giovedì 31 marzo 2016

Ti ho lasciato dentro quelle stanze




Ti ho lasciato dentro quelle stanze
luminose,
ora il mio corpo evapora
e non è più quello
di quanto avevo sei anni.
Il viaggio nei corpi
si sa è quello che abbiamo
imparato negando
la normalità;
è che sono stati quei passi
a portarmi sul limite del giorno.
Il giorno poi è fatto
di quelle orme che facevano il cammino.
Io le ho viste quelle orme
sulla sabbia ,sul fango, sulla cenere,
erano anche fatte un po’ di parole
quelle parole che raccontano
quello che accade
e quello che accade si racconta
con quelle parole.
Che ci faccio io poi in questo paese
in questo paese dove so che non voglio
più essere
frana, miseria, fame, dolore,
pianto, silenzio.
Ogni anima esibisce qui una pena
infinita
ed è questo il luogo del capolavoro
del sogno ,
l’artrosi che storce
anche l’antica mestizia
di una terra dell’osso
in un tempo
sfinito e affaccendato
affaccendato e sfinito .

 Valter Marcone Eremo Rocca Santo Stefano giovedì  31 marzo 2016


martedì 29 marzo 2016

CONTRAPUNTO : Piccolo corso di scrittura a cura di Ennio Flaiano


Chi apre il periodo, lo chiuda. È pericoloso sporgersi dal capitolo. Lasciate l’avverbio dove vorreste trovarlo. Chi tocca l’apostrofo muore. Abolito l’articolo, non si accettano reclami. La persona educata non sputa sul componimento. Non usare l’esclamativo dopo le 22. Non si risponde degli aggettivi incustoditi. Per gli anacoluti, servirsi del cestino. Tenere i soggetti al guinzaglio. Non calpestare le metafore. I punti di sospensione si pagano a parte. Non usare le sdrucciole se la strada è bagnata. Per le rime rivolgersi al portiere. L’uso del dialetto è vietato ai minori di 16 anni. È vietato servirsi del sonetto durante le fermate. È vietato aprire le parentesi durante la corsa. Nulla è dovuto al poeta per il recapito.
Ennio Flaiano

Eremo Rocca Santo Stefno martedì 29 marzo 2016

mercoledì 16 marzo 2016

AUTODAFE’ : PAMPALONI ,NOVENTA , OLIVETTI



 


Dove i me versi me portarìa,
Acarezandoli come voialtri,
No’ so fradeli.
Tocadi i limiti del me valor,
Forse mi stesso me inganarìa,
Crederìa sacra l’arte, e la gloria,
Più che l’onor.

O forse alora mi capirìa,
Megio d’ancùo, più dentro in mi,
Quelo che i versi no’ pol mai dar.
Pur no’ savendo esser un santo,
A testa bassa de fronte ai santi,
Par la me ànema mi pregarìa,
No’ più ascoltandome nel mio pregar.
 Giacomo Noventa
Traduzione. Dove i miei versi mi porterebbero, / Se li accarezzassi come [fate] voialtri, / Non so, fratelli. / Toccati i limiti del mio valore, / Forse io stesso mi ingannerei, / Crederei sacra l’arte, e la gloria, / Più che l’onore. // O forse allora io capirei, / Meglio d’oggi, più dentro in me, / Quello che i versi non possono mai dare. / Pur non sapendo essere un santo, / A testa bassa di fronte ai santi, / Per la mia anima io pregherei, / Non più ascoltandomi nel mio pregare.
Paolo Mattei scrive in http://piccolenote.ilgiornale.it “ Franco Fortini osservò che secondo Giacomo Noventa «la sola poesia degna è quella che riconosce i suoi limiti».
Nato a Noventa di Piave (Venezia) nel 1898 e morto a Milano nel 1960, Giacomo Ca’ Zorzi (Noventa è cognome ricavato proprio dal paese d’origine) scrisse le sue poesie soprattutto negli anni Trenta: le diffondeva oralmente, o attraverso missive agli amici, o per mezzo di riviste, utilizzando anche un ulteriore pseudonimo, Piero Sarpi. Fu solo nel 1956 che apparve una prima antologia e, poi, nel 1975, una raccolta per Mondadori.
In questi versi – «i me versi», scritti, al pari della quasi totalità della sua produzione lirica, in una “lingua veneta” «in cui», spiegò Giovanni Giudici, «confluiscono il dialetto veneziano di terraferma […] e gli apporti “italiani” di un certo tipo di parlanti colti di quell’area» – Noventa si rivolge ai propri “fratelli” poeti ricordando loro, e a sé stesso, come non di rado la tentazione di chi fa arte con le parole sia esattamente il non riconoscimento dei propri limiti, l’autocompiacimento e la sacralizzazione della propria opera («Crederìa sacra l’arte»).
Al di là della polemica letteraria e ideologica – che vide Noventa avversare, oltre che l’idealismo, anche la poetica dell’ermetismo, e che lo condusse a scegliere il dialetto (sebbene in una forma antivernacolare, colta e raffinata) come ironico contraltare a ogni sopravvalutazione del pensiero umano operata con l’uso di un linguaggio a suo avviso sempre più disinteressato a nominare le cose («El saor del pan e la luse del çiel», «Il sapore del pane e la luce del cielo») –, in questa lirica il poeta veneto si chiede che cosa proverebbe nell’”accarezzare” i propri versi, nel compiacersene, appunto: essi gli farebbero constatare, forse, i loro limiti, la loro ultima incapacità («Quelo che i versi no’ pol mai dar», «Quello che i versi non possono mai dare») a esprimere pienamente il mistero suggerito dalla realtà («Ogni ùn che se esprime se perde», «Chiunque si esprima, si perde», si legge in un’altra lirica). Mistero che le parole poetiche – le quali, a parere di Noventa, nulla hanno di eroico o di sublime – possono soltanto intuire e umilmente interrogare, fino a diventare, nel loro esito più alto, domanda, preghiera silenziosa («No’ più ascoltandome nel mio pregar»).
Come la preghiera dei santi, i poeti più “esperti” al cospetto dei quali egli vorrebbe trovarsi: «Nec lingua valet dicere, / nec littera exprimere: / expertus potest credere / quid sit Iesum diligere», «Non vi è  lingua capace di dirlo, / non vi è scritto capace di descriverlo: / chi ne ha fatto esperienza può credere / che cosa sia amare Gesù».
Così si legge nell’inno Iesu dulcis memoria, una antica e bellissima poesia attribuita a san Bernardo.
Giacomo Noventa e Adriano Olivetti sono probabilmente gli uomini che hanno contato di più nella mia formazione e in definitiva nella mia vita. Avevano assai poco in comune, se non di dover morire nello stesso anno (il 1960), e di essere stato l’uno (Olivetti) il primo editore delle poesie dell’altro. Ma avevano in comune un’altra cosa, e decisiva: Noventa, poeta, non amava «coloro che in Italia sono detti poeti», e Olivetti intendeva fare politica prescindendo dagli uomini politici del suo tempo. La loro vocazione profonda era di profeti inascoltati ma al tempo stesso erano fiduciosi, attivi, tutt’altro che solitari, dediti all’ordine positivo del fare; e se i loro provvisori successi si rispecchiavano puntualmente in una inevitabile sconfitta generale, in quella sconfitta, per estrema contraddizione, entrambi riconoscevano il loro segreto di verità, la parte alta e vincente del loro destino.
Geno Pampaloni scrive in Poesia ,politica e fiori «La poesia di Giacomo Noventa non è contemporanea alla poesia italiana contemporanea»; così cominciava la mia prefazione alle poesie di Noventa, edite nel 1956 dalle Edizioni di Comunità. La stessa formula, sostituendo “poesia” con “politica”, si sarebbe potuta usare per Olivetti. Ciò ha aperto una seria, salutare incrinatura, o breccia, nel mio storicismo di fondo; e ha segnato il punto di coagulo delle mie inquietudini religiose. Quella non contemporaneità tra contemporanei rimandava, infatti, a una sorgente e a una misura dei valori diverse e più complesse di quelle indicate dalle apparenti necessità della ragione storica. Come logico riscontro politico, nessuno dei due era, in senso stretto, “antifascista”, e neppure “democratico”. Noventa era un giobertiano, un cattolico liberale, un pre-democratico. In gioventù si era iscritto al partito liberale, ma ne uscì subito, non avendo trovato tra gli iscritti (disse) Camillo Cavour. Olivetti era un socialista ereticale, non marxista, cittadino a pieno titolo della società industriale, che univa all’ispirazione religiosa un fortissimo gusto dell’ingegneria delle istituzioni; un post-democratico. Di recente a Firenze, durante un convegno di critici, Noventa è stato ricordato come “fascista”, soprattutto perché sulla sua rivista, «La Riforma letteraria», aveva affermato, citando Mussolini, che «colla guerra d’Etiopia e dopo la guerra d’Etiopia un periodo della nostra storia si è chiuso», e il nuovo periodo è «come un immenso varco aperto su tutte le possibilità del futuro».

Si era nella primavera del 1937; ed è chiaro che Noventa non aveva previsto l’asse Roma-Berlino, le leggi razziali, la guerra di Hitler, così come il critico che amava di più, Giacomo Debenedetti, in quello stesso giro di anni lodava la prosa di Mussolini con questa splendida formula-citazione: «Jamais les Bourbons sauraient parler comme ça». Ma il senso della frase noventiana, nella sua prosa poeticamente metaforica, era quasi il contrario del suo significato letterale. La guerra d’Etiopia era per lui pressappoco quello che per Dante era stato Arrigo VII: un appuntamento con la grandezza di una storia sognata. Con la guerra d’Etiopia, scriveva infatti, «la nostra giovinezza è finita»; il che equivaleva al dire che anche il fascismo era finito, e con esso «l’idealismo, la filosofia di quel mondo di cui il fascismo è stato, fino alla guerra d’Etiopia, la politica e la religione». Nello stesso modo, più tardi, egli doveva rivendicare il valore della Resistenza come evento profondamente popolare, risorgimentale e aperto al futuro, contro l’antifascismo, figlio invece della stessa cultura da cui era nato il fascismo. Del resto la polizia fascista si dimostrò più intelligente dei critici di oggi, arrestando Noventa e rilasciandolo solo dopo avergli imposto la proibizione di abitare in città sedi di università, ove avrebbe potuto svolgere la sua opera di corruttore dei giovani.

Quando lo conobbi io, alla fine del 1937, ero un giovane arrivato a Firenze dalla provincia, fascista illuso e vagamente scontento; altri amici, Spini, Lattes (Fortini), D’Alema, Nomellini, erano molto più avanti di me nella consapevolezza politica; ma Noventa era rispettoso della mia ingenuità come della loro contestazione. Passeggiava a lungo con noi, profondendo citazioni, aforismi, stoccate, sentenze in una conversazione di impareggiabile, generosa amabilità, da antico patrizio veneto qual era. A notte alta lo riaccompagnavamo a casa, verso piazza d’Azeglio, ove scriveva poche righe al giorno di quella sua prosa concentrata come il denso caffè che di continuo si preparava in una mastodontica caffettiera di vetro simile a un alambicco.
Il suo ideale di un mondo «assolutamente classico e assolutamente cattolico» era un ideale di grandezza morale, civile, religiosa, che con il fascismo non aveva niente a che vedere, ma ancor meno con l’antifascismo, colpevole anzi, ai suoi occhi, di disperdere la sua superiorità intellettuale nella sterile razionalità dello storicismo. Il suo era un cattolicesimo dantesco, o alla Péguy, anticlericale quanto antimodernista, popolare quanto antipopulista («Cristo sull’asino e non l’asino su Cristo»). La sua compagnia, come la sua poesia, furono per me una risolutiva lezione di libertà, di cui sentii per la prima volta chiaramente la responsabilità primaria, personale, intima, coscienziale: «un uomo libero», soleva ripetere citando forse uno scrittore che ignoro «si riconosce anche da come chiede un bicchiere d’acqua».
Olivetti era invece totalmente di “cultura” moderna, di segno più protestantico che cattolico, anche se l’esercizio rigoroso, coerente, della ragione egli lo applicava entro un personalissimo scenario magico-religioso, di tipo junghiano. In un discorso elettorale, una volta, affermò che il nuovo Salvatore, annunciato dal Vangelo, è lo spirito della scienza.

Nessuno meglio di lui ha capito che il problema del nostro tempo, disumanizzato dalla tecnologia, non si risolve con qualsiasi forma di regressione o rallentamento, ma con la umanizzazione della scienza: il che implica anche il dovere della giustizia. La giustizia sociale (nella accezione più ampia, comprendente anche la possibilità per tutti di fruire della bellezza; per cui l’arte applicata, dall’urbanistica al design, era per lui più vicina alla giustizia che non la poesia) è l’unica forma di progresso ammissibile per chi non crede, come gli spiriti religiosi, al progresso. Olivetti era uno strano progressista (antistoricista), uno strano illuminista (magico). Alla verità della storia credeva di poter arrivare con l’ascolto dei “segni”. Credo di averlo conosciuto una volta per sempre, nella vertigine del suo solitario dialogo con la storia, pochi mesi dopo il mio arrivo a Ivrea. Aveva chiuso l’edizione torinese di «Comunità», affidata a due professori, Cairola e Rovero. Accadde che, in un breve periodo, entrambi morirono. «Come vede», fu il suo commento, «era una strada sbagliata».

Questa vena sapienziale, biblica, era fondamentale nella sua persona, e la sua esperienza di fabbrica la alimentava più di quanto non la contraddicesse. È vero che talora si aiutava, nelle assunzioni, con la grafologia e l’astrologia. Più vero che raccomandava: «Non esistono persone già fatte per un ruolo; per sapere se sono adatte a quel ruolo occorre immaginare come saranno diventate tra un anno». Portò la psicologia scientifica nell’ufficio del personale; ma facilitava con tutta la sua autorità l’ingresso in fabbrica dei figli dei dipendenti, «perché è così, diceva, che si forma una tradizione». Sulla persecuzione contro gli ebrei aveva una teoria molto bella. Sono odiati, mi disse, perché sono ricchi di «qualità invisibili», la tenacia, la fedeltà, il rispetto della parola data, il pudore, che gli altri non sanno prevedere e controllare. Così, al di là delle intuizioni geniali di imprenditore intellettuale, di editore e anche di teorico della politica, e al di là delle proverbiali bizzarrie, io mi ritrovo, invecchiando, a riconoscere in lui ciò che non avrebbe mai ammesso di avere ereditato da suo padre, il fondo ebraico, quasi rabbinico, di un’antica saggezza.
Perché si risolvesse a pubblicare le poesie di Noventa, e perché Noventa, dopo avere resistito per oltre vent’anni nell’orgoglio di rimanere inedito, accordasse a lui il privilegio di pubblicarle, non so (forse lo sa Soavi). Ciò che so è questo. Grazia Olivetti, la seconda moglie, aveva avuto da poco la loro unica figlia. Quando Noventa venne a cena a casa Olivetti, a Ivrea, con il libro dalla memorabile copertina di carta verde (tra l’alloro e l’ulivo), si prodigò in tutte le invenzioni della sua squisita galanteria; portò in quel salotto da studio di architettura, felpato di anonime moquette bianche, Goldoni e Petrarca, Ronsard e Cocteau, recitò come un doge di grande sangue travestito da gondoliere. «La poesia è anche un mazzo di fiori», disse a un certo punto, mostrando di aver capito, e di non rifiutare, di essere stato offerto come dono a una giovane sposa. Adriano Olivetti era felice: con mano inesperta accese l’unica sigaretta che in dodici anni gli ho visto fumare (aprile 1980).
(1)   Pp.145-150 Edizioni di Comunità ,Roma Ivrea 2016
Eremo Rocca Santo Stefano  mercoledì 16 marzo 2016

VERSI D'ALTRI E ALTRI VERSI :In questa notte nuda di parole



In questa notte nuda di parole
come un angelo cancelli il mio dolore
nella grazia tremante del tuo sguardo.
Anche se questo esilio mi apparterrà per sempre
la tua dolcezza è un’anima,
un lampo acceso nel destino,
una carezza deposta nel mio cuore
più forte del vento solitario
che vi respira dentro.
Lo so che un’ombra ci separa,
che questa luce è fragile
come certi lucignoli che scuote
la brezza leggera d’autunno,
ma il tuo sorriso forse l’ha scritto Dio
nel mio destino.
Roberto Carifi da “Amore d’autunno”, Guanda, Milano, 1998

Eremo Rocca Santo Stefano mercoledì 16 marzo 2016


martedì 15 marzo 2016

FESTA DELLA POESIA 21 Marzo 2016 RIDARE LA POESIA A L’AQUILA,RIDARE L’AQUILA ALLA POESIA






L’Associazione Bambini di Ieri e di oggi organizza  per il giorno 21 marzo 2016,primo giorno di primavera La FESTA DELLA POESIA che si terrà , con inizio alle ore 17,00 nel Palazzo Fibbioni di L’Aquila. L’evento è parte del progetto “ Volano libri” con il quale intende animare l’iniziativa  dello “Scaffale aperto”,uno scaffale dal quale si possono prelevare gratuitamente dei libri  da tenere dopo la lettura o dove si possono donare dei libri.  Al momento è operante un solo scaffale presso la sede  dell’Associazione in Via Rocco Crbba ,Piazzale della Meridiana ma l’Associazione ha in animo di moltiplicare gli scaffali collocandoli in vari edifici di L’Aquila e del suo territorio ( scuole, parchi, gallerie commerciali , ospedale ecc.) .Il progetto Volano libri intende quindi promuovere la lettura con presentazione di autori ed editori,mostre,incontri culturali ,eventi tra i quali appunto questa prima FESTA DELLA POESIA.
La manifestazione prevede dunque la performance dei  poeti  Vera Barbonetti , Matteo Capannolo ,
Angela Chermadi  ,   Bernardino dell’Aguzzo, Emanuela Gentilini Paride Duronio ,Aquilio Giorgi,Barbara Giuliani ,Carla Gonnelli , Valter Marcone ,Giuliana Cicchetti Navarra,Giuliana Prescenzo( Lilly),Maria Piera Pacioni  ,Alessandra Prospero,Paolo Ripari,  Dimitri Ruggeri,Claudio Spinosa, Anna Maria Rita Tinari,Fabio Tobia , Guido Tracanna,  Fiorella Visioni  che leggeranno le loro poesie e la partecipazione dei poeti Totò Barasso ,Gino Carapello,Renata Feo , Alessandra Biagi, Valeria Coletti, Clara Di Stefano che impossibilitate a partecipare hanno affidato le loro poesie alla voce di Maurizio di Giacomantonio come  pure  Carla Liberatore  e   Iva  Polcina   pur presenti .

Inoltre l’evento si avvarrà di  un intervento del prof. Gianfranco Giustizieri   :”Dalla prosa d'arte alla poesia. Itinerario di una scrittrice: Laudomia Bonanni." Letture di Tiziana Gioia.
E’ previsto un un omaggio  a  Giorgio Bassani e a Natalia Ginzburg di cui ricorre quest’anno per entrambi il centenario della nascita .Saranno lette alcune poesie dall’attore  Maurizio Di Giacomantonio . Lo stesso attore,come già detto,  leggerà nel corso della manifestazione opere di poeti che pur aderendo alla manifestazione non potranno essere presenti e poesie di autori aquilani e abruzzesi  ormai antologizzati.
Le performance e le letture si avvarranno del commento musicale delle chitarre di Vincenzo Guglielmi e del suo gruppo.
Ultima parte dell’evento prevede la partecipazione interattiva  del pubblico presente  che sarà invitato  a leggere o recitare una “poesia del cuore “ proprio per il “senso della festa “ che un evento del genere non solo evoca ma ha intenzione di  realizzare .
Le poesie lette durante la serata saranno raccolte in un volume  antologico  che sarà  presentato  in preparazione di un successivo evento che intende mettere di nuovo al centro dell’attenzione la poesia in una NOTTE DELLA POESIA  da realizzarsi nel prossimo mese di settembre  articolato in una serie di  performance , una specie di isola sonante della poesia per le piazze del centro storico di L’Aquila probabilmente in collaborazione .
L’Associazione per preparare l’iniziativa oltre alla locandina  e alle normali iniziative di informazione  ha curato l’affissione nel centro storico della città locandine contenenti poesie  (ogni locandina una poesia diversa  nell’intendo di   RIDARE  LA POESIA A L’AQUILA,RIDARE L’AQUILA ALLA POESIA  .
Infine l’Associazione intende realizzare un caffè letterario   POETRY’S CAFE’ per dare continuità a  questa prima edizione della festa  della poesia con presentazione di poeti, performance, ospitando eventi con poeti a braccio  e poetry slam slam .

Eremo Rocca Santo Stefano  Martedì 15 marzo 2016

VERSI D'ALTRI E ALTRI VERSI :La clamorosa dolcezza – Maria Grazia Calandrone

La clamorosa dolcezza delle clavicole, la percussione cessata dei finimenti muscolari, le valvole
che l’hanno finalmente abbandonata
sulla terra, l’angolo umile che fa la testa
per celare il sorriso
sulla cruda colonna del corpo
dice: ti ho aspettato per tutta la vita
ho visto la tua vita
nei miei sogni e tutta, notte
dopo notte, si risolveva nel perdono. In certe svolte
quando il cielo pieno di meraviglia coincideva
con la bolla degli alberi agitati dalla piena
luna, io mi svegliavo
per causa dei tuoi sogni
e portavo il tuo nome come una bandiera
che saliva dal petto e mi rendeva
invisibile: di me
si vedeva soltanto il tuo nome. Io sapevo
che avremmo dovuto terminare vicini
qualunque cosa nel frattempo fosse stata di noi. Adesso
eccomi, sono qui per finire
nella tua fine, per aspirare l’ultimo respiro
dalla tua bocca
e soffiarlo attraverso la bocca
che dopo te nessuno ha più baciato,
al cielo.

Eremo Rocca Santo Stefano martedì 15 marzo 2016



martedì 8 marzo 2016

CONTRAPPUNTO :Otto marzo “Penelope in Triangle Shirtwaist Factory” Una tragedia per ricordare la condizione della donna




 
“Penelope in Triangle Shirtwaist Factory” è uno spettacolo andato in scena domenica 6 marzo  2016 al Teatro 99  in Via Rocco Carabba  a  L’Aquila .Parla dell’incendio  dell’omonima manifattura  avvenuto agli inizi  dello scorso secolo  in America dove perirono numerose donne e uomini che vi lavoravano in chiave rivista e ammodernata . Lo spettacolo  viene replicato in occasione dell’imminente otto marzo Festa della donna ed è proposto dall’Associazione culturale  I Guastafeste .Scritto da Marco Valeri  vede  la partecipazione  di Sandra Ludovici,Anna Agamennoni ,Emanuela Gentilini ,Romina Di Ruosi. Il testo prende le mosse  dalla tragedia americana e mette in evidenza,dopo un lungo lavoro di laboratorio ,aspetti sociali,culturali,generazionali, storici del mondo femminile .
New York ore 16,40 di venerdì 25 marzo 1911,Washington Place.Agli ultimi tre piani di un edificio su quella piazza ,occupati da una manifattura di camicie, la “Triangle Waist Company” , stanno lavorando  cinquecento ragazze e donne giovani (tra i 15 e i 25 anni), più un centinaio di uomini .Gli i ingressi sbarrati per evitare  che si possa lasciare il lavoro seppure momentaneamente . Per  cause accidentali scoppia un incendio che si propaga  dall’ottavo piano  subito al nono e poi devasta il decimo.
Immediatamente  si evidenzia la vastità dell’incendio  e la difficoltà dei soccorsi .Alcune donne riescono a scendere lungo la scala anti incendio che  presto crolla per il peso del numero delle donne in fuga , come cede anche l’ascensore . Le cronache raccontano che si videro scene di panico  e di dolore forse simili  solo a quelle  avvenute  dopo  l’attacco alle Twin Towers l’11 settembre del 2001.
La Triangle Shirtwaist Company produceva le shirtwaist camicette alla moda di quel tempo Apparteneva a Max Blanck e Isaac Harris e occupava i 3 piani più alti del palazzo a 10 piani Asch building a New York City, nell'intersezione di Greene Street e Washington Place, poco ad est di Washington Square Park.
Gian Antonio Stella che qualche anno fa è stato tra i primi ad associare l’8 Marzo all’incendio della “Triangle” (“Quella svista sull’8 marzo”, Corriere della Sera, 8 marzo 2004).così ricostruisce con fonti della stampa del tempo i drammatici momenti di quell’avvenimento  :«La folla da sotto urlava: “Non saltare!”», scrisse il New York Times. «Ma le alternative erano solo due: saltare o morire bruciati. E hanno cominciato a cadere i corpi». Tanti che «i pompieri non potevano avvicinarsi con i mezzi perché nella strada c’erano mucchi di cadaveri». «Qualcuno pensò di tendere delle reti per raccogliere i corpi che cadevano dall’alto», scrisse il Daily, «ma queste furono subito strappate dalla violenza di questa macabra grandinata. In pochi istanti sul pavimento caddero in piramide orrenda cadaveri di trenta o quaranta impiegate alla confezione delle camicie». «A una finestra del nono piano vedemmo apparire un uomo e una donna. Ella baciò l’uomo che poi la lanciò nel vuoto e la seguì immediatamente». «Due bambine, due sorelle, precipitarono prese per la mano; vennero separate durante il volo ma raggiunsero il pavimento nello stesso istante, entrambe morte».“Negli occhi di tutti restò l’immagine di una ragazza che,lanciatasi nel vuoto nella speranza di aggrapparsi all’edificio accanto, restò impigliata per alcuni interminabili secondi finché le fiamme le divorarono il vestito lasciandola precipitare.Forse era russa, tedesca, finlandese… Ma non è improbabile che quella poveretta fosse italiana”.
Delle 146 donne sfracellate al suolo 39 erano italiane,altre  ebree venute negli Stati Uniti dall’Europa orientale, dalla Russia , per sfuggire ai  pogrom. Le donne della “Triangle” lavoravano sessanta ore la settimana con un lavoro  estenuante e una organizzazione  che mai il sindacato aveva potuto controllare .Attraverso una feroce sorveglianza esercitata da “caporali” esterni, retribuiti a cottimo dai padroni, ognuno dei quali sorvegliava e retribuiva a sua volta sette ragazze. venivano imposti  ritmi massacranti, che spesso erano origine di incidenti durante le ore lavorative .Alcune lavoratrici avevano 12 o 13 anni e facevano turni di 14 ore per una settimana lavorativa che andava dalle 60 ore alle 72 ore. Pauline Newman, una lavoratrice della fabbrica, dichiarò che il salario medio per le lavoratrici andava dai 6 ai 7 dollari la settimana.. L'evento ebbe una forte eco sociale e politica, a seguito della quale vennero varate nuove leggi sulla sicurezza sul lavoro e crebbero notevolmente le adesioni alla International Ladies' Garment Workers' Union, oggi uno dei più importanti sindacati degli Stati Uniti.
Dopo l’istituzione della festa della donna l’otto marzo questa data fu associata ad  un  fantomatico incendio a New York della fabbrica “Cotton” (8 marzo 1908),  fatto mai  accaduto. Nel Museum of the City of New York, che si trova nell’Upper East Side, sono ricordati  gli incendi che  nei secoli   si sono verificati in città: della fabbrica “Cotton” e dell’8 marzo del 1908 non c’è traccia. Invece nel museo è narrato per immagini in una sequenza  shockante  l’incendio della fabbrica “Triangle” del 1911. Non è poi del tutto certo che l’otto marzo ricordi questa data e questo fatto che è comunque è significativo per illustrare le condizioni  di lavoro delle donne nella organizzazione  industriale dello scorso secolo
.Infatti la Festa della donna ha una origine dibattuta tanto che la si vuole associata anche al 50° anniversario di uno sciopero di lavoratrici tessili, a New York  represso l’8 marzo del 1857, la  rivolta pacifista delle operaie di Pietrogrado, l’8 marzo 1917  o per celebrare l’8 marzo 1848, quando le donne di New York scesero in piazza per avere i diritti politici.
 Oggi  ,in occidente molte cose sono cambiate per quanto riguarda la condizione della donna  e molta strada è stata fatta  partendo dalle parole che qui riportiamo  di  Francesco Crispi, Presidente del Consiglio dal 1887 al 1896, che in quegli anni si oppose alla proposta di concedere il voto alle donne italiane.”La donna è regina dei cuori finché resta estranea alle lotte politiche, ma se la spingerete nella politica non sarà più il tesoro della famiglia, non potrà più provvedere alle necessità del marito e dei figli, né assisterli. Se voi, o signori, fate entrare la donna nella politica,
essa non sarà più l’angelo consolatore della famiglia.”

“Penelope in Triangle Shirtwaist Factory” è un lavoro scritto e diretto da Marco Valeri.Quasi un prirandelliano quattro donne in cerca di autore perché con sullo sfondo la tragedia americana del secolo scorso evidenzia in un percorso a dir poco affascinante ma sicuramente puntuale  il cammino fatto dall’idea di emancipazione femminile. E lo fa non solo attraverso le emozioni che la bravura delle interpreti riescono a comunicare ma anche attraverso una serie di rimandi  storici e culturali molto impegnativi.E soprattutto si avvale di parole chiave lungo il dipanarsi di un tempo scenico ma anche lungo  una riflessione sul tempo della vita  delle protagonista coinvolgendo spesso gli spattori.Il tempo come misura di ogni cosa ma anche come bene  prezioso a cui rapportare  la vita  e tutte le sue manifestazioni. Un tempo che la tela di Penelope conosce molto che si fa e si disfa  continuamente e in questo moto alternato scorre come tutte le cose scorrono. Penelope  la sposa, la madre, la regina ,la donna, diventa  il simbolo metaforico dell’avverarsi di una “parola “ ,porta dalla bocca delle protagoniste, che di volta in volta assume connotazioni  e implicazioni  culturali, storiche, generazionali .Così “ corri corri che bisogna lavorare “, “zitta e lavora”,”il tempo è sempre poco “,”lui non ritorna” diventano l’incarnazione di una condizione  della donna che questo lavoro di  Marco Valeri presenta agli spettatori suscitando sicuramente, come dice Emanuela Gentilini ,”…una grande emozione, attraverso un grande testo, una tematica forte ricca di cuore, impegnata e pur non priva di toni goliardici, che fanno sorridere, a volte turbare e di sicuro riflettere...”
Fonti : - “8 de marzo”, Video con le tragiche immagini di quel 25 marzo 1911 (nel video erroneamente l’8 marzo 1908)
- Altro video con immagini della tragedia del 25 marzo ‘11
FONTE http://restellistoria.altervista.org/

Eremo Rocca Santo Stefano martedì 8 marzo 2016