domenica 31 ottobre 2010

CANZONIERE : J'Abbruzzu

CANZONIERE : J'Abbruzzu

J'Abbruzzu di Carlo Perrone

So' sajitu aju Gran Sassu,

so' remastu ammutulitu...

me parea che passu passu

se sajesse a j'infinitu!

Che turchinu, quante mare,

che silenzio, che bellezza

pure Roma e j'atru mare

se vedea da quell'ardezza.

Po' so' jitu alla Majella,

la muntagna è tutta 'n fiore;

quant'è bella, quant'è bella,

pare fatta pe' l'amore!

Quantu sole, quanta pace,

che malia la ciaramella

ju pastore veja e tace

pare ju Ddiu della Majella.

Po' so' jitu alla marina

e le vele colorate

co' ju sole la mmatina

se so' tutte 'Iluminate.

Se recanta la passione

ju pastore alla montagna,

ji responne 'na canzone

dajiu mare alla campagna.


L'Abruzzo di Carlo Perrone

Son salito sul Gran Sasso, son rimasto ammutolito... mi pareva che passo passo si salisse all'infinito!

Che turchino, quanto mare, che silenzio, che bellezza, pure Roma e l'altro mare si vedevan da quell'altezza.

Poi sono andato sulla Majella, la montagna è tutta in fiore; quant'è bella, quant'è bella, sembra fatta per l'amore!

Quanto sole, quanta pace, che malia la ciaramella; il pastore veglia e tace pare il Dio della Majella.

Poi sono andato alla marina e le vele colorate con il sole la mattina si son tutte illuminate.

Se ricanta la passione il pastore sulla montagna, gli risponde una canzone dal mare alla campagna.

All'orte di Anonimo

Ji vaj'all'orte a coje li rose,

scontre lu spose e me mett'a parla'.

Me mett'a parla', me mett'a canda':

"Senza lu spose l'amor 'n ze pò fa'!"

Cingue, la bella sei, la sette là là,

senza lu spose l'amor 'n ze pò fa'!

Ji vaj'all'orte a coje la menducce

, scontre Ruccucce e me mett'a parla'.

Me mett'a parla', me mett'a canda':

"Senza Ruccucce l'amor 'n ze pò fa'!"

Cingue, la bella sei, la sette là là,

senza Ruccucce l'amor 'n ze pò fa'!

All'orto di Anonimo


Io vado nell'orto a coglier le rose, incontro lo sposo e mi metto a parlar. Mi metto a parlar, mi metto a cantar: "Senza lo sposo l'amor non si può far!"

Cinque, la bella sei, la sette là là, senza lo sposo l'amor non si può far!

Io vado nell'orto a coglier la mentuccia, incontro Ricuccio e mi metto a parlar. Mi metto a parlar, mi metto a cantar: "senza Ricuccio l'amor non si può far!"

Cinque, la bella sei, la sette là là, senza Ricuccio l'amor non si può far!

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, Domenica 31 ottobre 2010



venerdì 29 ottobre 2010

SILLABARI : Autorità


SILLABARI : Autorità


Scrive Gianni Chiodi sul suo profilo Facebook il 25.10.2010 : "L’autorità? Chi osa ancora parlarne ? E’ una di quelle parole che possono stroncare una carriera politica, una parola che non si dice tra le persone perbene, anzi una parolaccia per chi professa il pensiero unico. Appena ne parli, vieni immediatamente sospettato di volere come minimo uno Stato di polizia, di voler attentare alla libertà dei cittadini.

A mio parere, c’è una crisi etica nella società italiana. E questa crisi nasce dalla svalutazione dell’autorità e accompagna il gusto folle - e un po’ tardivo - delle trasgressione che, dopo quaranta anni di ideologia e prassi antiautoritaria, è ormai costretto ad esercitarsi nel vuoto, e deve ripiegare nel nichilismo, in una spirale cieca e distruttiva, per l’assenza spaventosa di regole da trasgredire, di tabù da infrangere, per la mancanza di divieti da superare, dopo decenni passati ad irridere l’ordine, il potere e l’autorità in nome della liberazione e della critica alla morale borghese.

Non si è reso un bel servizio alla società nel dare all’ordine una connotazione negativa, nel farne un disvalore da detestare, ridicolizzare e sovvertire. I primi a risentirne sono i più deboli, perché il disordine e l’ingiustizia colpisce non i forti e i potenti, che si possono proteggere da soli, ma i più umili e vulnerabili, che non hanno i mezzi per difendersi. Sovvertire l’ordine significa colpire i più deboli. E questo la sinistra non l’ha mai capito.

Ma non mi ritengo un autoritario perché mi piace l’ordine, mi piace anche il movimento. L’idea di ordine per me non ha niente di trascendente ma è la barriera al disordine.

L’ordine significa riconoscere che c’è una scala di valori, che esistono doveri in cambio di diritti. E’ l’onestà, il civismo, la fiducia. E’ lo Stato di diritto che premia i meritevoli e punisce i criminali.

L’Ordine insomma è libertà più che repressione. Libertà nel senso nobile del termine che un liberale trova subito nella definizione di “Montesquieu”: la tranquillità d’animo che proviene dalla coscienza che ciascuno ha della propria sicurezza.

Ma oggi, per rivalutare l’autorità, e riscoprirne la funzione di principio inderogabile di civiltà, e necessario compiere prima una rivoluzione mentale e culturale.

Bisogna dire basta all’inversione dei valori, ribellarsi al nichilismo ottundente, al relativismo esangue. Bisogna, insomma, rinunciare una volta per tutte alla critica della morale borghese predicata dal 1968 e dai suoi emuli attardati, che ancora oggi si ostinano a ritenere superata l’obbedienza dei figli ai genitori, a giudicare fuori moda la superiorità dei professori rispetto ai desideri degli studenti, e si dilettano a praticare per hobby la trasgressione, schierandosi sempre e comunque e in ogni caso contro la legge, contro lo Stato, contro la Polizia e magari inneggiano alle bande di criminali che infestano gli stadi e ammazzano i poliziotti, o al partito antagonista dei no-global.

Negare tutte le forme di autorità significa introdurre una sorta di violenza primitiva nei rapporti sociali.

Di qui deve partire la critica senza appello al 1968 come ideologia, e ai suoi ultimi adepti inamovibili che, fuori tempo massimo, continuano ad imporsi alla opinione pubblica. Bisogna liberarsi di queste pastoie culturali dei sessantottini ormai maturi.

Comunque non sono contro il ‘68 (che ha avuto anche marginali aspetti positivi) bensì contro gli eredi del 68, contro l’aristocrazia dei sessantottini che imperversano ancora tra i professori di liceo e dell’Università, che continuano a celebrare il passato, autocelebrandosi, senza capire che in questo modo hanno spezzato la schiena ad una generazione che oggi, per imitare i fratelli maggiori, scende in piazza e spacca le vetrine, perché si sente esclusa, tagliata fuori da tutto

L’eterogenesi dei fini li ha presi in contropiede. I vecchi mostri di moralità al negativo credevano di emancipare ? Hanno finito per alienare. Credevano di liberare la società ? L’hanno invece demoralizzata. Erano convinti di agire in nome degli oppressi, di incarnare il potere operaio e realizzare la giustizia del popolo ? Le prime vittime dell’inversione dei valori, del disprezzo dell’ordine e della autorità sono proprio gli oppressi, gli umiliati. Sono loro e i quartieri delle città in cui vivono, a essere i più colpiti dagli effetti del disordine, dalla disfatta della scuola e della famiglia. Il primo ad essere aggredito dalle bande di delinquenti delle banlieu francesi che gli incendiano l’auto sotto casa è l’operaio che non ha ancora finito di pagarla a rate; ed è sempre lui che si ritrova disoccupato quando la concorrenza (spesso sleale) cinese attacca il mercato europeo a colpi di dumping monetario, sociale e ambientale.

Per venti anni in Italia ha dominato il conformismo politicamente corretto della generazione di Veltroni cioè il “pensiero unico”. Si è imposta l’ideologia terzomondista, l’empatia umanitaria di emergency; l’ipocrisia.

Ma la politica ha bisogno di schemi nuovi, di rompere la cappa di piombo del cosiddetto “pensiero unico” delle vecchie abitudini al conformismo e alle idee stantie, come vietato vietare, abbasso la scuola, viva la rivolta permanente contro la morale borghese, contro lo sfruttamento, il capitalismo, il potere, perché è sempre repressivo, e tutto questo in nome di una coazione a ripetere vecchi schemi defunti, di un edonismo di massa che è solo l’altra faccia della disperazione, della illusione di una vita fondata sul proprio piacere, retaggio del 1968 e della sua morale fallimentare.

Però non mi faccio illusioni che ciò accada in Italia velocemente. Un Paese dove il civismo, se mai esista, obbedisce a principi opposti, dove, 60 anni dopo la fine della guerra e la sconfitta, parlare di “fierezza della nazione” mette ancora a disagio, dove può succedere che il disordine, la rivolta, il disprezzo dello Stato vengano addirittura santificati e blanditi dagli stessi membri del governo, sempre pronti a gareggiare in radicalismo con i forsennati di strada, soffiando sull’antagonismo a tutti i costi, e dove persino le “elite” sono convinte che il potere appartenga a colui che è più ricattabile e venga conferito da chi è ancora più ricattabile."

Scrive Giulo Petrilli

"C’è da rimanere senza parole nel leggere questo documento che attacca la democrazia diretta, la partecipazione dal basso, la critica al potere inteso come corruzione e affarismo, perché questa è la vera critica dei movimenti del '68 e del '77 al potere - continua Petrilli. Il garantismo nasce da questa cultura deve sapere Chiodi, non nasce per difendere il ceto politico, nasce come cultura antirepressiva su la liberalizzazione delle droghe leggere, nasce dalla cultura dell’amore libero, nasce dalla critica al quartier generale, da qualsiasi parte esso si esprima". "Nasce si da una cultura contro lo statalismo inteso come oppressione dei movimenti di trasformazione, come ossigeno e ricchezza, come garanzia dei diritti e della difesa nei processi". Petrilli conclude affermando "Berlusconi ha scoperto il garantismo per sé, il '68 l’ha scoperto per tutti e di più per le fasce deboli e gli invisibili, questo non ha capito il governatore Chiodi, che esalta l’autorità tranne quella giudiziaria quando attacca il Pdl".

Scrive Anna Colasacco


Il presidente Della Regione Abruzzo, Gianni Chiodi, ha reso pubblica, tramite una nota di facebook, un'esternazione in merito all'autorità ed al pensiero unico.

Potete leggerla qui:

Chiodi: Contro il pensiero unico sull'autorità

e ho ritenuto opportuno rispondere.

Egregio Presidente Chiodi, vorrei reagire alla Sua intemerata in favore dell’autorità, anzi dell’Autorità, non una qualità di cui si analizzi il senso e la portata, per comprendere a chi spetti, a chi debba essere riconosciuta e perché, ma una sorta di valore assoluto. A prescindere.

Ho riletto la nostra bella Costituzione repubblicana: vi ho trovato i valori della dignità, dell’eguaglianza (art.3), della libertà (art.13,14,15,16 ecc), del rispetto della persona umana (art.32), ma non ho trovato il valore dell’autorità. La parola autorità, lì, non è mai usata da sola, ma come “autorità di pubblica sicurezza” (art.13), “autorità giudiziaria” (art.21) per definire una funzione pubblica.Ho poi letto la più recente “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”,che ha valore giuridico da appena un anno, e anche lì ho trovato che i sei valori cui sono intitolati i capitoli nei quali la Carta è suddivisa sono: dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia. Non si parla dell’autorità. Eppure non sono affatto ignorati i doveri. Anzi, si afferma che il godimento dei diritti previsti “fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future”.Il potere di per sé non è buono. Da Montesquieu in poi abbiamo imparato che deve essere diviso, controllato, soggetto alla legge.L’autorità si conquista con l’autorevolezza.

Se imposta forzatamente, è mero autoritarismo.L’ordine senza aggettivi non è un valore. L’ordine regna anche nei cimiteri. E nei gulag.L’obbedienza di per sé non è una virtù. Il dovere di disobbedire agli ordini ingiusti è una delle conquiste della nostra civiltà giuridica, frutto della profonda “rivoluzione dei diritti umani” che, a partire dal secondo dopoguerra, ha segnato una svolta nella comunità internazionale. Dopo gli orrori della guerra e dell’olocausto. Questo dovere di disobbedienza non ha nulla a che vedere col “nichilismo ottundente” o il “relativismo esangue”. Anzi, richiede un sovrappiù di coraggio e di responsabilità di cui si vedono oggi assai pochi esempi, e non certo per colpa del ’68.E’ davvero azzardato sostenere che la “crisi etica” della società italiana nasca dalla “svalutazione dell’autorità”, quando sono del tutto evidenti ben altre cause. Dalla corruzione, per cui l’Italia vanta un triste primato, alla collusione fra poteri pubblici (le “autorità”, appunto) e le mafie; dall'accaparramento di vantaggi personali da parte di coloro che dovrebbero rappresentare la Nazione, od essere “al servizio esclusivo della Nazione”,ai conflitti di interesse. Sino alla trasformazione in merce e all’umiliante esibizione mediatica del corpo femminile, per dirne solo alcune. Da qui, nasce una cattiva democrazia che esprime istituzioni prevalentemente prive di minimo etico. Estranee ad ogni istanza egalitaria. Una cattiva democrazia non riscuote rispetto per le autorità semplicemente perché non lo merita.Forse lei dimentica che la nostra storia non comincia, né finisce con il 1968, con i suoi pregi e i suoi difetti. C’è un lungo prima e un consistente dopo. Un prima di riscatto da regimi dittatoriali (e “autoritari”, appunto) e un dopo segnato da Tangentopoli.E’ giustissimo pretendere il rispetto per chi esercita legittimamente una funzione pubblica. Dai professori ai poliziotti. Ma, appunto, “legittimamente”. Ed è purtroppo vero che molti danni hanno fatto gli egoismi di un individualismo proprietario, le chiusure e le paure di un Paese che ha perso il rispetto per se stesso e smarrito i valori delle lotte combattute per riscattarsi sia dal passato fascista, che dalla povertà e dallo sfruttamento. Fra questi il valore della solidarietà e l’importanza della conoscenza e della cultura. E’ così che cattivi genitori, aiutati dai pessimi esempi pubblici, non sanno più trasmettere ai propri figli il gusto della propria storia, della conoscenza scientifica, della bellezza dell’arte e della letteratura, il rispetto per chi lavora per loro nella scuola.

Ma tutto questo non si supera invocando l’autorità, l’ordine, il potere.Occorre un’autorità moralmente credibile. Un ordine fondato sulla giustizia. Un potere controllato e responsabile.E’ vero che dall’assenza di regole a guadagnarci sono i forti e i furbi, mentre a perderci sono i deboli e gli onesti. Ma l’esistenza di regole che proteggano efficacemente i deboli e gli onesti si chiama diritto, si chiama giustizia. Dove regnano diritto e giustizia, dove è diffusa l’obbedienza a leggi costituzionalmente legittime, coloro che esercitano funzioni pubbliche (le “autorità”) sono rispettati e la legittima repressione contro le violazioni dell’ordine democratico non suscita rivolte condivise.L’obiettivo da perseguire è la ricerca costante dell’attuazione dei valori di dignità, libertà, eguaglianza e solidarietà.Non quello dell’affermazione di un ordine purchessia. E di un’autorità fine a se stessa. Non è l'autorità che fa libera una democrazia. E' la libertà che deriva dall'eguaglianza praticata. Libertà che è partecipazione alla cosa pubblica. Non già come obbedienti sudditi, ma come cittadini consapevoli.Distinti saluti.Anna Pacifica Colasacco(cittadina dell'assemblea di piazza Duomo all'Aquila)



Eremo Via vado di sole , L'Aquila, venerdì 29 ottobre 2010

HISTORICA : Il montepulciano della Valle Peligna (II)


HISTORICA : Il montepulciano della Valle Peligna ( II )

Nel Settecento la vitivinicoltura attraversa un periodo di floridezza e progresso tecnico come dimostra l’istituzione di numerose scuole agrarie e la pubblicazione di vari trattati che suggeriscono nuove pratiche enologiche atte a migliorare il prodotto per renderlo più competitivo nei confronti della concorrenza francese che già allora si presentava massiccia. Il vino abruzzese in questo periodo viene esportato prevalentemente a Venezia e in Jugoslavia.

Anche la zona della Valle Peligna conosce un periodo di grande rigoglio, come ci testimonia una interessante pagina dello storico napoletano Michele Torcia, in cui viene descritta l’arboricoltura locale: “per concepire il carpoforo carattere della superba Vallata Pelina, basta notare le sole seguenti specie di pere e mele: cioè pere-butiro, cosce-di-monache o cannelle, in Francia dette cuisses-de-dames; verde-lungo, spadoni, angeliche, spino-carpio, butirro, bergamotto, carmisino, buon-cristiano, e quelle dette 33 once, a Napoli pera-a-rotolo, dagli antichi, decumane e trilibri.

Le mele poi sono poi genovesi con quei supposti gelati, apie di ogni qualità e limoncelle. Le Uve muscatella, muscatellone, zibibbo, non grosso come l’arabo Zebib di Calabria e Sicilia di cui fansi i passi psythii, ma piccolo; lacrima, Monte-pulciano, cornetta, pane (bumasta), del Vasto senza granelli, e la malvasia (…). La stessa varietà ammirasi ne’ fichi, prune, cerasi o ciliegie, frambose, fragole, arbuti, ammendole particolarmente ne’ tenimenti di Vittorito ed Introdacqua. Tutti i luoghi aprichi producono anche ottimi vini, ed imbottati nelle gelide cantine di Scanno acquistano un gusto superiore; Marziale infatti sembra preferirgli ai vini marsi” (Viaggio nel paese dei peligni, 1792, pp. 66-67).

Quando nel giugno 1796 il Re delle Due Sicilie, Ferdinando IV, venne a Sulmona per ispezionare le forze armate napoletane in previsione di un loro impiego contro le truppe francesi, fu ospitato nell’Oratorio dei Filippini, dove venne imbandito un pranzo accompagnato dai migliori vini peligni. In tale occasione, Francescantonio e Luigi De Sanctis, due fratelli, avvocati entrambi in Sulmona, pubblicarono l’opera: Notizie storiche e topografiche di Solmona con l’evidente intento di accattivarsi la benevolenza del sovrano. Anche questo testo ci fornisce una serie di interessanti notizie sull’agricoltura peligna. Questa pianura viene dappertutto irrigata da fonti, fiumi, e ruscelli, che nei più fervidi calori dell’estiva stagione la rendono verdeggiante e fertilissima. Lande produce il suo territorio tutt’i generi necessari all’umano sostentamento, ed allo scambievole commercio; menocché le arance, ed olive, le quali vi si rinvengono in piccola quantità. Produce dei vini preziosi, ed in grande abbondanza; e quindi ne provvede tutt’i Popoli, che abitano sui monti con vicini” (“Documenti abruzzesi”; Libreria Antiquaria Tonini, Ravenna 1975).

L’importanza che nell’agricoltura della Valle Peligna veniva data alla coltivazione della vite anche nell’Ottocento ci è attestata dal viaggiatore e scrittore inglese Edward Lear che fece tre viaggi in Abruzzo negli anni 1843 e 1844. Egli, in occasione della sua prima visita a Sulmona, annotò: “Quasi tutto il suo territorio è coltivato a vigne, grano, olivi e frutteti, grazie ai quali, specie per i meloni, il distretto è famoso”. Lear, inoltre, passando per Anversa degli Abruzzi, all’estrema propaggine del comprensorio pelino, ci testimonia di un’usanza assai interessante: qui, infatti, ebbe modo di gustare un eccellente vino da pasto servito con la neve, abitudine che non tutti all’epoca condividevano e di cui già aveva parlato il poeta latino Marziale a proposito dei vini peligni.

Infine, lo scrittore e storico tedesco Ferdinando Gregorovius (1821-1891) durante i suoi numerosi pellegrinaggi per la penisola italiana, fece un viaggio in Abruzzo nella Pentecoste del 1871.

Nelle sue memorie di viaggio ci ha lasciato bellissime descrizioni della vallata peligna e interessanti informazioni sulle varietà di uve locali, addirittura ritenute dallo scrittore all’altezza di quelle di Borgogna.

L’avvenimento che sconvolse l’assetto dell’economia rurale della Valle Peligna, tradizionalmente terra ricca e prospera, è stata la comparsa della fillossera, nel 1928. Si tratta di una malattia provocata da un insetto emittero della famiglia degli Afidi, originario dell’America Settentrionale. Sui vitigni della sua area di origine non provocava seri danni, mentre, una volta giunto in Europa – pare casualmente insieme alle balle di cotone commercializzate all’inizio dell’Ottocento – modificò il suo ciclo vitale attaccando esclusivamente le radici della vite provocandone la morte. Comparve per la prima volta nel 1879 nei dintorni di Como e ben presto si diffuse in tutta Italia, determinando una grave crisi della viticoltura.

Gli anziani di Vittorito oggi raccontano che nel ’28 la fillossera colpì inesorabilmente le viti proprio alla vigilia della vendemmia, dopo un anno di duro lavoro. Mole famiglie furono gettate nel lastrico e là dove erano vigne fu coltivato grano, molto meno remunerativo. Il problema venne risolto più tardi con l’introduzione delle barbatelle formate da un portinnesto americano, resistente agli attacchi della fillossera, con innesto di vitigni autoctoni. Il problema fu dunque superato, ma la qualità dei vini ne risentì drasticamente. Chissà che profumi, che aromi doveva avere il vino della Valle Peligna prima della fillossera! Le viti di un tempo oggi non esistono più perché potrebbero sopravvivere senza portinnesto. Un patrimonio ampelografico di inestimabile valore, andato irrimediabilmente perduto.

La visita di Gregorovius nella Valle peligna viene ricordata dal nostro Ignazio Silone (1900-1978) che, in una bella pagina paragona il carattere della popolazione peligna a quello dei romagnoli, ed elogia l’eccellente qualità dei vini locali:

“Lo sbocco di quattro valli: quelle dell’Aterno, di Forca Caruso, del Gizio, del Sagittario, e la apertura verso il mare, fanno della Piana dei peligni il cuore d’Abruzzo. Un cuore generoso perché di qui partirono i primi impulsi di rinnovamento sociale, quando altri luoghi della Regione si attardavano ancor in condizioni semi feudali. L’abbondanza insolita delle acque (Peligni acquosi, scrisse Ovidio) ha favorito tanto la fondazione di stabilimenti industriali a Bussi, quanto l’alta qualità della produzione agricola. (Vi sono nella zona persino vigneti irrigui). Ma il coefficiente decisivo è stato senz’altro il carattere degli abitanti che, per certi aspetti, a me ricordano i romagnoli.

Impossibile, trovandosi a Pratola, non parlare del vino. Quando Gregorovius venne da queste parti, pagò un soldo un litro di ottima qualità. Adesso costa di più, ma la qualità è sempre eccellente. E’ un vino schietto, limpido, secco, con un bouquet che varia da paese a paese, anzi da una cantina all’altra, secondo la diversa proporzione di uva bianca e nera che, al momento della pigiatura, viene lasciata quasi sempre al caso, e secondo la temperatura dei locali e la qualità dei tini. E un vino che non ama viaggiare perché decade nel trasporto in altra altitudine, ma esso, da solo, ben giustifica un viaggio” (Abruzzo - La Terra e la Gente, Milano 1963, p.67).

“…esso, da solo, ben giustifica un viaggio”: è con questa parole di Silone che ci piace concludere questo panorama di testimonianze per forza di cose incompleto, ma che ci dà senz’altro un’idea dell’importanza che la viticoltura ha avuto nell’ambito dell’agricoltura peligna di tutti i tempi. In ogni epoca, infatti, questa coltura ha rappresentato una vera e propria risorsa economica della zona ed è stata sempre accompagnata dalla convinzione popolare che essa potesse rappresentare un mezzo di elevazione sociale. Un orgoglio vivo negli agricoltori più anziani, ma che diventa oggi, purtroppo, sempre più raro…

Ringrazio gli autori dei i contributi su questo argomento nei vari siti dedicatai alla Valle Peligna e alle aziende enologiche della zona da cui ho assunto le informazioni e brani .


Eremo Via vado di sole , L'Aquila, venerdì 29 ottobre 2010



HISTORICA : Il montepulciano della Valle Peligna


HISTORICA : Il montepulciano della Valle Peligna (I)


E' nota la leggenda secondo la quale Annibale guarì i suoi cavalli dalla scabbia dopo averli lavati con abbondante Montepulciano d'Abruzzo.

La viticoltura della civiltà romana ha conosciuto un vero progresso tecnico nel periodo che va dalle origini di Roma alla seconda metà del I secolo d.C. Preziose testimonianze ci sono fornite da Marco Porcio Catone (234-149 a.C.) uomo politico romano, che nel suo trattato De Agricoltura illustra le pratiche colturali dell’epoca che ancora oggi sono a fondamento di una produzione viticola che privilegia la qualità piuttosto che la quantità. Egli insisteva sulla necessità di valutare le condizioni climatiche e la natura del terreno prima di scegliere un vitigno da impiantare; privilegiava, inoltre, la tecnica dell’innesto piuttosto che la riproduzione delle viti per seme e raccomandava la concimazione dei terreni col letame e con la pratica del sovescio, oggi tornata in auge con la diffusione dell’agricoltura biologica.

Per quanto riguarda i sistemi di allevamento della vite, nella Valle Peligna, per un periodo piuttosto lungo, si è praticato sia l’allevamento ad alberello sia il sistema della vite maritata agli alberi, introdotto dagli Etruschi e particolarmente diffuso nell’Italia centrale e settentrionale.

Per ciò che concerne, invece, la tecnica enologica, sappiamo che gli antichi romani avevano locali per la pigiatura, che avveniva con i piedi come nelle nostre zone fino a qualche anno fa, ambienti per la fermentazione e la conservazione del vino, oltre che una serie di attrezzature. Tra queste vi era un torchio, decritto da Plinio il Vecchio nel I secolo d.C., del tutto simile a quello usato ancora oggi nelle piccole aziende, dove si produce vino per il solo fabbisogno familiare. Anche i contenitori avevano foggia diversa a seconda dell’uso. Nelle campagne dell’attuale centro di Vittorito sono stati rinvenuti frammenti di dolii in terracotta, contenitori usati nel periodo romano per il trasporto o la conservazione del vino, olio e grano, e resti di numerose villae rusticae, tra le quali alcune di proprietà della nota famiglia corfiniese degli ACCAVI. Tali ville erano delle vere e proprie fattorie che, oltre al nucleo abitato, erano provviste di stalle e, per l’appunto, di vani per la lavorazione e la conservazione di vino e olio.

Dal 91 all’88 a.C. la Valle Peligna fu sconvolta dalla violenza inaudita della cosiddetta “Guerra sociale” che le popolazioni italiche condussero contro Roma per ottenere la cittadinanza romana, eleggendo a loro capitale Corfinio, antica città peligna, ribattezzata Italia. A dispetto di questi tristi avvenimenti, l’economia della regione in tale periodo è piuttosto fiorente: vengono introdotte nuove tecniche colturali e si moltiplicano gli scambi economici e culturali.

Il poeta latino Publio Ovidio Nasone, nato nel 43 a.C. a Sulmona, cuore della Valle Peligna, esiliato da Augusto a Tomi nel Ponto sul Mar Nero, rievoca con questi versi pieni di malinconia la sua terra natale: “Pars me Sulmo tenet Peligni tertia ruris/Parva, sed inriguis ora salubris aquis…/Terra ferax Cereris multoque feracior uvis/Dat quoque baciferam Pallada rarus ager…” [Sulmona, la terza parte (del dipartimento) della campagna Peligna mi cresce/Piccola (terra) ma salubre per le acque irrigue/Terra fertile cara a Cerere e molto più fertile per le uve/Un raro territorio che dà anche l’ulivo Minervino…] (Amori, Libro II).

Qualche anno più tardi un altro poeta latino, Marco Valerio Marziale, ci propone un interessante accostamento dei vini peligni a quelli toscani: “Questa non è come l’uva che pongono sotto i torchi in terra Peligna, né è quella che nasce sui gioghi di Etruria” (Epigramma 65, Libro V), distinguendoli da quelli, a quanto pare di poco pregio, della Marsica: “I coloni peligni mandano i torbidi vini della Marsica; tu non li bere, ma lascia sorbirli al tuo liberto” (Epigramma 121, Libro XIII). Curiosa è pure l’abitudine del tempo, che ci viene riferita dal poeta, di bere i vini peligni accompagnati dalla neve che in tal modo acquistavano un sapore molto particolare (Epigramma 116, Libro XIV).

Dei vini della Valle Peligna si interessò un altro grande scrittore dell’antichità: Plinio Secondo il Vecchio, vissuto tra il 23 e il 79 d.C. Nella sua Naturalis Historia si sofferma a lungo a descrivere le pratiche agricole e i vini prodotti dai contadini nella fertile conca di Sulmona: “Tutto ciò che essi sono soliti seminare richiede al massimo l’irrigazione. Al contrario, ciò che nasce nei luoghi aridi non richiede acqua, se non strettamente necessaria. Nell’agro Sulmonese, sul pago Fabiano, le uve troppo agre vogliono essere irrigate: E (meraviglia!) quell’acqua, mentre distrugge le erbacce, fa crescere le biade: in luogo di solchi fanno canali. Nello stesso agro, affinché il freddo invernale non faccia seccare le viti, specie se ci sono la neve e il gelo, fanno accorrere l’acqua nei canali e dicono che così le riscalda; il che avviene per la straordinaria qualità delle acque di quel solo fiume, che, al contrario, d’estate, sono così fredde che a mala pena possono essere sopportate”. Plinio ci ha tramandato anche interessanti informazioni sul modo in cui gli antichi Romani bevevano, alludendo alla pratica di mescolare al vino acqua di mare e vino cotto.

Nella Valle Peligna, in età romana, venivano coltivate la selvatica “Vinifera Silvestris” e le cosiddette uve “Apiane” di probabile origine siciliana. Queste ultime avevano sapore dolcissimo e possono essere considerate a buon diritto le antenate degli odierni Moscati.

In questo periodo era ignoto il processo chimico della fermentazione, scoperto solo nel XIX secolo grazie agli studi di Louis Pasteur. Tuttavia erano in uso validissime tecniche enologiche: il mosto, dopo la pigiatura, veniva sottoposto a una prima filtrazione, seppure alquanto grossolana, dopo di che veniva posto a fermentare in contenitori di legno o di terracotta in un ambiente arieggiato e fresco. Il vino così prodotto non veniva consumato se non dopo un travaso primaverile.


Eremo Via vado di sole ,L'Aquila, venerdì 29 ottobre 2010



COTTO E CRUDO . Valle Peligna : quando il paesaggio diventa vino Montepulciano


COTTO E CRUDO . Valle Peligna: quando il paesaggio diventa vino Montepulciano


“Bacchus amat colles”, dicevano i Romani. E certamente Bacco dovette avere una particolare predilezione per i colli della Valle Peligna se da secoli questi luoghi offrono generosamente gustose uve, base di vini unici e prestigiosi.

Scrive infatti Massimo Di Cintio su Abruzzo e Appennino :”E’ ormai noto agli esperti come la Valle Peligna offra un profilo pedologico (composizione del terreno) e climatico molto particolare per la produzione di vino. E’ qui che nel 1792 lo storico napoletano Michele Torcia per la prima volta scrisse di un vino chiamato Montepulciano, ma d’altronde Ovidio aveva già descritto della sua terra come “terra ferax Cereris, multoque feracior uvae”, ossia fertile di grano edancor più fertile di uve. Numerosi studiosi (tra i quali il professor Franco Cercone e il dottor Giuseppe Cavaliere dell’Arssa) si sono adoperati per recuperare ipotesi sulla vera origine di questo vitigno e di come sia nato o portato in Abruzzo, diventando nel tempo sempre più oggetto di attenzione oltre che il protagonista dell’importante sviluppo che ha avuto l’agricoltura regionale. E’ plausibile che a questo vitigno fu dato il generico nome di Montepulciano – dall’omonimo paese toscano, anche se in Toscana non esisteva alcun vitigno così chiamato – se si accetta la ricostruzione storica che sia arrivato con la famiglia dei Medici che istituirono la Baronia di Carapelle e il Marchesato di Capestrano tra il 1579 e il 1743. A metà del ‘700 anni si ebbe un enorme sviluppo della coltura della vite nella valle Peligna e nell’alta val Pescara (in particolar modo nei territori di Pietranico e di Torre de’ Passeri), documentata come merito di alcune importanti famiglie della zona, come i Mazzara e i Tabassi, e dalle numerose testimonianze di commercializzazione che veniva inviata fuori regione attraverso la ferrovia. Tanto sviluppata che fino alla seconda guerra mondiale si contavano oltre 4 mila ettari di vigneto, poi drasticamente diminuiti a causa del fenomenodell’emigrazione.

Oggi in valle si coltivano circa 400 dei 500 ettari coltivati in provincia dell’Aquila, per una quantità che si aggira intorno a 10 mila ettolitri di vino doc, il 90% dei quali Montepulciano d’Abruzzo per circa 2 milioni di bottiglie prodotte annualmente, il 2% dell’intera produzione regionale, in mano a pochi ma storici produttori che hanno mantenuto alta la bandiera peligna, continuando a produrre qualità che il mercato non hai smesso di riconoscere, soprattutto se guardiamo al Montepulciano d’Abruzzo e al Cerasuolo, ricchi e profumati e soprattutto eleganti con bone potenzialità di invecchiamento. E allora non è un caso che negli ultimi anni il territorio aquilano, maggiormente la zona più a nord, è al centro di una rinnovata attenzione sia dal punto di vista di nuovi investimenti da parte di alcuni produttori importanti finalmente convinti nelle potenzialità della zona: accanto ai nomi storici come Pietrantonj di Vittorito e Enzo Pasquale Praesidium di Prezza (senza dimenticare la Cooperativa Valpeligna) da un lato, e come Cataldi Madonna e Gentile dall’altro, ecco che si allungano Valle Reale, Masciarelli, Marramiero e Domenico Pasetti. Ed ecco che finalmente diventa realtà la creazione, com’è avvenuto nel teramano e nel pescarese, di due sottozone specifiche del Montepulciano d’Abruzzo che prenderanno il nome delle due Igt (indicazione geografica tipica) attualmente esistenti, a sud Valle Peligna e a nord Alto Tirino, sostituite dall’unica Igt provinciale “Terre Aquilane”.

Dal punto di vista tecnico gli impianti a tendone o pergola abruzzese non si sono mai sviluppati in Valle Peligna, per via del particolare microclima, legato all’altitudine e alle forti influenza delle vicine montagne. I vigneti sono stati da sempre allevati a controspalliera (filari), la potatura caratteristica della zona è a rinnovo annuale del capo a frutto che viene capovolto, la curva forma un archetto, tale forma è presente solo in questa zona dell’Abruzzo ed è fortemente caratteristica.


I vitigni attualmente coltivati sono la Passerina, la Cococciola, il Trebbiano Toscano, la Malvasia Toscana e di Candia, ma soprattutto il Trebbiano d’Abruzzo e il Montepulciano d’Abruzzo.

Orgoglio della Valle Peligna, vocata da secoli alla produzione di vini, sono le due DOC (Denominazione di Origine Controllata) Montepulciano d’Abruzzo e Trebbiano d’Abruzzo e l’IGT (Indicazione Geografica Tipica) Valle Peligna.

A proposito poi di Trebbiano c’è da dire che è molto diffuso in Abruzzo, di probabile origine etrusca, presenta una foglia medio-grande, pentalobata con pagina superiore glabra, di colore verde, opaca. Il suo grappolo è grande e allungato, semicompatto e alato.

L’acino è di grandezza media, discoide, di forma abbastanza regolare con buccia di media consistenza, di colore giallo verde o giallo rosato, a seconda dei cloni, più o meno pruinosa. Di vigoria notevole, è un vitigno dalla produttività molto abbondante e costante. L’uva matura nella prima e seconda decade del mese di ottobre.


La zona di produzione del Trebbiano d’Abruzzo DOC prevede territori collinari o di altopiano la cui altitudine non sia superiore ai 500 metri sul livello del mare ed eccezionalmente ai 600 metri per quelli esposti a mezzogiorno, nonché quelli degradanti verso il mare, con esclusione dei fondovalle umidi.

I vitigni ammessi sono il Trebbiano d’Abruzzo (Bombino bianco) e/o il Trebbiano Toscano (minimo per l’85%) e altri vitigni a bacca bianca non aromatici autorizzati e/o raccomandati. La resa massima di uva per ettaro non deve superare i 140 quintali e la gradazione alcolica minima deve essere dell’11%.

Le caratteristiche organolettiche del Trebbiano d’Abruzzo sono: colore giallo paglierino; odore gradevole, delicatamente profumato; sapore asciutto e vellutato. . (da Enografia Nazionale AIS)


Eremo Via Vado di sole , L’Aquila, lunedì 18 ottobre 2010



mercoledì 27 ottobre 2010

GRAMSCIANA : Servizi pubblici


GRAMSCIANA : Servizi pubblici

Servizi pubblici intellettuali: oltre la scuola nei vari gradi,quali altri servizi non possono essere lasciati all’iniziativa privata, ma in una società moderna devono essere assicurati dallo stato e dagli enti locali ( comuni e province)? Il teatro, le biblioteche, i musei di vario genere, le pinacoteche , i giardini zoologici, gli orti botanici , ecc. E’ da fare una lista di istituzioni che devono essere considerate di utilità per l’istruzione e la cultura pubblica e che tali sono infatti considerate in una serie di Stati, le quali non potrebbero essere accessibili al grande pubblico ( e si ritiene ,per ragioni nazionali,devono essere accessibili) senza un intervento statale. E’ da osservare che proprio questi servizi sono da noi trascurati quasi del tutto ; tipico esempio le biblioteche e i teatri. I teatri esistono in quanto sonoun affare commerciale ; non sono considerati servizio pubblico. Data la scarsezza del pubblico teatrale e la mediocrità delle città,in decadenza. In Italia invece abbondanti le opere pie e i lasciti di beneficenza : forse più che in ogni altro paese. E dovuti all’iniziativa privata. E’ vero che male amministrati e mal distribuiti. (Questi elementi sono da studiare come nessi nazionali tra governanti e governati, come fattori di egemonia. – Beneficenza elemento di “paternalismo”; servizi intellettuali elementi di egemonia, ossia di democrazia in senso moderno.

(da Note sparse . Problemi scolastici e organizzazione della cultura. In Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura Einaudi 1966 pag. 124)


GRAMSCIANA : La scienza e la cultura


Le correnti filosofiche idealistiche ( Croce e Gentile) hanno determinato un primo processo di isolamento degli scienziati ( scienze naturali e esatte) dal mondo della cultura. La filosofia e la scienza si sono staccate e gli scienziati hanno perduto molto del loro prestigio. Un altro processo di isolamento si è avuto per il nuovo prestigio dato al cattolicesimo e per il formarsi del centro neoscolastico. Così gli scienziati “laici” hanno contro la religione e la filosofia più diffuso: non può non avvenire il loro imbozzolamento e una “denutrizione” dell’attività scientifica che non può svilupparsi isolata dal mondo della cultura generale. D’altronde : poiché l’attività scientifica è in Italiastrettamente legata al bilancio dello Stato , che non è lauto, all’atrofizzarsi di uno sviluppo del “pensiero “ scientifico , della teoria, non può per compenso aversi uno sviluppo della “tecnica” strumentale e sperimentale , che domanda larghezza di mezzi e di dotazioni. Questo disgregarsi dell’unità scientifica, del pensiero generale, è sentita: si è cercato di rimediare elaborando anche in questo campo , un “ nazionalismo” scientifico, cioè sostenendo la tesi della “nazionalità” della scienza. Ma è evidente che si tratta di costruzioni esteriori estrinseche, buone per i congressi e le celebrazioni oratorie , ma senza efficacia pratica. E tuttavia gli scienziati italiani sono valorosi e fanno, con pochi mezzi sacrifici inauditi e ottengono risultati mirabili. Il pericolo più grande sembra essere rappresentato dal gruppo neoscolastico , che minaccia di assorbire molta attività scientifica sterilizzandola,per reazione all’idealismo gentiliano. (E’ da vedere l’attività organizzatrice del Consiglio Nazionale delle Ricerche e l’efficacia che ha vuto per sviluppare l’attività scientifica e tecnologica, e quella delle sezioni scientifiche dell’Accademia d’Italia. )

(Da Note sparse. Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani . In Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura. Eimaudi 1966 pag. 46)


 Eremo Via vado di sole, L'Aquila, mercoledì 27 ottobre 2010



EDITORIALI : Nord, Sud e il rebus del terzo polo

Nord ,Sud e il rebus del terzo polo

di Luca Ricolfi La Stampa venerdì 1 ottobre 2010

Incassata la fiducia anche al Senato, il governo Berlusconi ci riprova. Se i finiani lo lasceranno lavorare, tenterà di governare fino al 2013. Altrimenti si andrà al voto molto presto, presumibilmente già la primavera prossima.

Ma come siamo arrivati a questo punto? Come è stato possibile che la più larga maggioranza conferita dagli italiani a un governo si sciogliesse come neve al sole? Apparentemente è successo per ragioni personali, per la rivalità fra i due cofondatori del Pdl, Berlusconi e Fini. Il primo incapace di sopportare il dissenso politico interno, il secondo preda di ripensamenti politico-morali sull’uomo Berlusconi, dipinto come leader autoritario, manovratore dei media, ostinato nel sottrarsi ai processi, irrispettoso della magistratura e delle istituzioni.

Quella delle rivalità personali, però, è una spiegazione molto parziale. Può darsi che Berlusconi e Fini non si siano mai stati simpatici. Ed è probabile che a far precipitare la situazione sia stata anche la percezione, da parte di Fini, che non sarebbe stato lui il successore di Berlusconi alla guida del centro-destra. E tuttavia, se ripercorriamo la storia di questi anni, è evidente che la rottura di oggi ha anche, se non soprattutto, genuine radici politiche.

Fra Berlusconi e Fini (ma si potrebbe allargare il discorso: fra il duo Berlusconi-Bossi e il duo Fini-Casini) c’è sempre stata una differenza nel modo di fare politica, di comunicare con gli elettori, di stare nelle istituzioni: populisti, scanzonati e irridenti Berlusconi e Bossi, tradizionali, ingessati e seriosi Fini e Casini. Con tutto quel che ne segue quanto al senso delle regole, al rispetto delle forme, ai rapporti con gli altri poteri, a partire da quelli del Presidente della Repubblica, del Parlamento, della Magistratura. Queste diversità, di stile ma anche di sostanza, sono sempre esistite, e non hanno mancato di creare tensioni, nonché alleanze inedite, anche in passato. Ricordate il sub-governo Fini-Casini-Follini alla fine della legislatura 2001-2006, quando Tremonti venne costretto alle dimissioni? E l’ipotesi (poi tramontata) di alleanza elettorale Casini-Fini alla fine del 2007, dopo essere stati messi davanti al fatto compiuto del nuovo partito di Berlusconi, con il famoso «discorso del predellino»? Per non dire delle più antiche tentazioni centriste e moderate di Fini, come la fallita alleanza con Mario Segni ai tempi dell’Elefantino (Europee del 1999).

Perché in passato queste differenze sono sempre state superate e ricomposte, mentre oggi tendono a esplodere, fino a delineare la nascita di un Terzo polo centrista? La ragione principale, a mio modo di vedere, è che ai vecchi motivi di attrito, legati essenzialmente a differenti concezioni della politica e delle istituzioni, se ne è aggiunto ora uno molto più concreto e tangibile: il federalismo. O meglio, il rischio che dalla fase delle enunciazioni di principio e dei discorsi alati su solidarietà e responsabilità, si passi alla bassa cucina dei decreti delegati, con tagli e sacrifici per tutti, tanto più grandi quanto più in passato si è speso, sprecato ed evaso. Un rischio che la crisi economica internazionale ha reso più acuto, e che potrebbe pesare soprattutto sul Sud, non già come risultato di una volontà politica anti-meridionale, ma come conseguenza aritmetico-contabile del fatto che lì, nelle regioni del Mezzogiorno, e segnatamente in quelle di mafia, si concentrano la maggior parte delle storture della Pubblica amministrazione. E poiché è nel Sud che i partiti del Terzo polo raccolgono la maggior parte dei loro voti, ecco che le frizioni fra il duo

Berlusconi-Bossi, prevalentemente insediato al Nord, e il duo Fini-Casini, prevalentemente insediato al Sud, trovano una seconda, ben più corposa, sorgente di alimentazione: accanto alle antiche diversità nel modo di stare nelle istituzioni, le nuove diversità legate agli interessi e ai territori rappresentati. In questo senso il Terzo polo potrebbe diventare il collettore di due diversi segmenti elettorali: i moderati, à la Indro Montanelli, culturalmente di destra ma insofferenti del radicalismo anti-istituzionale di Berlusconi; e i nemici del federalismo, che molto si preoccupano della coesione nazionale ma ancor più temono la chiusura dei rubinetti della spesa pubblica nel Sud.


Se è innanzitutto la diffidenza per il federalismo ciò che ha fatto precipitare le cose, allora lo scenario che ci attende alle prossime elezioni è davvero del tutto inedito. Siamo abituati a pensare che lo scontro sia fra destra e sinistra, con il centro in mezzo. Ma se la posta in gioco cruciale sarà il federalismo, allora i due estremi dello spettro politico non potranno che essere la destra di Bossi e Berlusconi, insediata al Nord e custode del progetto federale, e il Terzo Polo di Fini-Casini (ma anche di Lombardo, e forse di Rutelli), insediato al Sud e nemico giurato della Lega. E la sinistra, insediata nelle regioni rosse dell’Italia centrale? Divisa com’è fra fautori e detrattori del federalismo, non potrà che stare in mezzo, fra il federalismo della destra nordista e l’antifederalismo dei centristi del Terzo polo.



Insomma un bel rebus. Perché nessuno dei tre poli avrebbe la maggioranza dei consensi (Pdl-Lega: 40%; Sinistra: 40%; Terzo polo: 20%). Perché chi conquista il premio di maggioranza alla Camera potrebbe benissimo non avere la maggioranza dei seggi anche al Senato. E, infine, nessuna delle tre super alleanze possibili fra i tre nuovi poli darebbe la benché minima garanzia di saper governare l’Italia. 

(Nell'immagine Luca Ricolfi )



Eremo Via vado di sole , L'Aquila mercoledì 27 ottobre 2010

CANZONIERE : Lamento del carbonaio

CANZONIERE : Lamento del carbonaro

Vita tremenda e vita disperata,

chi ‘un l’ha provato ‘un po’ ‘mmaginare,

credo all’inferno un’anima dannata

che così tanto possi tribolare

quant’è lo spasimo e ‘l dolore

quella del carbonaro, il tagliatore.

Parti da casa ha poco lieto il core,

si riunisce assoma a diversi compagni,

lascia la moglie immersa in un dolore

e i figli scalzi e ignudi come ragni,

dicendogli: Se giova el mio sudore

ho la speranza farli bon guadagni,

soccorso vi darò come vedrete,

vi comprerò le scarpe e mangerete.

Le speranzi son boni, capirete

Perché ‘l padron ci fa bon promessione,

si va in Corsica, in Sardegna, fino a Riete ,

si va a seconda le combinazione ;

credessimo trovare maggior fortuna

s’andrebbe nel mondo della luna.

In secca in una foresta e alta e dura

Gli par d’aver trovato un gran tesoro ,

è lì che tutti assieme ci si adduna

possibilmente nel centro del lavoro;

è lì di una parte alcuna

forman la cella per il suo demoro,

la fabbrica non legna ,terra, zolle e sassi;

pare proprio ricovero dei tassi.

Otto mesi bisogna coricarsi

Nutrendosi di un cibo più meschino,

pure di cacio ‘un se doventa grassi,

per risparmiar se ne mangia pochino;

otto mesi si dorme sotto le oscure zolle

col capo in terra come le cipolle.

Vi posso dire, sopra quel terreno

ci siamo tanti assoma a lavorare,

ci volesse due lire e non di meno ,

uno e ottanta ce lo fan bastare.

Ci danno la farina a caro prezzo,

cinquanta lire ‘la fanno i’ quintale;

puzza di riscaldato e sa di lezzo,

sarebbe roba da darsi al maiale.

Bisogna tace e non c’è via di mezzo,

tanto se si reclama è sempre uguale ;

se da qualcun siamo ascoltati

si passa da ‘gnoranti e da sfacciati.

‘Un se lo rammentan più quegli esaltati

che si magiava il pane a pari uguale

ora che a mangià uil pan si son trovati

son quelli che si fan tanto male:

tra il capo macchia, ministri fattori e dispensieri

son quelli che ci mettono i pensieri.

Ora ch’a’ conti ci siamo arrivati,

là giò ‘l ministro li ha sistemati .

Ci consegnano biglietti sigillati,

par che d’aprigli a lor molto gli prema,

quando che li hanno letti, esaminati

quello che gli par troppo ce lo scema .

Tutt’ a utile suo la somma tira ,

lo schiude ‘l conto ‘l povero sospira.

Quello che gli risponde a piena ira:

“Mi scusi, signor padrone, ma qui ha sbagliato”

Più s’arrabbia, più s’infama e più d’adira

Dicendo : “ E’ troppo quello che ti ha dato ;

se stavi più accorto e lavoravi

di certo che di più tu guadagnavi.” Pensate un po’: essere stati otto mesi stiavi ,

sentite un po’ come taglian la giubba,

in centonovantanove, tutti ladri

fanno a gara tra loro a chi più rubba.

Ritorno a casa stracanato e scotto

senza quattrini e con la febbre addosso.

(A partire dalla metà del secolo scorso gruppi di montagnani toscani si aggregavano in compagnie di lavoro e si recavano ogni anno dovunque si potesse lavorare (Maremma, Sardegna, Corsica, Elba) vivendo mesi e mesi lontano da casa , in condizioni durissime. Questo lamento è stato registrato da Caterina Bueno a Tirli (Grosseto) nel 1965, informatore Domenico Bartolotti. La Bueno lo esegue in LP La veglia e nel LP Eran tre falciatori . Questa nota è tratta dalla copertina di quest’ultimo LP )

Eremo Via vado di sole, L’Aquila merdoledì 27 ottonre 2010



martedì 26 ottobre 2010

MIRABILIA URBIS . L'Aquila : la fontana delle 99 cannelle


MIRABILIA URBIS . L’Aquila : la fontana delle 99 cannelle


Il FAI ,Fondo Ambiente Italiano , nel suo programma di restauro di monumenti e di valorizzazione di ambienti ha proposto per l’anno 2010 due suggestivi paesaggi : Il bosco di S. Francesco in Umbria e la fontana delle 99 cannelle a L’Aquila. In quest’ultimo caso l’attenzione su questo monumento vuole essere proprio un auspicio e un augurio perché l’intero centro storico di L’Aquila possa tornare alla sua vita originaria con un’accorta opera di restauro e ridefinizione degli ambienti

Afferma infatti il Fai che il restauro serve a ricordare che il terremoto ha distrutto anche uno dei più importanti centri storico-artistici italiani e che è necessario lavorare anche su questo fronte. "Non siamo qui oggi per inaugurare solo il cantiere di restauro di un monumento -ha chiarito Marco Magnifico, vice presidente del Fai- bensi' di uno dei piu' importanti 'luoghi dell'anima' degli aquilani. La perdita degli affetti familiari produce un grande senso di spaesamento nelle persone, ma quando l'identita' culturale di ciascuna di esse e' corroborata dalle testimonianze storico-artistiche, ovvero i monumenti, allora tutti si sentono piu' forti.''.

Mi è sembrato utile allora condividere la pagina che qui trascrivo e che è stratta dal mio “Il chiostro e le mura” volume dedicato alla storia di L’Aquila pubblicato qualche anno fa con l’editrice Qualevita di Torre dei Nolfi vicino Sulmona.

Ecco che cosa scrivevo a proposito della fontana delle 99 cannelle e dell’acqua che sembra essere stata appunto uno dei principali elementi come la pietra, il legno di cui è composdta la nascente città.

“L’acqua, le fonti nella fantasia della gente della città è il mito della fondazione ,ricostruito dalla storiografia cittadina in testi cinquecenteschi di Pandolfo Collenuccio e Giuseppe Caccio che maturano le esperienze dei cronisti tre-quattrocennteschi. “

Nel ‘Compendio’, che è degli anni 1527-1539, Collenuccio dice che la città fu fondata dopo la distruzione di Amiterno e vi si cominciò a tenere il mercato “ per essere luogo commodo per fertilità dei pascoli e comodità dell’acque per le molte fonti “

Lo stesso toponimo Acculè, ad Aquas , indica dov’è l’origine della città: presso l’odierna Rivera, vicino al fiume. Le acque della Rivera, del fiume Aterno, serviranno alla città per i mulini , per la lavorazione della lana, per le conce.

Ed è grande festa ai tempi di Guelfo di Lucca per la costruzione dell’acquedotto : tutti vanno a lavorare a Valle Pretara, Colle Pretara, Santa Barbara per la realizzazione di un’imponente opera.

Ed è Buccio di Ranallo che ci fa sentire questo elemento della città con la sua descrizione palpante, carica e allo stesso tempo scorrevole e godibile:

Tanta era la gente che in quillo loco stavano

dell’omini e de femmine che roba ci portavano ,

de prete e calce e rena a quelli che cavavano

e delli manuali a quilli che muravano.

Non se potria contare per null’anima vivente,

non se vendia in L’Aquila nulla cosa niente;

tutta già ne li colli a vennere la gente;

stavano come l’oste che stesse ascisamente.

Loco erano panicocole e multi tavernari,

pizzicarole assai, saturi e calzulari;

tromme ed altri soni co’ multi giullari,

de ciò che tu volivi se avivi denar.

Tanto d’adoperaro ch’ecco l’acqua menaro,

de cannoli de lino che da piedi li ferraro

e con le funti fatte de lino comenzaro

a modo de tinaccio e multi anni duraro.

L’acqua è accostata al nome di Guelfo da Lucca, Capitano di giustizia e Governatore “ dotore in legge e cavaliere “. “ In verità Guelfo voleva far bene alla città dell’Aquila e ne è prova che vedendo come non bastasse per tutta la popolazione l’acqua della Rivera, e che era lontana e troppo al basso , pensò di recare questo beneficio agli aquilani. Si diede allora a visitare i dintorni e trovò molta buona acqua nelle terre di Santanza ad un miglio a settentrione dell’Aquila. Allora convocò il Consiglio e fu deliberata la conduttura di quelle acque. Ad ingegnere per dirigere i lavori fu scelto frate Giovanni dell’ordine di S. Francesco” [….] “ I lavoratori che eseguirono l’opera erano a migliaia , e sotto tende abitavano con le loro famiglie nel luogo stesso del lavoro e lo stesso Guelfo volle là la sua tende per sorvegliare il lavoro “

L’acqua fu dunque una delle prime realtà della città nascente. Fu distribuita in tutte le piazze dove i cittadini andavano ad attingerla a quelle fontane che dapprima furono tini di legno e più tardi , verso il 1360, vasche di pietra.

Le reformazioni del 1504 definiscono l’acqua “ il primo gioiello della città”

Una città di fonti e di acqua dunque che diventa oggetto di culto e simbolo rituale di rinnovamento

[ Come dunque sta per accadere secondo il progetto di restauro da parte del Fai della Fontana delle 99 cannelle ]

Già la fontana . Quella fontana rappresentò e rappresenta il rinnovamento della città su un patto di solidarietà .. Ideata e costruita da Tancredi da Pentima nel 1272 per ricordare l’unione dei 99 castelli con il tipico rivestimento bianco e rosso, i colori araldici della città, compendia nel suo immaginario fisionomico , uomo , natura e società.

Il rapporto tra l’immagine e il simbolico materializzato dalla trasparenza e leggerezza dell’acqua , elemento essenziale che immerge nel suo slavato del suo scorrere l’espressione di una rappresentazione del mondo , si esprime qui in una inversione parodistica che fa l’uomo animale e l’animale uomo . Non solo. Che fa il demonio santo e il santo demonio in una convulsione di categorie appunto umane, animalesche, totemiche , diaboliche, magiche, allegoriche.

Simulazione e dissimulazione nelle sembianze di pietra avverano la metafora all’interno della vita , fuori della morte e mettono in discussione i confini tra reale, immaginario e simbolico.

Tutto come ricorso e rincorsa verso l’identità del giuoco di raccontare e raccontarsi, di proiettarsi fuori , nell’universale senza parole, attribuendo al mascherone valori individuali e sociali.

Ma anche valore apotropaico come al mascherone di Via Roma (attuale) ,mascherone in pietra che mostra la lingua che sta ad indicare il pene ,organo capace di scongiurare il “ negativo esistenziale”

Ma i mascheroni delle 99 cannelle stanno lì anche a guardia dell’acqua perché “ è maledetto dagli dei , come dice Esoso, colui che insudicia una fonte.”

A guardia della purezza dell’acqua , della purezza di un elemento che sgorga da una cannella chiaro riferimento ad un fallo stilizzato , chiaro riferimento alla vitalità di un elemento prezioso, essenziale alla vita.

E poi anche un po’ di mistero. Nel contesto della Fontana delle 99 cannelle l’acqua diventa anche un simbolo di mistero per quella sua provenienza segreta che ne costruisce un altro fascino “


Eremo Via vado di sole , L’Aquila ,martedì 26 ottobre 2010