lunedì 22 febbraio 2010

GRAFFITI 5 : NUMERI

GRAFFITI 5 : NUMERI



A dieci mesi dal terremoto del 6 aprile 2009 L’Aquila è una città fantasma come definita dal Censis lo scorso dicembre ; la situazione rimane grave: un centro storico distrutto ,l’economia paralizzata ,migliaia di persone senza casa , migliaia di persone fuori la città.
La domenica mattina si vedono ancora solo le auto dei vigili del fuoco. A dieci mesi, dunque il segnale di abbandono è proprio l’aspetto spettrale della domenica mattina. Non sono le domeniche di Piazza Duomo e delle passeggiate per il corso o del pigro arrivare all’ora di pranzo e tornare a casa con la guantiera della pasta all’uovo o delle paste dolci.
Il centro storico è ancora presidiato dalle camionette dell’esercito ed è stato riaperto solo un piccolo tratto della zona rossa (centro storico) dalla Villa Comunale a Piazza Duomo e da Piazza Duomo ai Quattro Cantoni. Tre milioni di metri cubi ,pari a 4,5 milioni di tonnellate di macerie restano dove sono cadute la mattina del 6 aprile. E ‘ attivo un solo sito per lo smaltimento quello dell’ex cava Teges a Paganica e quelli di Bazzano e di Barisciano che sono stati individuati forse saranno pronti in aprile maggio del 2010. Manca l’ordinanza sulla ricostruzione del centro storico. Quindicimila alloggi sono stati classificati E. sedicimila sono i disoccupati ,il provvedimento di zona franca tarda ad arrivare. Non ci sono certezze né sull’estensione né sulla consistenza delle risorse economiche per il rilancio delle piccole imprese. Mille attività commerciali del centro storico sono ancora inattive. Non è partita la localizzazione di un’area per impiantare un mercato che sostituisca quello che si teneva a Piazza Duomo e quei commercianti sono fuori gioco. Sedicimila persone sono senza lavoro ( ottomila in cassa integrazione e ottomila tra liberi professionisti ,autonomi , artigiani e parasubordinati che non hanno ripreso l’attività) .
Diciannove sono le aree del Progetto Case . Veri e propri quartieri non ancora del tutto urbanizzati ,non dotati di servizi di trasporti pubblici. E in particolare con un’azienda municipalizzata per la raccolta dei rifiuti già quasi sull’orlo del fallimento prima del terremoto che ha visto aumentare a dismisura i suoi impegni.
Il Piano Case : si tratta di alloggi la cui antisimicità è “stata testata davanti alle telecamere” e dove entro il 19 febbraio 2010 dovevano entrare 18 mila sfollati in 4500 alloggi. Su 183 edifici nel mese di febbraio 2010 quelli completati e consegnati sono 174 dove vivono circa 13 mila persone (in 4,235 alloggi ) Restano fuori, secondo il censimento a suo tempo realizzato nelle tendopoli 1300 single e 800 nuclei composti da due persone . Seimila persone sono ancora sulla costa o fuori regione. Ottomila gli universitari pendolari.

Secondo il Comune sono 5.889 i contributi concessi per le riparazioni ,ovvero la riscotruzione leggera : 2555 per le case cat. A , 3001 per le case cat. B,33 per la cat. C. Moltissimi di questi cantieri sono virtuali in quanto le ditte non hanno ancora avviato i lavori per i motivi più disparati compreso quello dell’inclemenza del tempo in questo inverno “terribile” Il mancato rientro delle persone nelle case B e C con il conseguente esborso in denaro 55 euro a persona per il mantenimento in albergo che penalizza le risorse da assegnare agli alloggi di cat. E per le quali sono state presentate solo 110 domande.
Le persone assistite sono ancora 35.562.Di queste 26562 percepiscono il contributo di autonoma sistemazione (200 euro a persona al mese che diventano 300 per i single ,con un bonus di ulteriori 200 per chi ha più di 65 anni e per chi è invalido). Per un totale di 11 milioni di esborso al mese da parte delle casse comunali. Per molti senza lavoro sta diventando una minima fonte di reddito per sopravvivere.
Inoltre nella Caserma della Scuola di Finanza sono alloggiate 890 persone e in quella di Campomizzi (Casermette) 247.

Eremo di Via Vado di Sole, L’Aquila, domenica 20 febbraio 2010

GRAFFITI 4 : ESPERIMENTO

GRAFFITI 4 : ESPERIMENTO



Le new towns costruite a L’Aquila in località Preturo, Bazzano, Paganica, Sassa e in altre sono state un esperimento urbanistico a dir poco “cervellotico”. Sulla spinta di un idea dei politici la Protezione Civile ha realizzato agglomerati di baracche di lusso chiamati Piano case. Case per ospitare , in comodato d’uso, parte della popolazione della città di L’Aquila colpita dal terremoto del 6 aprile.
E’ stato un esperimento. Come molti esperimenti purtroppo lascia il tempo che trova .
Chiamare quegli insediamenti “ esperimento” è un eufemismo ed è sicuramente un omaggio alla pretenziosa idea iniziale, quella che ha dato il via a tutto, di voler lasciare un segno di distinzione.
La distinzione può essere positiva e negativa. Solo che in questo caso, oltre che ad essere negativa ha l’odore , il sapore e il dolore dell’esperimento di una VIVISEZIONE.
Su L’Aquila e i suoi abitanti è stato fatto un esperimento di vivisezione che nel caso degli animali la legge finalmente persegue penalmente.
Perché l’etica dice che nella vivisezione si arreca un male e una sofferenza inutile se l’esperimento non ripaga in benefici all’infinito la sofferenza causata.
Senza pensare che gli organismi sottoposti a vivisezione non tornano indietro e gli animali che la scampano rappresentano un catalogo orribile di mutilazioni ,perdite di funzionalità e di funzioni quasi vitali a favore di uno stato vegetativo .
Un territorio , una città, sono dunque un organismo e anche a loro si può riferire la riflessione che abbiamo fatto.? Se si l’esperimento sortirà l’effetto di volgere molte cose allo stato vegetativo ? O no ?


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Eremo di Via Vado di Sole , L’Aquila venerdì 19 Febbraio 2010

GRAFFITI 3 : RES PUBBLICA

GRAFFITI 3 : RES PUBBLICA

Gli storici probabilmente hanno esagerato ad identificare con un segno riduttivo la politica nell’antica Roma imperiale quasi esclusivamente con il conflitto di fazioni in lotta per il predominio della res pubblica.
Dietro lo scontro di quelle che a volte sono state definite “ cricche contrapposte” c’erano sicuramente gli interessi e le motivazioni di più vaste forze sociali.
Un certo tipo di approccio negli studi storici ha poi messo in luce la radicale differenza tra quel tipo di lotta politica e quella che consuetamente poi si è verificata nella società moderna o almeno nella società europea del secolo scorso e in parte dell’attuale secolo.
Oggi però molti segni, a cominciare dagli Stati Uniti d’America e poi nelle democrazie occidentali ed infine nella nostra Italia fanno pensare ad un parallelo con la situazione di quelle lotte politiche nell’antica Roma imperiale tra gli anni 90 e 50 a.C.
Mancano a Roma dei partiti nel senso in cui siamo abituati a concepirli,ovvero gruppi che hanno un programma organico di gestione e di trasformazione della società. Partiti che cominciano a mancare anche nel nostro paese .
Quindi è possibile dire che ora come allora si sta verificando che l’uomo politico è in primo luogo il capo di una fazione, che fa uso di una vasta rete di relazioni familiari e personali allo scopo di ottenere cariche e di favorire i suoi adepti.?
Sul filo di queste considerazioni viene in mente qualche accostamento con i fatti relativi al terremoto di L’Aquila. E vengono in mente proprio le parole di un aquilano di quel tempo, Sallustio, che fa denunciare a Memmio ,la faziosa connivenza sulla quale si fonda il predominio dell’aristocrazia:
“...E chi sono costoro che la fanno da padroni nella Repubblica? Scellerati dalle mani lorde di sangue, di un’avidità insaziabile (…); li tiene compatti il bramare le stesse cose ,odiare, temere le stesse cose – il che tra galantuomini si chiama amicizia ,tra furfanti connivenza.” (“ …Sed haec inter bonos amicizia,inter malos factio est…” Sallustio Iug.31,12 sgg. Traduzione Storoni Mazzolari).

Eremo di Via Vado di Sole, L’Aquila venerdì 19 febbraio 20

GRAFFITI 2 : IRRISORIO

GRAFFITI 2 : IRRISORIO

Tra il 90 e l’81 a.C. Roma estende la cittadinanza ai socii.Si combatte la prima guerra mitridatica (vinta da Silla) e la guerra civile tra Mario e Silla (88).Si instaura la dittatura sillana (82 – 79) a.C.).
A peso d’oro sono pagati i pedagoghi di fama . Irrisorio è il mensile di un modesto istitutore. La retorica si insegna esclusivamente in greco.
Domanda: la storia si ripete o è sempre la stessa ?
In un paese , l’Italia, in cui l’analfabetismo era lo scorso secolo pari all’80 % della popolazione, i maestri elementari prendevano uno stipendio da fame. Ce lo dicono le pagine del libro Cuore di De Amicis che illustra la condizione degli insegnanti elementari anche se con qualche vena di romanticismo. Ce lo dicono le pagine del Maestro di Vigevano di Mastronardi che un secolo dopo Cuore racconta per i maestri la stessa vita, gli stessi problemi.
Oggi probabilmente con l’ 80% di analfabeti di ritorno ( alle soglie dell’università quanti studenti non comprendono, per esempio, i termini linguistici di un test di ammissione?) è ancora IRRISORIO il mensile degli insegnanti : lavoratori e lavoratrici in condizioni di stabile precarietà.
La retorica non si insegna più in greco ma nemmeno in italiano.E’ solo il politichese che insegna la retorica.


Eremo di Via Vado di Sole, L’Aquila, venerdì 19 febbraio 2010

STORIE E VOCI DAL SILENZIO 5 GIUSTIZIA MINORILE : Dalla rieducazione alla responsabilizzazione alla conciliazione o mediazione penale

GIUSTIZIA MINORILE :Dalla rieducazione alla responsabilizzazione alla conciliazione o mediazione penale.


A completamento dei post sulla giustizia ritengo utile ospitare due contributi relativi alla riforma della giustizia minorile in discussione ormai da qualche tempo secondo le linee indicate da proposte dell’attuale governo . Dai contributi che seguono si evincono le problematiche della giustizia minorile e i punti irrinunciabili in tema di riforma. Per ulteriori informazioni si possono leggere i contributi pubblicati nel sito del Centro Italiano Studi famiglia e dei Giuristi democratici oltre ai progetti e alle attività del sito del Dipartimento della giustizia minorile


da "Mauropalma’s Blog"
maggio 27, 2009

Caro Mauro Palma ancora una volta la Giustizia minorile è sotto attacco del Governo delle Destre. Passano i Ministri, ma non le tentazioni di distruggere uno dei sistemi più avanzati del sistema giudiziario italiano. Cosa pensa della giustizia minorile in Italia?

Innanzitutto voglio afferma senza equivoci che per me il sistema della Giustizia Minorile in Italia funziona. Lo dimostra anche uno studio longitudinale condotto sulla recidiva, realizzato dal Dipartimento per la giustizia minorile in collaborazione con l’Università, che dimostra come l’intervento della giustizia minorile all’interno dell’attuale quadro giuridico sia efficace e riduca in maniera significativa la recidiva. Lo dicono le nazioni europee e non, che dovendo istituire un autonomo sistema di giustizia minorile vengono in Italia a studiare il modello italiano.


Ma non dobbiamo nasconderci che la giustizia minorile ha funzionato e continua a funzionare, anche se ormai con grande difficoltà, per l’impegno degli operatori che vi lavorano, che con grossi sacrifici personali, spesso impegnando anche risorse economiche proprie, perseguono una missione, che è quella di costruire opportunità da offrire ai minorenni che entrano nel sistema penale, per dare loro la possibilità di uscire dallo stesso nelle condizioni migliori per riprendere il normale percorso di crescita educativa, per reinserirli nel sociale e per garantire, tema oggi molto di moda, la sicurezza dei cittadini e della società.
Bisogna, inoltre, essere chiari sulla missione della giustizia minorile che è si quella di punire gli autori dei reati, anche se minorenni, ma avendo come obiettivo fondamentale, punto di vista irrinunciabile, il recupero del minorenne; la necessità di non interrompere i processi educativi, per restituire alla società giovani consapevoli ed in grado di integrarsi.


Questo è tanto più necessario nelle condizioni attuali, per come si conduce tutti i giorni la vita dei ragazzi nelle metropoli ma ormai anche nelle piccole città, nei paesi. Giovani che vivono modelli culturali artificiosamente costruiti e che spesso risultano poco seguiti da familiari impegnati per lunga parte della giornata nelle professioni o a guadagnarsi duramente la vita in una fase economica sempre più difficile. Giovani che non trovano più sostegno e comprensione neanche nelle agenzie educative, nella scuola, a cui peraltro vengono ridotti i fondi, qualora la scuola ancora la frequentino. Per non parlare dei minorenni stranieri, spesso non accompagnati, emigrati per sfuggire a condizioni di estrema povertà o per salvarsi la vita, scappati da zone di guerra. Minorenni a cui non può essere data esclusivamente una risposta penale, minorenni che devono essere tolti ai gruppi criminali che sfruttano la clandestinità in cui spesso questi ragazzi si trovano per utilizzarli in traffici illeciti: traffico di droga; prostituzione e sembrerebbe anche traffico di organi umani.


Quali sono, quindi, i problemi più urgenti per la giustizia minorile?
Credo che adesso, nel quadro della riforma del Ministero della giustizia, la giustizia minorile stia attraversando una fase molto delicata, che potrebbe concludersi con la fine di un sistema avanzato di giustizia per i minori. Il contesto normativo è quello del regolamento e della riorganizzazione del Ministero della Giustizia, entro il quale il Ministro Alfano sta provando a realizzare l’obiettivo fallito dal suo ex ex predecessore, l’Ingegnere di Lecco: depotenziare il Dipartimento della Giustizia Minorile e le positive peculiarità del processo penale minorile, fino a giustificarne la cancellazione.
Un tentativo micidiale che, partendo dal presupposto generico che in Italia la giustizia non funziona, e sostenendo l’obiettivo di razionalizzarla, favorendo il decentramento degli apparati del ministero, comunque riduce le risorse economiche e di personale, peraltro già insufficienti.
La questione è che la riorganizzazione per il decentramento del Ministero della Giustizia sembra toccare profondamente solo la giustizia minorile, cioè l’unica struttura che nel Ministero aveva già dato piena attuazione al decentramento, attraverso i Centri per la Giustizia Minorile, che vengono soppressi nella sostanza e le cui competenze, sono trasferite alle direzioni generali regionali del Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria, e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. A tutti gli effetti la giustizia minorile viene cancellata.
Il Dipartimento per la giustizia minorile resta. Ma è evidente che è solo il primo passo nonostante ci siano convenzioni internazionali, normative europee che impegnano l’Italia a mantenere un autonomo sistema di giustizia minorile.


Nella sostanza il Dipartimento per la giustizia minorile è svuotato di ogni competenza, non gestisce il personale, non ha poteri sui beni e sui servizi, può solo proporre indirizzi sul trattamento. Al Dipartimento resta il nulla.
Ed il personale della giustizia Minorile?
Intanto bisogna dire che al di la del regolamento di riorganizzazione del Ministero della Giustizia, c’è un altro elemento che preoccupa tutti gli operatori e che allo stato impedisce il pieno adempimento dei mandati istituzionali della giustizia minorile: il taglio dei bilanci.
Nell’anno in corso il Governo ha falcidiato i principali capitolo di spesa della giustizia minorile, mediamente nell’ordine del 35%. Impedendo nei fatti l’applicazione delle misure previste dalla procedura penale minorile. Tutto questo non è possibile. È inutile gridare al Lupo dopo aver demolito i recinti. In Italia abbiamo avuto la fortuna di evitare, per ora, il malessere diffuso che si è registrato tra i giovani in altri paesi europei, in Inghilterra come in Francia, per non parlare della criminalità diffusa tra le bande giovanili americane.

I segnali che ci vengono dagli operatori della giustizia minorile non sono buoni, ci parlano di una crescita nei reati commessi da minorenni italiani con disturbi psichici o policonsumatori di sostanze stupefacenti. Ci parlano di un forte disagio tra i giovani, che si estende al di là dei ceti di appartenenza e dei livelli di benessere familiare. Il diffondersi dell’uso dei coltelli, non è un fatto estemporaneo, una moda dettata dalla visione di più o meno riuscite fiction cinematografiche. È il sintomo di un malessere diffuso che agita il mondo giovanile.
Il rischio è che se e quando questo malessere esploderà ci troveremo nella condizione di aver distrutto proprio l’istituzione che con quei giovani dovrà confrontarsi.
Noi crediamo che una programmazione lungimirante dovrebbe fare tesoro di queste esperienze, per preservare e rafforzare una struttura che ha nelle proprie possibilità e negli uomini che vi lavorano un grosso patrimonio culturale, una specializzazione unica nel suo genere, che potrebbe e dovrebbe essere posta a disposizione di tutte le istituzioni che si occupano di intervento sui minori, a partire dagli enti locali, dalle regioni, dalle scuole. Un esperienza che non può assolutamente essere soffocata all’interno del Dipartimento degli Affari Giudiziari. Per una questione di civiltà giuridica, di salvaguardia del servizio pubblico, per il bene dei minorenni e dei cittadini."


Mauro Palma da molti anni attento ai problemi della giustizia penale e, in particolare, del carcere, ha costituito nei primi anni Ottanta, con alcuni giuristi, intellettuali e operatori del diritto, un’area di discussione e di critica del diritto penale dell’emergenza che ha dato luogo prima alla rivista Antigone (1983-1988) e, successivamente, alla omonima associazione. Di Antigone, che svolge attività di studio, iniziativa politica ed elaborazione legislativa sui temi della tutela dei diritti e delle garanzie in ambito penale e penitenziario, è stato Presidente fino al 2000 ed è ora Presidente onorario.
Nel dicembre 2000 è stato eletto componente per l’Italia del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura, dei trattamenti e delle pene inumani o degradanti (CPT), organo del Consiglio d’Europa, istituito da una apposita Convenzione e avente il compito di vigilare sulla privazione della liberta nei 47 stati che hanno ratificato tale Convenzione. Rieletto per tre successivi mandati, è stato capo delegazione in più di 30 visite nei paesi membri della Convenzione, soprattutto nell’area dei Balcani e nel Caucaso. Nel marzo 2007 è stato eletto Presidente del Comitato e ricopre attualmente tale incarico.
Autore di numerosi saggi sulla giustizia penale e sull’esecuzione delle sanzioni, è docente in corsi di formazione promossi dal Ministero della giustizia nonché in master universitari nell’area del diritto umanitario internazionale.
Ha ricevuto recentemente la comunicazione del conferimento della laurea honoris causa in giurisprudenza per questa sua pluriennale attività.


Linee Guida per la riforma della giustizia
minorile in Italia
Promosse da: Amici dei Bambini, ANFAA, CIAI, CIES, ECPAT Italia, Save the Children Italia, Telefono Azzurro, UNICEF Italia, con l'adesione di oltre 100 associazioni e Ong





PREMESSA

Oggi nel nostro paese una reale riforma della giustizia minorile non può essere effettuata se non mettendo a disposizione risorse economiche, umane e strutturali adeguate, che consentano l'attuazione di un processo di cambiamento che migliori, potenzi e assicuri la piena efficienza del sistema giustizia, nel rispetto dei diritti dei bambini, come riconosciuti dalla Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia del 1989.

Pertanto i firmatari del presente documento richiamano all'attenzione del Legislatore i seguenti principi:

1. Il minore parte di un giudizio civile o penale deve essere sempre riconosciuto quale portatore di diritti e quindi in tutte le decisioni dei Tribunali, delle autorità amministrative e degli organi legislativi che lo riguardano deve essere tenuto in preminente considerazione il suo superiore interesse (art. 3 della Convenzione ONU). Occorre pertanto compiere ogni sforzo per adottare un corpo di leggi e di provvedimenti per i giovani, anche quali autori di reati, che rispondano alle loro esigenze di soggetti in crescita (art. 2 Regole di Pechino) e alle loro prospettive di maturazione.
2. In una riforma della giustizia minorile civile e penale, che preveda una nuova definizione delle norme procedurali e della organizzazione attraverso appropriati interventi legislativi, adeguatamente finanziati (non è possibile questa riforma a costo zero), si invita il Legislatore a operare nel medio termine, ove e per quanto possibile, l'accorpamento di tutte le competenze in materia di minori, mantenendole in capo a un'unica istituzione giudiziaria specializzata. I soggetti preposti alla giustizia minorile devono avere una preparazione di tipo specialistico nel diritto in generale, nel diritto di famiglia e nel campo delle scienze umane e sociali, sulla base di precise regole per la selezione, la nomina e la formazione professionale. Questo principio della specializzazione adeguata degli organi della giustizia minorile deve essere attuato rendendo anche obbligatoria, in particolare per i giudici e gli avvocati, la frequenza di appositi corsi professionali. Tale principio di specializzazione esige inoltre che ai giudici per i minori non siano attribuite competenze ulteriori e diverse rispetto a quelle che riguardano la materia minorile e familiare.


3.Ogni processo che riguardi un minore deve essere svolto dinanzi a un giudice o collegio giudicante, competente, indipendente e imparziale. I Tribunali per i minorenni o per la famiglia o le sezioni specializzate dei tribunali ordinari devono avere una presenza capillare sul territorio nazionale, così da garantire un facile accesso al servizio giustizia e consentire ai giudici un rapporto più proficuo con i servizi locali e una maggiore vicinanza ai contesti sociali territoriali.

4. Tutte le procedure del processo minorile civile e penale devono tendere a proteggere al meglio gli interessi del minore e devono permettere la sua partecipazione e la sua libera espressione, come indicato dall'art. 14 delle Regole di Pechino, art. 9 e art. 37.d della Convenzione ONU. Pertanto il processo minorile si deve basare sull'applicazione della regola del contraddittorio, in modo tale da assicurare a tutte le parti interessate di partecipare al processo e di fare conoscere le proprie opinioni (art. 9.2 della Convenzione ONU) di fronte a un giudice terzo e imparziale (art.111 della Costituzione).
5. Il minore, nei procedimenti giudiziari penali che lo riguardano, ha diritto a essere ascoltato e a essere assistito da un proprio avvocato, che abbia le adeguate competenze per tutelare il suo superiore interesse. Parimenti nei procedimenti giudiziari civili che lo riguardano, ha diritto a essere ascoltato, a essere rappresentato dai propri genitori o da un legale rappresentante, e in caso di conflitti d'interesse con questi ultimi da un curatore speciale, nonché ha diritto di accedere a un'assistenza di natura psico-sociale e legale al fine di tutelare il suo superiore interesse.
6. Una riforma della giustizia minorile per essere adeguata non può prescindere dallo stabilire regole che disciplinino e garantiscano l'ascolto del minore soggetto a procedimenti civili o penali, in ottemperanza alla Convenzione ONU (art. 12.) (...). Tali regole, nel disciplinare e garantire l'ascolto, devono anche assicurare al minore un'adeguata protezione psicologica e morale per tutta la durata dei procedimenti civili e penali che lo riguardano. Pertanto le audizioni del minore, il cui contenuto richieda una particolare attenzione e riservatezza, debbono essere svolte in modo protetto, onde evitare che la contemporanea presenza di tutte le parti in causa possa turbare il minore o possa compromettere la genuinità delle sue dichiarazioni, nel rispetto di tempi celeri e modalità garantiste.



7. Nel processo penale le competenze del giudice o del collegio giudicante necessitano in particolar modo di un supporto interdisciplinare, quindi si ritiene importante la presenza della componente privata specializzata, affinché i provvedimenti adottati siano proporzionati alle circostanze e alla gravità del reato, alla situazione del minore e alla sua tutela (art.17.d Regole di Pechino). Per quanto concerne la presenza della componente privata anche nei collegi giudicanti civili, si invita il Legislatore a valutare con la massima attenzione le diverse indicazioni avanzate a tale proposito dalle Ong e associazioni impegnate da anni nelle tutela dei diritti dei minori, dalle categorie professionali operanti all'interno del sistema della giustizia minorile, dalle sedi scientifiche, dal Forum permanente del Terzo Settore e dall'Osservatorio nazionale per l'infanzia (...). Nei procedimenti riguardanti un minore, nei casi in cui il giudice o il collegio giudicante ritenga opportuno il contributo interdisciplinare di specialisti, il consulente tecnico di volta in volta nominato deve avere particolari competenze nelle scienze del comportamento e in ambito forense.
8. Le istituzioni giudiziarie che si occupano di minori devono poter contare sulla collaborazione dei servizi socio-assistenziali e sanitari territoriali: tale collaborazione deve essere continuativa, anche sulla base di precisi protocolli d'intesa e i servizi devono essere adeguatamente specializzati in materia minorile. Per quanto riguarda la competenza penale, si invita il Legislatore a regolare i rapporti tra i servizi del ministero della Giustizia e i servizi locali affinché si realizzi un'efficace collaborazione sinergica.



9. La condanna del minore a pene detentive deve costituire un provvedimento di ultima risorsa (art. 37.b della Convenzione ONU), e deve essere limitata al minimo indispensabile (art. 17.b Regole di Pechino), in quanto la pena deve svolgere la funzione di recupero del minore per il suo reinserimento nella società civile (art. 39 della Convenzione), oltre che la funzione di riparazione per il reato commesso. Il minore sia italiano che straniero, compreso quello che entra negli Istituti penali minorili, deve pertanto potere usufruire di forme alternative alla detenzione (art. 18 Regole di Pechino), tra le quali la messa alla prova e ove possibile la mediazione penale, senza limitazioni per fattispecie di reato o per durata minima di espiazione della pena in caso di liberazione condizionale. In campo penale non sono giustificabili modifiche alle diminuenti e alle attenuanti per i minori di età compresa tra i 16 e i 18 anni. Come non appare giustificato, nel caso che la pena a carico del minore possa essere completamente espiata entro il 22° anno di età, il passaggio, al compimento dei 18 anni, al carcere degli adulti; al contrario si deve privilegiare il trattamento del giovane adulto in appositi istituti fino all'espletamento della pena, al fine di portare a compimento i programmi di recupero per lui previsti (Regole di Pechino art. 3.3.) La riforma della giustizia in campo penale deve essere conforme ai principi e alle norme della Convenzione ONU e in particolare all'art. 40 della stessa.




10. Una riforma della giustizia minorile non può prescindere, come da tempo richiesto dalla Corte Costituzionale, dalla delineazione di uno specifico ordinamento penitenziario per i minorenni condannati a pene detentive. Tali norme sull'ordinamento penitenziario minorile, oltre a regolare l'esecuzione delle pene per i minorenni, devono assicurare l'attuazione di quanto sancito nella Convenzione ONU e in particolare che "ogni minore privato della libertà sia sempre separato dagli adulti" (art. 37.c).


Le immagini di questo post come quelle dei due relativi alla giustizia sono tratte dai siti internet e in particolare per S. Vittore di Milano dalla Mostra fotografica “ Custodiscili “ di Roby Schirer , foto e immagini già pubblicate nei siti www.ildue.it e www.panorama.it. Le foto di Rebibbia sono tratte dai siti di Nico d’Alessandro di Christian Mascheroni “Bambini Humus, Religione Cattolica e www.nutrimente.org di Daniela Dominici.Per eventuali omissioni in questa citazione si è pronti su segnalazione a integrare la presente nota con la quale si intende anche ringraziare anticipatamente persone e siti citati

Eremo di Via Vado di Sole, L’Aquila, lunedì 22 febbraio 2010

sabato 20 febbraio 2010

STORIE E VOCI DAL SILENZIO 4 C'è spazio per il perdono nel processo penale ?

La riflessione che segue viene suddivisa in due post per agevolare la lettura.La prima parte è composta da “C’è spazio per il perdono nel processo penale?”un contributo alla Tavola Rotonda della Fondazione Studi Celestiniani per la Pace tenutasi nell’Eremo francescano di S. Angelo d’ Ocre ,L’Aquila il 26 agosto 2006
La seconda parte è rappresentata da un articolo di “Gli Altri” del 22 gennaio 2010 dal titolo “Giustizia: dimezzare detenuti, invece di raddoppiare le carceri”di Piero Sansonetti del Coordinamento Nazionale Funzione Pubblica della CGIL Polizia Penitenziaria che mi piace ospitare e che completa appunto l’iniziale riflessione.


Contributo alla riflessione sul tema :C’E’ SPAZIO PER IL PERDONO NEL PROCESSO PENALE ?Tavola rotonda della Fondazione Studi Celestiniani per la Pace, Consorzio Celestiniano. -Sabato 26 agosto 2006- Eremo Francescano “ S. Angelo” di Ocre (L’Aquila).di Valter MARCONE Direttore Istituto Penale Minorenni e Centro Prima Accoglienza di l’Aquila, servizi del Ministero della Giustizia, Dipartimento della giustizia minorile.


E’ possibile trasporre la carità evangelica nel mondo del diritto, ed in particolare del diritto dello Stato ed è traducibile in norme giuridiche il precetto “ ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra, a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello”?

E’ vero che la legge dell’amore dona a tutti una via verso la salvezza, ma sottrae anche a tutti la certezza della giustizia, dei propri diritti?

Disse Caino al Signore: “Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono! Ecco tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere”.
Ma il Signore gli disse : “Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte”..
Il Signore impose a Caino un segno perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato.
(Gn.4,13-15)

Signore
fammi capire
che l’essere disposto a perdonare
è uno dei più grandi segni di forza,
che il desiderio di vendetta
è una delle manifestazioni
della debolezza
( Alì Amin Il coraggio del Perdono. Canti della spiritualità mussulmana. Salmi Sufi)

Signore perdonami per ciò che conosci di me
Meglio di me stesso.
Se commetto nuovamente un errore,
Signore,
concedimi di nuovo il tuo perdono.
( Alì Ibn Abi Talib)


Siamo certamente abituati ai nostri linguaggi professionali, familiari, di gruppo, che sono la condizione universale della comunicazione e alla nostra lingua che è la concretizzazione della condizione di una società.
Ma siamo altrettanto abituati al timbro e al carattere di singolarità delle parole che compongono lingua e linguaggi?
Abbiamo qualche volta riflettuto sul fatto che la parola è singolare e si differenzia dalla lingua che è sociale?
Riusciamo a dare singolarità e carattere a parole come perdono. spazio, processo, penale ?
La forza comunicativa di una parola è caricata di una certa esperienza, di una certa biografia individuale.Esiste una parola che è mia per la sua forza evocativa, per la sua creatività. Io la vivo, la esprimo, è in me; ha una sua densità che difficilmente può essere rivissuta da chi ascolta con la stessa forza.
E allora è possibile riflettere sulla parola “perdono”, o sulla parola “ spazio” o sulla parola “processo”?
E’ un tentativo quello che segue, un tentativo e un contributo .


Quando nel mezzo di una mattinata indaffarata ho visto Padre Quirino affacciarsi alla porta della mia stanza,tra il piacere di vederlo personalmente e la sorpresa dell’invito, ho avuto solo il tempo di leggere il tema di questa tavola rotonda e di assicurare la mia presenza e quella di alcuni collaboratori.
A distanza di qualche ora ho riletto il tema e la sua breve presentazione e mi sono domandato : “ Che cos’è il perdono?” “ Che cosa è un processo penale?”
Mi sono apparsi due scenari lontanissimi dalle preoccupazioni professionali quotidiane.
Lontani dalla realtà di ogni giorno di un piccolo istituto penale per minori dove in media sono presenti da otto a dodici ragazzi , in quest’ultimo periodo tutti stranieri, clandestini, senza fissa dimora, senza familiari in Italia che provengono spessissimo da altri distretti .


Mi sono domandato che cosa sapessero questi ragazzi del perdono, del processo penale, delle difficoltà di una piccola struttura ad assicurare loro quel minimo di accoglienza e di ospitalità che le risorse a disposizione consentono, accoglienza che probabilmente sostanzia il rapporto tra perdono e processo penale, tra pena inflitta ed esecuzione della stessa.
Poi la riflessione ha preso altre strade e ha evidenziato altri interrogativi .
Riflessione e interrogativi che non possono non prendere le mosse dall’esame di tre argomenti particolari: le misure alternative alla carcerazione, il perdono giudiziale, la mediazione penale , quali strumenti che danno carattere di specificità all’intervento della giustizia minorile.

Saper punire, saper riaccogliere


L’esecuzione penale è oggi caratterizzata da due realtà complementari : da una parte decine di migliaia di uomini e donne vivono all’interno degli istituti penali, dall’altra decine di migliaia di uomini e donne espiano la pena fuori del carcere.
E’ questo il punto di arrivo di un percorso durato trent’anni in tema di esecuzione penale.Esecuzione penale in cui la funzione sanzionatoria della pena è immediatamente resa visibile dalle mura del carcere a differenza delle misure alternative che, pur dando altrettanta realtà alla pena sono una rete invisibile di relazioni umane e istituzionali, di rapporti giuridici e professionali.
Negli adulti nel corso del 2004 per esempio sono stati posti in esecuzione 32.085 affidamenti in prova; 14.645 detenzioni domiciliari, 3.489 semilibertà.
Nella giustizia minorile nell’anno 2004 i minori messi alla prova , art. 28, sono stati 2.011 mentre nel 2005 gli affidamenti sono stati 331, le detenzioni domiciliari 42, le semilibertà 6, a fronte di un numero di ingressi nel 2004 di 1.594 e di 1.489 nel 2005.
Dei 41.212 minori segnalati e quindi entrati nel circuito penale ne sono arrivati a procedimento solo 21.642.
Ai numeri sopra riportati di questa rete invisibile vanno aggiunte le sanzioni sostitutive di pene detentive o semidetentive applicate dal giudice della cognizione.
Pur rappresentando dopo il 1981 il primo esempio in tal senso dell’ordinamento repubblicano ( in quanto precedenti esperimenti del codice Zanardelli non furono ripresi dal codice Rocco perché ritenuti di modesta incidenza) le misure alternative presentano , malgrado il loro valore qualitativo, ancora una modesta incidenza quantitativa a venticinque anni dalla loro istituzione.
Certo è che il sistema italiano, come dimostrato dalla storia di trenta anni di esecuzione penale, è incentrato sulla irrogazione della pena detentiva e sulla commutazione della stessa in misure alternative.


Domandarsi a questo punto quale potrà essere il futuro dell’esecuzione penale è utile ma è domanda di non facile risposta.
Domandarsi invece se questa storia dell’esecuzione penale , così come delineatasi, può aiutarci ad affermare la necessità che la commutazione delle pene in misure alternative prenda il sopravvento è sicuramente la strada maestra per capire alcuni aspetti importanti del perdono.
Se il perdono è l’ultimo momento di un percorso che chiede ammissione di colpa, assunzione di responsabilità, denuncia dei comportamenti, emendamento ; se il perdono è chiedere perdono, perdonare , riconciliarsi con se stessi e con gli altri, perdonarsi, esso non può che essere l’ultimo momento di un percorso.
Il percorso delle misure sostitutive può essere finalizzato a questo?
E’ legittimo e utile chiedersi, riflettendo sulla storia dell’esecuzione penale, come avevamo iniziato a fare , che le misure alternative e sostitutive sono un percorso che danno sostanza al perdono ?
Se sosteniamo che comunque la detenzione svolge una funzione nel separare dal consorzio civile una persona condannata, la pena non detentiva ha bisogno di un determinato comportamento , definito d’intesa tra il condannato e l’agenzia che lo prende in carico per soddisfare anche quella condizione di separatezza che può realizzarsi non solo all’interno di un muro?
E’ possibile leggere il contenuto del comportamento comunemente chiamato “programma di trattamento” come un percorso per approdare al perdono?
E’ possibile allora estendere le misure alternative in modo che gradualmente guadagnino un peso numerico rispetto alle esecuzioni in carcere e tali appunto da rappresentare un nuovo modo di esecuzione della pena?
E’ possibile pensare alla capacità della nostra società, attraverso l’esercizio del perdono, di accogliere e riaccogliere con una circolarità che oggi si individua forse solo nell’indulto?

Accogliere anche il negativo : il perdono giudiziale

Nella cultura della giustizia minorile ,in realtà, una forma di perdono esiste da sempre ed è il cosiddetto perdono giudiziale.
Il processo penale minorile è caratterizzato da aspetti qualificanti tra cui i più importanti sono : gli accertamenti sulla personalità, la forte valenza educativa, l’assistenza affettiva e psicologica, il trattamento sanzionatorio mite.
Tralasciando i primi tre aspetti per economia di questa esposizione sembra interessante soffermarsi per la nostra riflessione sul trattamento sanzionatorio mite che può essere sintetizzato in tre punti:una speciale riabilitazione sia d’ufficio che su richiesta del pubblico ministero o dello stesso minore che abbia compiuto 18 anni con la cessazione di tutti gli effetti penali della condanna anche se può essere revocata se il soggetto compie un grave reato entro cinque anni; una speciale riduzione o annullamento della pena che viene ridotta di un terzo con la rinuncia spesso dello Stato alla sua potestà punitiva attraverso gli istituti giuridici del perdono giudiziale, del non luogo a procedere per irrilevanza del fatto e della messa alla prova; infine la scarsa applicazione delle misure di sicurezza ( limitazione del riformatorio ai reati per cui la legge prevede pena non inferiore al massimo di nove anni sostituendolo con il collocamento in comunità; esecuzione della libertà vigilata con le prescrizioni o con l’ordine di permanenza in casa).
Tra questi strumenti il perdono giudiziale ha dunque lo scopo di evitare che “… le brevi pene, specialmente per i minori costituiscano un male anzicchè un bene nell’opera di rieducazione,perché esse senza avere una vera e propria efficacia intimidativa, si possono risolvere per tutti, ma specialmente per i minori ,in una inutile diminuzione morale ed in un sensibile peggioramento delle qualità sociali dell’individuo…” (Relazione al D.L. 20 Luglio 1934 n.1404).
Contenuto del perdono è il proscioglimento definitivo ed incondizionato mentre la sospensione condizionale della pena comporta che accertata la colpevolezza dell’imputato sia anche inflitta la pena la cui esecuzione può essere sospesa a condizione che il condanna non commetta altro reato.


Il perdono giudiziale comporta il mancato rinvio a giudizio dell’imputato o la mancata pronuncia della condanna nel caso di giudizio già iniziato , può essere pronunciato in presenza di reati che non comportino una pena detentiva superiore a due anni o una pena pecuniaria superiore all’equivalente di seicentomila lire e quando c’è la presunzione che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati.
Dunque il “…perdono giudiziale venne introdotto dal codice penale del 1930 e successivamente contemplato nelle disposizioni istitutive del Tribunale per i Minorenni del 1934. L’istituto emanato in piena epoca fascista doveva assolvere ad una funzione di ammonimento pienamente corrispondente con il paternalismo autoritario proprio di tale regime. Dopo l’introduzione della Costituzione repubblicana l’istituto mantenuto in vigore,venne interpretato alla luce del principio rieducativi contenuto nell’articola 27 del testo costituzionale. A partire dagli anni ’70 il perdono giudiziale, interpretato sulla base del principio della minima offensività, venne visto come un istituto che permetteva l’evoluzione armonica della personalità del minore e il suo reinserimento nella società, evitando l’afflizione della condanna…”

Riconciliazione : incontro tra vittima e autore del reato

Sempre in termine di perdono è il caso di esaminare un aspetto della MEDIAZIONE PENALE che instaura un percorso per arrivare almeno alla riconciliazione se non al perdono.
Anche in questo caso si può parlare di una specificità della giustizia minorile essendo questa nuova “ strategia giudiziaria” adottata quasi esclusivamente nel sistema della giustizia minorile.
La mediazione è in questo senso un “ incontro” tra la vittima e l’autore del reato.
In estrema sintesi l’obiettivo della mediazione penale è obiettivo di una strategia molto antica che tende a realizzare la “ pacificazione tra le parti e/o la riparazione diretta di eventuali danni subiti dalle vittime”
Se la mediazione penale può apparire marginale in quanto viene adottata prevalentemente nell’ambito della giustizia minorile è ad onore di quest’ultima che va detto che essa ha sempre rappresentato nella storia del nostro paese un laboratorio di sperimentazioni per nuove strategie giudiziarie e nuovi istituti giuridici.
Sperimentare la pacificazione tra le parti (perché la mediazione è occasione unica in cui il reo può essere messo a confronto con la vittima) è una straordinaria “creazione di spazio” nell’iter penale del minore per realizzare opportunità rieducative e di “diversion”.
Uno spazio prevalentemente ancora “ informale” e “ sperimentale” anche se “ una ricerca sull’applicazione dell’istituto della messa alla prova nell’ambito del processo penale minorile ( art. 28 D.P.R. 448/88) aveva mostrato che a Bari la stragrande maggioranza dei progetti includeva strategie e modalità riparative di mediazione indiretta ed iniziava ad essere applicata anche la mediazione diretta ( Mestitz : Mediazione penale , chi, dove , come e quando ,Carocci ,2004 , pag. 14)
Mediazione penale dunque , “terra di mezzo “, come la definiva Pisapia. Uno spazio in cui viene posto in evidenza l’aspetto relazionale del conflitto nascente dal reato e la possibilità di intervenire per attivare processi di responsabilizzazione rispetto alle conseguenze delle condotte penalmente illecite.


Uno spazio che restituisce ai protagonisti la gestione della controversia proponendo una lettura “ della relazione autore –vittima del reato che tende ad essere non conflittuale ma consensuale- compensativa…” rappresentando la mediazione “… il risultato di una maturata consapevolezza della necessità di risposte non punitive, diverse dalle sanzioni penali tradizionalmente intese…”
Allora, è possibile pensare, proprio perché la mediazione legge il reato nella dimensione relazionale, che la ricerca di responsabilità, il fatto reato, il conflitto sociale da questo generato siano un pretesto per creare un momento di incontro tra soggetti ( che diversamente non avrebbero altre possibilità per farlo) per definire e ridefinire un progetto relazionale, un progetto di cambiamento?
L’offeso ha la possibilità di comprendere il comportamento del reo, l’esperienza del suo pentimento e la riparazione soddisfacente.
Il reo è messo in condizione di prendere coscienza e constatare direttamente le conseguenze umane e materiali della propria azione.
Anche se non c’è riconciliazione, la mediazione restituisce una parte di sé a ciascuno dei protagonisti ridando dignità alla vittima e possibilità di recupero al reo.
E’ un patto di reciproco rispetto.
Il rispetto comune, dunque.
E’ questo allora il percorso che apre le porte alla riconciliazione ,al chiedere perdono, al farsi perdonare , al perdonarsi?


La mediazione penale crea uno spazio straordinario.
E’ possibile leggere lo spazio del perdono come una pluralità di spazi ed è possibile leggere il perdono così in termini laici.
E’ possibile riflettere, parlare del perdono non in termini di chiese né in termini di eresia o di ortodossia attraversando questo tema un territorio in cui l’eretico insiste nella sua eresia e l’ortodosso nella ortodossia ,alla ricerca delle verità?

Lo spazio dell’anima: lo spazio della solitudine


C’è uno spazio della condizione esistenziale che secondo le parole magistrali della poetessa Emily Dickinson è quello dell’anima che è sola con se stessa quando cerca il perdono:
C’è una solitudine dello spazio
una solitudine del mare
una solitudine della morte,ma
sono tutte compagnia
paragonate a quell’altro spazio più nel fondo
quella privatezza polare:
un’anima sola con se stessa
finita infinità.

Lo spazio del doppio

L’uomo è fondamentalmente attraversato da una tensione di contrari, di forze opposte e l’incontro con la propria controparte negativa è un passo fondamentale per la crescita psicologica. Si può dire che l’uomo “ innocente” non entra mai nell’esistenza, perché solo chi è capace di “peccare” paga un tributo alla vita; se non si ha un male interno che ci costringe a confrontarci con noi stessi e con gli altri, accettando l’impegno e il rischio personale, non c’è possibilità di avanzamenti e di nuove scoperte, sul piano collettivo come su quello personale.
Lo spazio del perdono è anche lo spazio del doppio, lo spazio della ricerca del proprio male e la voglia di confrontarlo con gli altri per crescere in responsabilità e in certezze?
E’ il Demian di “ Il lupo della steppa” di Herman Hesse che nell’offrirci questa lacerazione perturbante con l’incontro del proprio doppio che può aiutarci laicamente a credere nel perdono?
E Jung con la sua libido demoniaca può aiutarci anche lui quando afferma che se il male potesse essere debellato definitivamente, divino e demoniaco soffrirebbero una notevole perdita ?

Lo spazio della ricerca

Può aiutarci questo spazio che è quello del desiderare impegnandosi in qualcosa di sconosciuto che proietta in avanti e fa di una creatura vivente un uomo ? Lo spazio dell’uomo è quello di essere proiettati in avanti. Sartre diceva che “ l’uomo è in primo luogo ciò che si slancia verso un avvenire e ciò che ha coscienza di progettarsi verso l’avvenire”.
E il perdono , non è ricerca di avvenire, di cambiamento , di possibilità di ricominciare da capo?

Lo spazio dell’infinito umano : l’amore

Goethe in “ Le affinità elettive “ celebra i sentimenti di Edoardo per Ottilia:
“ Nei sentimenti come nelle azioni di Edoardo non c’è più misura. La coscienza di amare e di essere amato lo trasporta nell’infinito. Come è mutato per lui l’aspetto di tutte le stanze, di tutti i dintorni. Nella sua stessa casa non si ritrova più. La presenza di Ottilia assorbe tutto: egli è immerso in lei, nessun’altra considerazione gli si presenta, nessuna coscienza gli parla; ogni freno della sua natura è spezzato, tutto il suo essere si espande verso Ottilia”.
E’ questo lo spazio dell’amore dunque che cambia le cose, che spezza i freni della natura: E questo amore può aiutarci a volte a chiedere il perdono e perdonare?

Lo spazio dei valori e dei conflitti

La trasmutazione di tutti i valori operata da Nietzsche nel suo “ Così parlò Zaratustra” affida al cammello e al leone la rappresentazione allegorica di due diversi stati di coscienza individuale : il cammello l’uomo prigioniero di un mondo di valori fissi cui sottostà docile e rassegnato; il leone, l’uomo trasformato da una metamorfosi che si sbarazza del peso che lo opprime e combatte contro la morale a lui esterna per “ prendersi il diritto di creare nuovi valori”.
E’ questo lo spazio della metamorfosi ma è anche lo spazio del dubbio perché la presa di coscienza non è la risoluzione dei problemi ma segna l’entrata nel mondo del dubbio. Lo spazio del dubbio dunque ,che è sempre possibile e che quasi sempre deve essere ben accetto, può aiutarci a capire che il perdono è frutto della presa di coscienza e che l’uomo” che rifiuta di sottostare, come diceva Jung, alle leggi del collettivo si ritrova nelle “tenebre di un conflitto di doveri”.
Il perdono è un dovere?

Lo spazio del male

Che possibilità ha di affermarsi in un mondo globalizzato, dominato da alcuni assolutismi e fondamentalismi, una cultura dell’esistenzialismo collettivo a carattere pragmatico che rinunci alle passioni totalizzanti per ancorarsi saldamente al valore del riconoscimento reciproco degli uomini che vivono la stessa condizione di esistenza con la loro incapacità di accettare proprio le condizioni dell’esistere , la sua insuperabile incertezza, il contrasto tra la gioia di esserci e l’angoscia di non sapere, la consapevolezza del limite e della morte.?
Non lo so . So di certo che questa incapacità di guardare in modo positivo all’esistenza ha scarso fondamento e provoca spesso il tentativo di evasione, di disconoscimento della solidarietà che ci lega come uomini ( che appunto condividono questa condizione) e genera il male.
Il male che nasce anche dal potere e dal possesso quando sono fini a se stessi.
Il male originato fondamentalmente dall’assenza del riconoscimento di tutto ciò che nega la condizione dell’esistenza umana, la relazionalità, lo scambio reciproco che accompagnano gli uomini nei vari tempi della vita dall’infanzia alla vecchiaia , il male dunque è lo spazio di esercizio di questo modo di vivere di oggi? Ma è possibile invertire la tendenza e guardare ai valori appunto esistenziali tra cui c’è anche il perdono?
Queste considerazioni possono aiutarci a capire allora se lo spazio del male , come sopra è stato inteso , può essere aggredito dal perdono come capacità esistenziale che stabilisca e ristabilisca il vincolo di solidarietà tra gli uomini in quanto appunto uomini e compartecipi della stessa natura?

E’ possibile ragionare da laici in tema di perdono? Date a Cesare…

Il problema dei rapporti tra “ messaggio cristiano e sistemi giuridici assume connotati difficili quando si tenta di porre in rapporto le parole di Cristo e il diritto penale. L’Antico Testamento offre una chiave di lettura più agevole per affrontare i problemi giuridici penali. In quanto in esso è presente una legge data da Dio agli uomini e come ogni legge individua dei doveri che devono essere rispettati con l’intesa che alla violazione della legge segue una sanzione.Chi osserva il patto ha l’aspettativa di essere valutato giusto e quindi di non essere punito.
Diversamente risulta incomprensibile, sul piano della legge umana l’unione tra le parole comando ed amore perché frutto proprio di quella legge dell’amore instaurata da Cristo.
In nome dell’amore il figlio di Dio è salito sul patibolo e così ha riscattatate tutte le colpe dell’uomo, le ha espiate. A quel sacrificio tutti possono attingere e quindi la conversione cancella la colpa e forse anche la pena.
Questa impostazione riferita in breve sconvolge gli schemi su cui si fonda la vita di relazione; come è possibile che l’operaio che si presenta al lavoro all’ultima ora riceva la stessa paga di chi ha lavorato tutto il giorno?
Ma l’analisi sarebbe oltremodo lunga .

E’ possibile allora, per tornare al nostro discorso accettare il fatto religioso nello spazio pubblico; è possibile non relegarlo al privato sostenendo che le religioni hanno una dimensione sociale che non può essere negata?
La parola perdono è ontologicamente incompatibile con lo Stato?
I tribunali dello Stato non reprimono peccati ma solo alcune condotte ritenute socialmente dannose ed espressamente previste nel codice penale che appare necessario colpire con una sanzione giuridica adeguata allo scopo di difendere la pace sociale. La giustizia nelle aule giudiziarie non deve giudicare l’uomo ma i suoi atti. Anche perché stando al “ non giudicate se non volete essere giudicati” porterebbe l’uomo di legge che si sentisse “giusto “ rispetto al delinquente a cadere nella colpa del fariseo che esalta se stesso nel confronto del pubblicano e contraddirebbe alle parole di Cristo “ chi è senza peccato…”
Lo Stato non è capace della generosità del perdono ma solo di calcoli di opportunità che possono indurlo ad amnistie o condoni ?
Obiettivo della giustizia dello Stato è la rieducazione ,non la redenzione del reo.
Sembra allora che il discorso possa essere chiuso.
Eppure.

E’ possibile per i cristiani vivere una pratica della laicità vigile e accogliente chiedendo allo Stato che in nome della laicità difenda la libertà di coscienza, vegli affinché sia possibile una coesistenza sociale pacifica tra le componenti della società, si opponga ad ogni forma di violenza utilizzata per far prevalere idee e convinzioni religiose senza “ TUTTAVIA DIMENTICARE CHE LO STATO E’ LAICO ,MA LA SOCIETA’ CIVILE NON LO E’?
E’ possibile per i cristiani affermare che la memoria eversiva del Vangelo non è “la religione civile” ma è “ buona notizia” che va comunicata e fatta risuonare, è parola che chiede conversione e profezia liberante per gli uomini e le donne di questo tempo?
Enzo Bianchi nel suo “ La differenza cristiana”, Torino ,2006, individua a questo proposito degli interrogativi.
Le religioni possono essere accusate di proselitismo e di intolleranza o di discriminazione quando esprimono in pubblico le loro convinzioni etiche, il loro sguardo sull’uomo e sul mondo?
In una società pluralista come si fa ad evitare che le religioni esprimendosi pubblicamente diventino gruppo di pressione e le loro convinzioni leggi anche per quanti non fanno riferimento ad una fede?
Ci sarà la possibilità per i cristiani di dire pubblicamente il loro disaccordo senza organizzarsi in crociate o senza indurire la loro identità, arroccandosi in una opposizione ostile alla società?

In tema di perdono è possibile rispondere a questi quesiti ?
Senza logica di inimicizia e di creazione di un avversario, il confronto su questo tema è possibile e i cristiani devono imparare ad esprimersi in termini che non sono né dogmatici,né soltanto sostenuti dalla loro fede ma devono usare un linguaggio antropologico comprensibile a tutti e quindi capace di mostrare le ragioni umane che sostengono le loro scelte.

Parlare di perdono con capacità e modalità di dialogo e dimostrare di essere al servizio dell’umanizzazione di ogni persona e della collettività è difficile ma è l’unica strada per una società segnata da giustizia , pace, rispetto del creato e della dignità dell’uomo.
Senza dimenticare che in una società pluralista che si vuole democratica, le leggi si costruiscono con gli altri perché se i principi e le scelte religiose diventassero leggi imposte agli altri avremmo un totalitarismo religioso non dissimile dagli atteggiamenti teocratici e integralisti di cui non mancano esempi.

Sono possibili allora leggi che contemplino il perdono nel processo penale?
Probabilmente no. Sicuramente no fino a quando , ed è sempre Enzo Bianchi che ci aiuta a riflettere, continuerà ad emergere “ un cristianesimo finora inedito che non ha più come fondamento e ispirazione la parola di Dio contenuta nella Scrittura,un cristianesimo che non vuole più essere giudicato nel suo essere o meno evangelo ,un cristianesimo che preferisce essere declinato, come religione civile, capace di fornire un anima alla società…. E poco importa se questo significa che il vangelo perde il suo primato, che non ci sia più possibilità di profezia … Sì, non più la testimonianza dell’amore di Dio per gli uomini , non più la sua parola sono criterio di autenticità e comunione, ma un progetto politico riguardante la presenza e il peso della chiesa nella società…non si guarda più se in una persona sono presenti quelle obbedienze al vangelo che fanno il cristiano, nonostante e al di là delle fragilità umane che sempre lo accompagneranno; si guarda invece alla capacità di assumere il cristianesimo come identità culturale, come istanza religiosa nel pluralismo delle fedi, come possibilità di coesione in un mondo frammentato e diviso…”

E se per assurdo questo tipo di cristianesimo riuscisse a parlare di perdono nel processo penale di che tipo di perdono parleremmo?

Invece è ipotizzabile un’etica comunitaria condivisibile nel pluralismo delle fedi e delle religioni che faccia del perdono il tema di un dialogo franco ed autentico in cui l’esistenza umana trova il suo valore nella relazione di qualità tra gli uomini?
Una qualità che nell’attuale società connotata appunto da relazioni fragili e conflittuali , di tipo consumistico esprima la possibilità appunto alternativa di relazioni gratuite, forti e durature cementate dalla reciproca accettazione che sono forse la sostanza del perdono umano?
A volte grandi silenzi, a volte una parola chiara sono le caratteristiche dellaa presenza dell’annuncio profetico. Il perdono è dunque un annuncio profetico?Ha bisogno di silenzi e di parole chiare?

E’ possibile leggere il perdono in termini laici e di processo penale?

E torno alla mia esperienza professionale.
Il perdono è da una parte stare insieme alle persone detenute camminando non al passo severo ed impetuoso della legge ma con quello leggero e pieno di pace che porta all’incontro, alla voglia di intraprendere nuovi cammini privilegiando il pane del perdono alla pietra della legge.
“Chi tra di voi , se un figlio gli chiede un pane gli darà un sasso? ( Mt 7,9)
La legge e il pane del perdono.
E’ Pilato che dice “ noi abbiamo una legge…” e ancora lo stesso Pilato “ Non mi parli? Non sai che ho il potere di mettere in libertà, oppure…”


E Paolo dice al discepolo Timoteo “… non vergognarti di me che sono in carcere per lui, ma soffri anche tu con me …aiutato dalla forza di Dio …” (2 Tm 1,7).
Il perdono è dunque anche non vergognarsi dell’altro, quell’altro da me, quello diverso che mi domanda sempre :”…Che cosa è permesso…salvare la vita di un uomo o lasciarlo morire? “( Lc 6,9)
Se il modello evangelico del perdono si rivela come “ sapienza” per la nostra società, il perdono , che nella persona è frutto della conversione ( vedi Zaccheo) nella società è frutto di ragione.
Il perdono laico non è una cancellazione che lascia tutto come prima ma un elemento e una condizione del cambiamento che mentre adopera le misure necessarie a proteggere la comunità si preoccupa di impedire il ripetersi dell’offesa.
La parola perdono nel sistema penale ,afferma il cappellano Paolo Dal Fior nel suo libro Il cacere del pane azzimo :”… non è usata spesso ( se non solo riguardo ai minori ) ma l’idea strisciante di perdono si afferma con risultati in alcuni casi visibili: la coerenza nel contrapporre al sistema criminale un sistema di valori basati sul rispetto dell’altro e sul ripudio della violenza; la ricerca di fattori che hanno indotto al crimine e il tentativo di modificarli; l’incentivo, l’offerta di opportunità di cambiamento individuale e la diminuzione della conflittualità nelle carceri; gli esempi di recupero, di iniziative di lavoro, di attività che costituiscono forme di riparazione sociale certamente più efficaci dello spreco di tempo e risorse della pura detenzione; non ultima la speranza e la minore sofferenza delle famiglie innocenti dei condannati…”
La pena dunque non è una vendetta, non è inchiodare l’altro al suo gesto e ridurlo a quello, bloccare la società nell’offesa ricevuta, come se in quegli episodi , sanzionati con la pena, sia rinchiuso e perso il significato della vita delle persone e della storia della nostra società.
E’ possibile guardare alla vita delle persone quando si parla di perdono ed è possibile parlare di perdono guardando alla vita come sentinelle .
La domanda “ Dov’è tuo fratello?” non è già domanda di “grazia”( confessando ) e di perdono ( con il rendimento di responsabilità)
L’inquietitudine di questa domanda ci fa però cambiare prospettiva.

C’è spazio nel perdono per il processo?
Quale giudice segue il “suo” condannato fino al termine della pena?
Non il giudice che ha pronunciato la sentenza di condanna.
C’è uno spazio tra il momento della comminazione della pena e il momento dell’esecuzione che sembra impercettibile essendo le due azioni consequenziali.
Ma è un spazio enorme e non è lo spazio del perdono . E’ lo spazio di un “processo penale” che mette assieme queste due cose : la comminazione della pena e l’esecuzione della stessa. C’è spazio allora nel perdono per il processo penale?

Il diritto di perdonare?

“Ma chi vi dà il diritto di perdonare ?” è l’angosciosa domanda che Primo Levi rivolge ai “ perdonisti”.
E’ una domanda di ragione e di senso quando il perdono che passa attraverso l’espiazione della pena che sta lì per favorire la rieducazione non comporta la possibilità di un’attività lavorativa, un tenore di vita non degradante, la possibilità di un minimo di intimità e di isolamento rispetto agli altri condannati .
E’ una domanda che ne sottintende tante altra ma fondamentalmente una : senza queste condizioni è forse meglio non perdonare?


Eremo di Via Vado di Sole, L'Aquila, sabato 20 febbraio 2010

STORIE E VOCI DAL SILENZIO 3 Giustizia:dimezzare i detenuti ,invece di raddoppiare le carceri

La riflessione che segue viene suddivisa in due post per agevolare la lettura.La prima parte è composta da “C’è spazio per il perdono nel processo penale?”un contributo alla Tavola Rotonda della Fondazione Studi Celestiniani per la Pace tenutasi nell’Eremo francescano di S. Angelo d’ Ocre ,L’Aquila il 26 agosto 2006
La seconda parte è rappresentata da un articolo di “Gli Altri” del 22 gennaio 2010 dal titolo “Giustizia: dimezzare detenuti, invece di raddoppiare le carceri”di Piero Sansonetti del Coordinamento Nazionale Funzione Pubblica della CGIL Polizia Penitenziaria che mi piace ospitare e che completa appunto l’iniziale riflessione.



"Il governo ha deciso di rispondere all’emergenza carceri costruendone di nuove. Nessuno si è scandalizzato. L’opposizione non ha nulla da obiettare, tranne che sulla trasparenza degli appalti. I giornali neppure. In che cosa consiste l’emergenza carceri? Nel fatto che le celle sono stipate, i servizi scarsi, le condizioni di vita dei reclusi inaccettabili, la privazione della libertà insopportabile. E questo provoca gravissimi disagi, violazione dei diritti umani e un numero altissimo di suicidi: più di uno alla settimana. Per una popolazione di 60mila persone è una cifra altissima: in proporzione è come se a Roma ci fossero 60 o 70 suicidi a settimana. Dieci al giorno.
Il Partito Radicale, per esempio, da anni denuncia questa situazione. Poco prima di Natale è arrivata anche la denuncia drammatica di monsignor Tettamanzi, cardinale di Milano, dopo una visita a San Vittore. Ha detto: "Non me l’aspettavo, è un inferno, è indecente, è disumano". Il governo ha stabilito che il problema di fondo è il sovraffollamento (e l’opposizione concorda) e ha deciso di costruire circa 25mila nuovi posti letto. Naturalmente è vero che il sovraffollamento è un problema, anche se poi c’è una questione molto più grande: riguarda il funzionamento delle carceri, il grado di riduzione delle libertà individuali, la qualità della vita, il sistema delle repressioni; tutte cose non legate esclusivamente al sovraffollamento, ma piuttosto frutto di una mentalità autoritaria, punitiva, che è dominante nella nostra cultura giuridica.
Ammettiamo, per un momento, che davvero l’unico problema sia lo squilibrio tra spazi a disposizione e numero di carcerati. Come si risolve? Raddoppiando le carceri (o quasi), come propone il governo? Oppure dimezzando i carcerati? È possibile dimezzare (o più che dimezzare) il numero dei carcerari? I dati ufficiali ci dicono di sì.

Ridurre le carcerazioni preventive.

Basterebbe ridurre le carcerazioni preventive - che sono il vero motivo del sovraffollamento, visto che la grande maggioranza dei detenuti non ha ricevuto la condanna definitiva - e depenalizzare i reati minori. In particolare basterebbe depenalizzare i reati relativi al consumo e al piccolo spaccio di droghe, dal momento che la maggioranza dei detenuti - in carcere preventivo o definitivo - è dietro le sbarre per piccoli reati.
Se si facesse così, cioè si puntasse alla riduzione della popolazione carceraria, si potrebbero ottenere ottimi risultati senza alcuna spesa. Anzi, con un forte risparmio di denari da parte dello Stato. I soldi risparmiati potrebbero essere investiti sia per il miglioramento della vita carceraria, sia per il reinserimento nella società e nel lavoro di quelli che lascerebbero il carcere. Non è una ricetta rivoluzionaria: è solo buonsenso. Potremmo addirittura usare una parola più nobile: è una soluzione riformista. Sembra che tutte le forze politiche italiane siano affascinate dal "riformismo". Sarebbe ora che qualcuna iniziasse a capire cos’è il riformismo. Raddoppiare le carceri, non è riformismo: è l’attuazione di una soluzione reazionaria, sia sul piano politico che su quello culturale e morale. È un rinculo verso una società autoritaria. Cioè, il contrario del riformismo classico, liberale o socialista.
È possibile che un giorno le forze politiche italiane si decidano ad accettare questo punto di vista riformista? È molto difficile che ciò avvenga. Perché? Per la semplice ragione che negli ultimi 15-20 anni l’opinione pubblica italiana e la cultura delle sue classi dirigenti si sono molto spostate su posizioni repressive e antigarantiste.
Come è successo? Con il procedere di due fenomeni paralleli: la sinistra, sul piano politico, ha stretto un patto di alleanza con la magistratura e persino con settori della polizia, rovesciando il proprio asse culturale. Per la verità la sinistra comunista, in parte permeata dai residui dello stalinismo, non aveva mai posseduto una grande cultura garantista. Mi riferisco al Pci. Che ha sempre avuto, nelle sue correnti maggioritarie, una tendenza legalitaria e "d’ordine".

Una correzione di rotta

Con una correzione però, piuttosto netta, maturata negli anni Ottanta, dopo il fallimento dell’unità nazionale e la svolta a sinistra di Berlinguer. In quel periodo il Pci si trovò a guidare la battaglia per alcune riforme molto importanti che modificarono profondamente la vita e le regole del carcere. Mi riferisco soprattutto alla legge Gozzini, che per la prima volta sradicava l’idea che il carcere fosse un luogo semplicemente di punizione e di vendetta. E tentava di affidargli una funzione sociale, umana. Gozzini era un parlamentare cattolico eletto nelle liste del Pci.


Comunque la cultura garantista era sempre stata un pilastro dell’ideologia dell’estrema sinistra da un lato e della sinistra socialista dall’altro. Entrambe nemiche giurate - proprio nel loro Dna - delle istituzioni totalitarie e in generale del potere giudiziario.
Negli ultimi quindici anni le cose sono cambiate radicalmente, anzi si sono rovesciate. Il rapporto strettissimo, quasi di identificazione, tra lotta politica e azione giudiziaria è diventato un elemento di identità della sinistra. E ha finito per condizionare non solo la sinistra moderata ma anche vasti settori "sovversivi". Anzi, per uno strano paradosso, con il fenomeno dei girotondi (2001-2003) e negli anni successivi col santorismo e col travaglismo, il cosiddetto giustizialismo ha finito per travolgere la sinistra "sovversiva" più ancora che quella moderata.
Questo è il primo dei due fenomeni. Il secondo fenomeno - di tipo opposto - è stato la rottura dell’alleanza tra magistratura e destra. Che però non ha prodotto un nuovo garantismo di destra - che in qualche modo compensasse la riduzione del garantismo di sinistra - ma semplicemente una forma di difesa del ceto politico. Il cosiddetto garantismo della destra è "selezionato" e ad personam.
Non ha neanche tentato di produrre leggi che attenuassero le pene e scalfissero le politiche repressive, ma si è attestato sulle leggi ad personam, o sulla ricerca delle immunità, accompagnando e compensando queste iniziative con una miriade di nuove regole e leggi che inasprivano le pene, riducevano le libertà, tiranneggiavano gli autori di piccoli reati o disobbedienze. Basta citare la Bossi-Fini, la Cirielli, le norme contro la recidiva, la legge contro gli spinelli, i decreti contro gli immigrati, e poi le miriadi di ordinanze cittadine per punire i mendicanti, o gli studenti, o gli avventori dei bar.


La concorrenza tra destra e sinistra sul piano della giustizia è diventata una corsa all’esaltazione dell’ordine pubblico e della repressione. La parola d’ordine è: certezza della pena. Nessuno si occupa di certezza della colpa. Persino nel dibattito che si è aperto sulle nuove norme per il "processo breve", nessuno ha voluto polemizzare sul fatto che quelle norme escludevano centinaia di reati e perciò erano delle cattive norme. Selettive e perciò ingiuste. Non lassiste e perciò ingiuste. La discussione, surreale, è avvenuta sul fatto che fossero o no sufficienti 8 o 9 anni per processare e punire il premier. Anche in questo caso la polemica politica ha finito con lo spingere ancora di più l’opinione pubblica verso l’idea che una buona società e una buona politica si fondano sulla capacità di impartire buone punizioni.
Qui, forse, è il punto vero. Può una società che punta a migliorare se stessa, a diventare più moderna, a sviluppare l’idea di libertà, avvitarsi su se stessa e ridurre il fine dello Stato all’obbligo della punizione? Dico ancora di più: che civiltà è una civiltà che considera la punizione un fatto di equità, di giustizia, addirittura un principio di regolazione della vita pubblica e delle relazione tra persone e gruppi?
Penso che sia la domanda delle domande. Nel senso che da come si riesce a dare una risposta dipende il futuro che si delinea per la nostra società. Nella seconda metà del Novecento erano stati fatti passi avanti molto grandi verso l’idea che la repressione e la punizione fossero comunque aspetti negativi del potere. Purtroppo stiamo assistendo a una inversione di tendenza. A un ritorno a valori e schemi che erano propri della prima metà del secolo scorso, cioè del periodo delle grandi dittature.

Non credete che la battaglia contro l’idea che la punizione sia un caposaldo dello stato di diritto sia la grande battaglia che deve combattere la sinistra libertaria? (Se esiste la sinistra libertaria...). Affrontandola con il coraggio di scontrarsi con gran parte dell’opinione pubblica e della stessa opinione pubblica di sinistra. E non credete che un punto di partenza sia il carcere? Io penso di sì. Il carcere è l’emblema della repressione, della punizione, della prepotenza dello Stato, della "presunta società giusta".
Finché esisterà e sarà considerato un bastione della convivenza civile, è difficile che la nostra civiltà possa fare dei passi avanti. L’abolizione del carcere, o la sua riduzione a fatto assolutamente d’emergenza e marginale, è un grande obiettivo. Molto meno utopistico di quello che si pensa. E molto più essenziale di quello che può sembrare. È un punto di partenza, credo, non un obiettivo lontano e secondario."

Eremo di Via Vado di Sole, L'Aquila, sabato 220 febbraio 2010