libri sonopassati per le mie mani. Mi occupavo di tutte le sue questioni personali, tasseescluse: aveva il suo commercialista. Aveva una tremenda paura di non pagarlecorrettamente e, un mese prima di pagarle, spariva. Fui io a farlo collaborareal Giorno e spesso mi chiedeva: Che lei sappia, quanto ho guadagnato?. Erapoverissimo».
Di recente si è parlato d'una pretesa omosessualità dell'Ingegnere.Quale rapporto ebbe Gadda con le donne?
«Non era misogino, né omosessuale. Ma temeva sempre che qualche donna lovolesse intrappolare e prenderlo come marito. Temeva soprattutto Gianna Manzinie Maria Luisa Spaziani, quest'ultima grande cacciatrice di vecchi comeUngaretti e Cecchi. Per le donne nutrì grande affetto, ma temeva la famigliacome istituzione. Tuttavia, aveva un interesse psicologico per il mondoomosessuale, del quale si faceva raccontare da Goffredo Parise, sposato ma conun lato omosessuale. Forse temeva di trasformare questo suo interesse inqualcosa di diverso. Con Pasolini, per esempio, non parlava di tali questioni:con lui si seccava, perché era un suo imitatore. E lui detestava gli imitatori.Aveva più simpatia per Arbasino, omosessuale elegante che non cacciavaproletari, ma signori. Gadda aveva un'inclinazione per i giovani: furono loro,i poco meno che trentenni Arbasino, Parise, Testori, a decretare il successodel Pasticciaccio».
Che cosa le piaceva di più, in Gadda?
«Il senso tragico che emanava da tutto, stando a lui. Aveva il senso del maleuniversale. Seguirlo è stato affascinante: gli davo affetto ed ero moltoefficiente».
Nelle lettere indirizzate a lei spicca certa vita intellettualeromana, o meglio «il baccano romano» di fine anni '50, con la Morante «che urla epontifica troppo» e Moravia che non capisce Manzoni. Quale ricordo ha di quelle«verbose facilonerie Trasteverine»?
«Lui non li sopportava. Adorava Manzoni e I promessi sposi, per cui stroncòMoravia. Non sopportava il loro sinistrismo, il loro ideologismo, le ideefatte. Con la Moranteebbe in comune un grande amore per Dostoevskij, ma Gadda aveva una grandecultura filosofica, conosceva Platone e Leibniz, detestava i luoghi comuni. Tragli italiani ammirava Montale, amava Ossi di seppia. E aveva amicizia perAttilio Bertolucci, uno dei pochi che amasse il Pasticciaccio».
Un aneddoto particolare?
«Aveva ossessioni insensate... Il Pasticciaccio fu acquistato da Rizzoli perfarne un film, poi affidato a Pietro Germi e a Gadda dettero un milione, cifrairrisoria nel '62. Siccome la sede della Rizzoli era un po' fuori Roma, glivenne in mente che volessero tendergli un agguato, per riprendersi i soldi chegli davano. Così mi chiamò, per dirmi: Se non ritelefono entro le 19, chiami iCarabinieri. Il cinema non gli interessava: rispettava solo la letteratura ela scienza».
Cinzia Romani - Mer, 11/09/2013 - 09:21  Il giornale


Eremo Rocca S.Stefano mercoledì 11 settembre 2013






il capoluogo | Vico Spezzato

il capoluogo | Vico Spezzato

martedì 10 settembre 2013

CONTRAPPUNTO : Homotechnologicus

CONTRAPPUNTO  : Homotechnologicus

Giuseppe O. Longo nasce a Forlì il 2 marzo 1941 e vive aTrieste dal 1955. Nel 1964 ha conseguito la laurea in Ingegneria Elettronica e,quattro anni dopo, la laurea in Matematica. Nel 1969 ha ottenuto la liberadocenza in Cibernetica e Teoria dell’informazione, disciplina che ha introdottoin Italia e di cui ricopre la Cattedra dal 1975, presso la Facoltà d’Ingegneriadell’Università di Trieste. L’attività di ricerca, molto intensa, spazia dallateoria delle reti ai codici algebrici fino alla teoria dell’informazione.Attualmente Longo si occupa soprattutto di epistemologia, di intelligenzaartificiale e dei risvolti sociali del progresso tecnologico, in particolare diroboetica. Proprio su queste tematiche ha pubblicato i saggi: Il nuovo Golem:come il computer cambia la nostra cultura, (Laterza, Bari, 1998), Homotechnologicus (Meltemi, Roma, 2001) e Il Simbionte: prove di umanità futura(Meltemi, Roma, 2003). All’attività scientifica affianca anche quella narrativae drammaturgica. Ha scritto per diverse riviste letterarie tra cui Il banco dilettura e Linea d’ombra. Ha pubblicato tre romanzi tra cui L’acrobata (Einaudi,Torino, 1994), otto raccolte di racconti e una raccolta di drammi, Il cervellonudo (Nicolodi, Rovereto, 2004). Nel 2008 ha pubblicato il saggio Il senso e lanarrazione (Springer Italia). L’innesto uomo-macchina è una realtà in continuatrasformazione ed è proprio questo cambiamento che Giuseppe O. Longo descrivenei suoi scritti, dove l’intento esplicito consiste nel presentare il drammadel trapasso coevolutivo che stiamo vivendo. Su tale transizione e suglieffetti ad essa collegati verte l’intervista che segue.

In HomoTechnologicus, nell’Introduzione, Lei scrive: “vorrei in questo librorappresentare o almeno presentare il dramma del trapasso coevolutivo che stiamovivendo e che riguarda tutti noi e ciascuno di noi”. Secondo il Suo pensierotale dramma è stato generato dall’intensità con cui la tecnologia irrompe nellanostra vita o dall’uomo stesso, capace di costruire “macchine” tanto complessee nel contempo incapace di controllarle e governarle?
Se non ci fosse l’uomo la tecnologia di per sé non potrebbeirrompere sulla scena. Ma è anche vero che quando si dice “uomo” si fariferimento a un soggetto collettivo di cui è difficile individuare la volontàdeliberata. Oggi l’innovazione tecnologica è l’effetto non di scelte precise disingoli individui, bensì di un aggregato di spinte, necessità, tentativi,proposte ecc. proveniente da una molteplicità di soggetti e difficile dasbrogliare. In questo aggregato alle considerazioni puramente tecniche simescolano necessità sociali, culturali, esigenze economiche, fattibilitàecologiche ecc. La difficoltà di individuare le cause precise del progressotecnico può dare l’impressione che la tecnologia abbia una forza propulsivapropria, assimilabile a una sorta di volontà autonoma. Tanto più chel’innovazione tecnologica manifesta una sorta di anello di retroazionepositiva, nel senso che più tecnologia c’è più è facile l’avvento di altratecnologia. Di fatto uomo e tecnologia sono legati a doppio filo, da unarelazione circolare in cui è difficile individuare la causa e l’effetto delprocesso dinamico. Questo è il motivo per cui si può e si deve parlare di “coevoluzione”e non semplicemente di “evoluzione”. La presenza di questi anelli diretroazione, di queste circolarità causali, è caratteristica dei sistemicomplessi ed è stata individuata in tempi non troppo lontani. Infatti inpassato il rapporto causa-effetto era considerato unilineare e unidirezionale.

Lo sconvolgimento della vita dell’uomo e delle sueabitudini, provocato dall’irruzione della tecnologia nel “mondo della vita”,conferisce a Suo avviso, una sorta di autonomia alla macchina?
L’autonomia della macchina è una nostra proiezionepsicologica: abbiamo l’esigenza di rapportarci a soggettività ricche, con cuidialogare. Così rendiamo autonomi non solo gli altri umani (e questo èragionevole, plausibile e scontato, nonostante nessuno possa entrare nellatesta di un altro), ma anche gli animali (e questo è ancora plausibile, benchécontestato da alcuni) e addirittura gli oggetti (questa è una forma di animismoche applichiamo per esempio alle automobili). La grande complessità delle“macchine della mente” (computer, internet ecc) e la loro natura appuntomentale (il fatto che elaborino informazioni) fornisce una spinta ulteriore inquesta direzione: è più facile attribuire un’anima, una mente autonoma a uncomputer che a un macinapepe elettrico. Il culmine di questo processo diproiezione si ha appunto nei confronti delle macchine che presentano uncomportamento che, se fosse manifestato da un umano, sarebbe definitointelligente. Non bisogna mai dimenticare questo animismo quando si parla di“intelligenza artificiale”. Diverso è il discorso per quanto riguarda i“robot”, macchine in cui un corpo artificiale si coniuga con una menteartificiale: queste macchine hanno una certa capacità di apprendere e quindianche una certa autonomia, nel senso che di fronte a situazioni ambigue sono ingrado di prendere decisioni non soltanto in base al programma, ma anche in basealla loro esperienza. È vero che la loro esperienza è filtrata e orientata dalprogramma, ma s’intravede comunque una certa capacità decisionale. Alcuniprevedono che i robot del futuro anche prossimo avranno capacità decisionali eautonomia crescenti, e questo può provocare una certa ansia. Avremmo cioècostruito macchine di cui non saremmo più padroni. Inoltre a un certo puntol’autonomia dei robot potrebbe spingersi al punto di consentir loro dicostruirsi (sempre più perfezionati) a prescindere dalla nostra volontà. Alloraessi sarebbero affatto indipendenti. Questo è un tema caro alla fantascienza,ma già oggi alcuni specialisti studiano questi scenari.



Ritornando al “dramma”, sempre in Homo Technologicus, Leiscrive che “il dramma ha  perprotagonisti l’uomo e le sue macchine e mette in scena i loro complicati emutevoli rapporti”. In Machina Dolens don Vicente Gurrìa e le sue macchinecondividono, seppur stando lontani, uno stato di follia e di reclusione. Talestato di follia è stato da Lei immaginato come l’effetto che la creazione ditali macchine ha avuto sul loro creatore o viceversa come conseguenza del fattoche le macchine stesse  sono nate da unpadre folle?
Nel racconto ho immaginato don Vicente nelle vesti diapprendista stregone: ha costruito, senza volerlo, macchine capaci di soffriree la loro sofferenza l’ha reso folle. Ma certo la sua ipotesi è fondata: soloun folle potrebbe costruire macchine dotate di quella sensibilità estrema, e illoro dolore rende palese, e intensifica, la follia latente nel costruttore.Quindi, come spesso accade, sono vere entrambe le cose, sono legate da uncircolo di retroazione: un folle crea macchine che lo rendono ancora più folle(e in questa follia dilatata egli potrebbe costruire macchine ancora piùinquietanti e sofferenti... e così via). Ho scritto sopra “senza volerlo”:questo punto è delicato. Tutta la tecnoscienza costruisce apparati edispositivi in vista di un certo scopo. Ma ogni dispositivo gettato nellacomplessità del mondo interagisce in modi complessi e imprevedibili con tuttoil resto dell’esistente. Questi effetti imprevisti e spesso indesiderati, chedi solito il tecnoscienziato non è in grado di prevedere, sono potenzialmentepericolosi, ma anche creativi: aprono nuove strade e nuove possibilità, mapossono anche provocare disastri. È la lotteria dell’evoluzione tecnologica (eculturale).

La figura dell’automa esercita un notevole fascino sugliuomini, come Lei stesso ribadisce più volte in Homo Technologicus. Parliamoancora una volta di un prodotto creato dall’uomo, una macchina, questa voltaperò con fattezze umane. Secondo il Suo pensiero tanto fascino deriva dallaperfezione di cui noi umani siamo sprovvisti o da un ennesimo egocentrismoumano che vede in tali automi il riflesso della propria perfezione e delproprio ingegno?
La cosa è un tantino più complicata. Nel 1970, quando irobot umanoidi (o antropomorfi, cioè con fattezze umane) non erano certoperfezionati quanto oggi, l’esperto giapponese Masahiro Mori coniò, sullatraccia del “perturbante” (Unheimlich) freudiano, la locuzione “valle delperturbante” (in inglese Uncanny Valley) per descrivere l’andamento dellereazioni emotive degli umani nei confronti dei robot. Secondo Mori, via via chel’aspetto e il comportamento di un robot si avvicinano a quelli dell’uomo, ilnostro atteggiamento diventa sempre più positivo, ma a un certo punto si ha un bruscocapovolgimento e subentra una forte repulsione. Aumentando ancora lasomiglianza, tuttavia, si supera la “valle del perturbante” e la simpatia e lafiducia tornano a salire. Il “perturbante” fa riferimento a ciò che diinquietante, estraneo, o addirittura pericoloso, può nascondersi nel cuorestesso della nostra identità. Perturbante è ciò che è familiare e insiemespaesante, che somiglia al domestico ma cela in sé qualcosa di indecifrabile eminaccioso. Perturbante è il doppio, il sosia, l’ambiguo, l’ammiccante: ciò chesuscita diffidenza per la sua somiglianza quasi perfetta, che allude all’Altroma anche a noi. Quindi non suscita solo fascino, l’androide, ma ancherepulsione e inquietudine.

Lei definisce il corpo come la più importante interfacciaomeostatica attraverso la quale comunicare. Parafrasando Marshall McLuhan, aSuo avviso, il corpo è più mezzo o più messaggio?
Il corpo è un mezzo ma anche un messaggio. Del resto McLuhanafferma giustamente che “il mezzo è il messaggio”, intendendo che il mezzocondiziona, filtra e modula il messaggio tanto in profondità da restituirlo bendiverso da quello che gli è stato affidato per la trasmissione. Che il corposia un mezzo (di comunicazione, ma anche di azione e di percezione) èabbastanza evidente, ma se si riflette sulla vastissima gamma dei segnali cheesso emana in continuazione per il solo fatto di esserci, di atteggiarsi e dimuoversi, non si può negare che esso sia anche un potentissimo e articolatomessaggio (multimediale, per usare un termine di moda). La sola presenza di uncorpo (persona) può condizionare profondamente la comunicazione che si svolgein un certo contesto.

Nel racconto L’aveva rosagrigio, Lei pone in antitesi duepersonaggi, Sebastian e la sua vicina. L’uno legato ancora ai vecchi mezzi dicomunicazione, l’altra entusiasta dei nuovi dispositivi, come lo è appunto  l’“impianto telefonico mascellare”. Quelloche descrive in questo racconto è uno scenario rivolto a un futuro, non si sase vicino o lontano. Lei pensa che in tale futuro l’uomo medio saràrappresentato più dalla vicina o più da Sebastian? E se la tecnologia arrivassead un punto di stasi? O ancora, se a un punto di stasi nei confronti dellatecnologia arrivassero gli uomini, acquisendo nei suoi confronti una sorta dirigetto, proprio come Sebastian?
Estrapolando dalle tendenze attuali non c’è dubbio che ilfuturo appartiene alla vicina entusiasta della tecnologia trionfante. Eppure latecnologia potrebbe in effetti arrivare a un punto di stasi: per mancanza didenaro da investire nell’innovazione, per qualche catastrofe esterna cheminacci la fine della civiltà (o dell’umanità) così come la conosciamo oggi,oppure, come ipotizza Lei, per un rifiuto crescente e via via più esteso daparte degli umani. Ne Il Simbionte ho dedicato un capitolo allo studio dellasofferenza provocata dall’invasione tecnologia del corpo-mente umano,sostenendo che le strutture ancestrali e le facoltà primarie ereditate per viabiologica si oppongono all’invasione della tecnologia. Questa opposizioneprovoca disadattamento e sofferenza. L’uomo (e l’umanità intera) soffre diquesta invasione, ma si adatta per i vantaggi che ne ricava. Un giorno sipotrebbe diffondere la sensazione “luddista” che i vantaggi non compensano piùgli inconvenienti e ciò potrebbe portare a una rivolta antitecnologica.

La tripartizione delle macchine in macchine del corpo,macchine della mente, macchine del corpo – mente, che Lei affronta in HomoTechnologicus, è un’evoluzione della macchina da considerarsi, ancora una volta,unicamente legata all’evoluzione dell’uomo? O è possibile ravvisare in essaun’evoluzione “autonoma” della macchina, nel senso in cui quest’ultima,progettata in un determinato modo, rivela poi nel suo uso pratico “capacità”che il suo stesso “creatore” non avrebbe saputo e potuto prevedere?
Fino ad oggi l’evoluzione delle macchine è stata legata aquella dell’uomo, ma a doppio filo: l’evoluzione dell’uomo e quella dellemacchine si sono intrecciate in modo tale che se è vero che l’uomo fa lemacchine è altrettanto vero che le macchine concorrono all’evoluzionedell’uomo. Questo è il succo del concetto di Homo Technologicus. Le macchinepotrebbero cominciare ad evolversi in modo più autonomo? E verso qualitraguardi si evolverebbero?
Qui possiamo soltanto fare congetture e disegnare scenari.Un tema centrale a questo proposito è quello del libero arbitrio, temaformidabile e controverso, che alcuni risolvono sbrigativamente negando lalibertà non solo ai fenomeni naturali, ma anche all'uomo sulla base di unferoce determinismo alla Laplace; altri, all'opposto, negano la libertàriconducendola alla casualità. Se il libero arbitrio non appartiene agli umani,come potrebbe appartenere alle macchine? A questo riguardo, si può sostenereche solo le creature dotate di coscienza posseggono il libero arbitrio e sonoin grado di agire in modo etico. Non è certo un caso che siano in corsoricerche per dotare i robot (perché è in sostanza di queste macchine che stoparlando) di una coscienza artificiale, CA, la cui definizione operativapotrebbe essere: un sistema artificiale è dotato di CA se si comporta in modiche, negli umani, richiedono coscienza (è una definizione analoga a quelladell'intelligenza artificiale, IA). Insomma, i robot potranno mai diventare soggetti(e oggetti) etici? Poiché, almeno allo stadio attuale, i robot sono manufatticostruiti da noi con finalità pratiche specifiche, ciò dipende dai mezzi di cuili dotiamo per il raggiungimento di quei fini: per esempio potrebbe essereutile una certa dose di autonomia, libertà e inventiva. Anche nel caso in cuiquest'autonomia sia limitata, non si può escludere che - per esempio inambienti separati dall'habitat umano che postulino l'attivazione di capacitàdecisionali per evitare la distruzione delle macchine - qualche fenomenoevolutivo (una mutazione fissata da una selezione confermativa) portiall'acquisizione di un'autonomia che potrebbe accompagnarsi al sorgeredell'istanza di auto-conservazione, della coscienza e quindi di un'etica basatasulla libertà. I robot potrebbero acquisire il libero arbitrio non solo per unaderiva evolutiva in ambiente abbastanza separato, ma anche per una deviazionealeatoria dal progetto originale oppure in seguito a un vero e proprio erroredi programmazione. Oppure la deviazione, il clinamen, potrebbe essere dovuto aun incidente provocato da cause esterne e potrebbe sfociare in una sorta di"follia" robotica, fonte di creatività. Si potrebbe insommaipotizzare un "robot schizofrenico" (nel cui organo cognitivo esemi-cosciente si scontrassero ingiunzioni primarie contrastanti, cheportassero all'insorgere di un doppio vincolo nel senso di Gregory Bateson):questo robot folle potrebbe manifestare libertà (e inventiva), ma sarebbe unalibertà da vigilare attentamente.
C’è anche da riflettere sulle conseguenze dell'intreccio tracomplessità ed evoluzione temporale: dato un tempo abbastanza lungo, leinterazioni tra sistemi complessi (i robot e l'ambiente in cui"vivono") possono dar luogo a effetti inattesi, sorprendenti e magariindesiderati (le alterazioni accidentali del codice etico cablato, lemutazioni, la conseguente incontrollabilità e libertà; il paradosso dellaconoscenza che ci consente di compiere azioni e di costruire manufatti dalleconseguenze sconosciute e inconoscibili). A questo proposito si pone ilproblema della responsabilità delle conseguenze indesiderate, che è facileattribuire quando il rapporto causa-effetto è immediato, ma che diventa semprepiù arduo quando l'intervallo temporale si allunga e si diluisce quindi lacogenza della causalità (per cui anche le buone intenzioni possono alla lungaprodurre effetti devastanti).
C'è da osservare che il punto di vista che ho adottato inquesta risposta è antropocentrico. La preoccupazione è dunque in primo luogoquella di salvaguardare gli umani e, in secondo luogo, di avere nei robotservitori utili. Se poi l'utilità richiedesse una raffinatezza che portassealla presenza di libertà e di coscienza, si potrebbe accettare anche questacomplicazione, purché se ne potessero esaminare le possibili conseguenze.
È da questo punto di vista sensibile agli interessiumani  che trova piena giustificazionel’adozione del “principio di precauzione” nel campo della robotica. Ma èproprio l'adozione del punto di vista antropocentrico che ci fa perdere divista una possibilità remota ma non insignificante: che i robot diventinomigliori di noi (in senso generico ma abbastanza trasparente). Questaeventualità sarebbe forse ancora più inquietate e, di fronte a creature miglioridi noi, proveremmo forse l'impulso antietico di distruggerle per invidia,dimostrando ancora una volta la nostra malvagità.
Sempre dal punto di vista antropocentrico, ci si puòchiedere se un'evoluzione più o meno autonoma dei robot possa portarli a un'eticaanaloga a quella umana. La risposta che darei è negativa: anche se l'evoluzionedei robot avvenisse in un ambiente separato e favorevole all'instaurarsi di unprincipio di auto-conservazione, resta il fatto che gli incidenti di percorso,le contingenze e la casualità avrebbero l'effetto complessivo di costruireun'altra storia e un altro esito. Inoltre, e mi sembra un'osservazione digrande portata, la potenziale immortalità del robot rispetto all'accertatamortalità dell'uomo costituirebbe una differenza di fondo difficile dasuperare. Infine vorrei osservare che come l'intelligenza artificiale ci haproposto un paradigma cognitivo che, pur costruito dall'uomo, è piuttostodiverso dal nostro e ha quindi infranto una sorta di monopolio esercitato implicitamenteda sempre dalla nostra intelligenza, così una possibile etica artificialepotrebbe infrangere il monopolio, finora dato per scontato, della nostra etica,qualunque sia la definizione che ne vogliamo dare. Queste alternative,cognitiva ed etica, potrebbero aiutarci a far luce sulla nostra intelligenza esulla nostra natura etica.

Homo Technologicus è ciò che Lei definisce in Il Simbionteuna nuova unità evolutiva, una sorta di simbionte in continua trasformazione.Sembra che questa nuova unità evolutiva sia destinata a ricoprire un ruolocentrale per molto tempo, data la grande avanzata dello sviluppo tecnologico.Ritiene possibile, nonostante l’impetuoso progresso tecnologico, che anche HomoTechnologicus sia destinato a sparire, proprio come i suoi predecessori?
Qui è importante stabilire il soggetto delle nostreproposizioni: se Homo Technolgicus è un individuo, esso sparisce per mortenaturale, se è una specie, esso si trasforma in continuazione. Trasformarsivuol dire sparire? È lo stesso problema che si ha nel caso biologico, e si puòapplicare lo stesso tipo di ragionamenti. Si può forse dire che, dato un tempolunghissimo (e prescindendo da catastrofi simili a quelle che hanno causato lascomparsa dei dinosauri), se si confronta Homo Technologicus dell’inizio conquello della fine del periodo le differenze possono essere enormi: si può direche il primo è scomparso, oppure che si è trasformato in altro? Credo che siaun problema filosofico antico, ma possiamo risolverlo con piglio pragmatico dicendoche HT si trasforma in altro, mantenendo certe caratteristiche di base, tra lequali appunto la capacità di trasformarsi.

La tecnologia, secondo il suo parere, è parte integrantedell’uomo? O la si può considerare come un fenomeno a sé di cui l’uomo entra afar parte? In altre parole: Lei ritiene che la tecnologia debba essere perforza di cose subordinata all’uomo, o, date ormai le grandi possibilità cheoffre, è l’uomo che è incapace di viverne senza?
La tecnologia fa parte integrante dell’uomo. Gli strumenticon cui conosciamo il mondo e agiamo su di esso escono dal nostro corpo-mente,ma ne sono un prolungamento: non possiamo separare l’uomo dai suoi strumenti.Affermare che il nostro corpo finisce dove finisce la sua superficie, la suaepidermide è sostanzialmente sbagliato. Il rapporto è sempre involutivo, questoconcetto è al centro della definizione di simbionte: non c’è uomo senzatecnologia così come non c’è tecnologia senza l’uomo. Forse la seconda parte diquesta asserzione è più trasparente della prima, ma non è più vera.

A proposito del crollo delle barriere spazio – temporali, lapossibilità di parlare con uomo o una donna che vive dall’altro lato delpianeta, rappresenta per lei una significativa conquista o un “discutibile”modo di intrattenere relazioni con chi non ci ha mai neanche “stretto la mano”?Qual è la sua posizione attuale sul problema?
Mantengo la stessa posizione: ogni tecnologia è un filtro,che ci consente di fare meglio certe cose o di fare cose che prima nonfacevamo, ma ci impedisce anche di fare cose che prima facevamo. Senza latecnologia della comunicazione non potevamo parlare o corrispondere conqualcuno che stesse molto lontano, se non con grande lentezza, ma questalentezza ci permetteva forse di calibrare meglio i contenuti, il tono e ilcalore delle nostra comunicazioni (per lettera, per esempio). C’è un altroaspetto: oggi possiamo comunicare con chiunque sia collegato alla rete, aprescindere dal luogo dove si trovi, e ciò ha profondamente modificato la nostranozione di spazio e di continguità. Ma, per converso, non parliamo più con chici è vicino. Basta osservare che cosa accade in treno: alla calda e caoticaconversazione di un tempo tra vicini occasionali si è sostituito quasi deltutto un fitto intreccio di conversazioni telefoniche con persone lontane.Insomma non ci sono pasti gratuiti: quando abbiamo un vantaggio, di solito ciòcomporta un inconveniente.

    Foto tratte dalcatalogo     della mostra     Corpo - Automi – Robot     edito da Mazzotta

Eremo Rocca S.Stefano martedì 10 settembre 2013











giovedì 5 settembre 2013

ARTE FACTUM : Julio Ramón Ribeyro

ARTE FACTUM : Julio Ramón Ribeyro


Nel diario del 1964 di Julio Ramón Ribeyro compare questamirabile definizione di romanzo, che tuttavia potrebbe servire anche perdescrivere il processo creativo di un racconto o di una poesia: “Un romanzo nonè come un fiore che cresce, ma come un cipresso che viene tagliato. Non deveprendere forma a partire da un nucleo, da un seme, per mezzo di aggiunte ofioriture, ma a partire da un volume arboreo, per mezzo di tagli esottrazioni”.
Lo scrittore che pota corre il rischio di ritrovarsi senza un giardino, unrischio che però in ogni caso è necessario: “Silvio en El Rosedal” o “Al piedel acantilado”, forse i suoi racconti migliori, producono, per così dire, uneffetto romanzesco, nello stesso modo in cui le frasi di Ribeyro tendono asfiorare l’intensità della buona poesia.
“Tratto da No Leer”, Alpha Decay 2012
Julio Ramón Ribeyro (Lima, 1929-1994) è stato uno scrittoretimido e geniale. Contemporaneo di García Márquez, Vargas Llosa e Cortázar, Ribeyroè considerato uno dei pilastri del realismo urbano latinoamericano. Fra i suoilavori è doveroso ricordare, oltre alle numerose raccolte di racconti, iromanzi Cronaca di San Gabriel, I genietti della domenica e Cambio de guardia,articoli e saggi sulla letteratura, fra cui Prosas apátridas, opere teatrali,una raccolta di aforismi, Dichos de Luder, e i suoi diari, La tentación del fracaso.

martedì 3 settembre 2013

VOCI E STORIE DAL SILENZIO : Macchine per trebbiare

VOCI E STORIE DAL SILENZIO : Macchine per trebbiare


VOCI E STORIE DAL SILENZIO : Macchine per trebbiare



All’aia di Via delle Conserve di Madonna della strada diTornimparte  Otello di Carlo , gestoreanche dell’Hotel Grazia ,ha ricreato  unmomento di lavoro contadino  ,latrebbiatura, esponendo e facendo funzionare delle macchine usate per talelavoro.
Una “cartolina” dal mondo contadino d’un tempo cheripercorrendo attraverso la memoria decenni di storia, porta fino a noi  quell’esperienza di prima meccanizzazionedell’agricoltura  nel nostro paese.
La storia in generale della meccanizzazione ci dice che :“Ilvero impulso alla diffusione delle macchine di motoaratura a trazione direttasi ebbe solo con l’introduzione e il perfezionamento dei motori a combustioneinterna, in tutte le sue molteplici varianti per tipo di carburante e persistemi di funzionamento. Il motore a scoppio era meno pesante di quello avapore, era dotato di un’autonomia molto maggiore e risultava di facileconduzione da parte di un solo operatore, mentre la locomobile ne richiedevaalmeno un paio se non di più. Sembra che il primo trattore (o trattrice)azionato con un motore a scoppio sia stato sperimentato nel 1892 negli StatiUniti, ma solo fra il 1900 e il 1903 furono immesse sul mercato le primemacchine di motoaratura a trazione diretta di questo tipo.
Più dense di risultati pratici furono – nell’era pioneristica dellameccanizzazione – le innovazioni nel campo delle macchine mietitrici,trebbiatrici e mietitrebbiatrici. La ragione è che, in questo caso, le macchinepoterono dare ottimi risultati anche quando si servivano della trazione animale.”



Le mietitrici sono fra le macchine più antiche utilizzatedall’uomo per aumentare la produttività del lavoro agricolo. Plinio il Vecchioricorda che i Galli usavano «una grande cassa portata da piccole ruote, con l’orloanteriore munito di denti», che veniva «spinta da un bue contro le biade e lespighe», le quali «strappate dai denti del pettine, cad[eva]no nel cassone».Questa soluzione, però, fu successivamente abbandonata e soltanto alla fine delSettecento la mietitura meccanica cominciò di nuovo ad attirare l’attenzionedegli agricoltori inglesi e americani.

 I  primi studi volti alla realizzazione dimacchine per la trebbiatura dei cereali risalgono al secolo XVIII, ma fu soloin quello successivo che esse si affermarono in Europa e soprattutto inAmerica. All’inizio, le trebbiatrici, munite di battitori a sbarre cheruotavano in presenza di una griglia fissa, erano azionate a mano o da animali.Ben presto, però, esse furono munite di ventilatori e vagli cernitori e venneroazionate dalla macchina a vapore.
Tutta americana è l’invenzione della mietitrice-trebbiatrice, che ben prestosoppiantò le semplici trebbiatrici. (1)In Italia  all’inizio degli anni ‘50 compaiono i primisegnali di crescita nell’utilizzo di macchine agricole. Tanto per dire, nel1955 l’agricoltura nazionale era rappresentata da una miriade di piccoleaziende che potevano contare su una SAU (superficie agricola utilizzabile) diben 23 milioni di ettari (oggi siamo a poco più di 13 milioni di ettari). Siutilizzavano solo 27.000 trattori, oltre il 70% dei quali nell’Italia settentrionale. Ancorapiù scoraggianti i dati relativi alle macchine operatrici, in gran parte atrazione animale e, comunque, prodotte in poco più di 4.000 t/anno.
L’esiguità del parco macchine di allora è dimostrato anche dai consumienergetici in agricoltura, con costi inferiori allo 0,2% della produzione lordavendibile (oggi i valori sono 30 volte superiori).



A metà degli anni ‘50, i principali studi economici di settore ancora studianoil confronto  macchine motofalciatrici,mietitrebbiatrici (trainate e, solo successivamente, semoventi), macchinesemplici per la raccolta di patate e barbabietole. All’epoca, la manodoperarappresenta in agricoltura la vera forza lavoro, con 10 milioni di addetti. A fiancodi altre case costruttrici la Fiat  ha un granderuolo in questo settore. La storia di Fiat Trattori inizia nel 1918 quando lancia ilprimo trattore, il Fiat 702 con 30 cavalli[1]. Almodello 702 fanno seguito le varianti 702A, B e BN e i successivi 703Be 703BN[2].Con queste varianti, prodotte fino al 1925, Fiat Trattori raggiunge iltraguardo delle 2.000 unità prodotte.Nel 1929 la fabbrica vendeva trattori a unritmo annuale di oltre 1.000 unità.Nel 1932 viene lanciato il primo trattore a cingoli europeo, il Fiat 700 C. Nello stessoanno, la produzione dei trattori viene spostata da Torino a Modena, dove vienefondata l'OCI (Officine Costruzioni Industriali)[3]. Ilprimo trattore prodotto nel nuovo stabilimento è il 702C da 28CV anziché da35CV, molto più leggero della versione precedente[4].Questo trattore rimane in produzione fino al 1950 e viene prodotto in 4.000unità[



Dunque  ben fa Otello Di Carlo  con questa sua iniziativa tutta personalea richiamare l’ attenzione su un mondo ormai scomparso . Un mondo arcaico  ma non molto lontano, sopravvissuto  a due guerre mondiali  a due emigrazioni epocali ,   pertraghettare una cultura  che sta alleradici  della così detta modernizzazione.Un mondo che sopravvive nelle forti identità di un territorio  che esprime molte potenzialità .
Le foto che qui appaiono  sono quelledelle macchine  che Otello conservainsieme a molte altre  e mentre lescattavo ho avuto modo di parlare con lui  di questo patrimonio culturale ed esperienziale che intende  valorizzare.
Si tratta allora, mi permetto di ipotizzare io, di  recuperare e valorizzare  un percorso, quello della “via del grano”  che dal semplice gesto del seminatore arriva alla produzione di un alimento, il pane. Un alimento che istituisce una economia  storico e geografica  con tutti i suoi simboli e le sue usanze inun territorio vasto come può essere quello del Mediterraneo  Un percorso che attraverso le fasi perprodurre il pane mette assieme tappe che illustrano il lavoro contadino, isaperi  e le tecnologie passando dallemacchine come le trebbiatrici e i mulini al costruito come i forni  fino alle rappresentazioni  simboliche del pane nelle arti visive e nelletradizioni popolari.
Un’utile iniziativa per coinvolgere dunque i territori di Madonna dellaStrada, Rocca S..Stefano,Forcelle di Tornimparte.

(1). Ennio De Simone STORIADELLA MECCANIZZAZIONE AGRICOLA E INTERAZIONE CON IL PAESAGGIO AGRARIO(Intervento al Musa del 12.3.2010http://trattoripedia.wordpress.com/2012/02/13/storia-della-meccanizzazione-agricola-e-interazione-con-il-paesaggio-agrario-intervento-al-musa-del-12-3-2010/)

Eremo Rocca S. Stefano martedì 3 settembre 2013