venerdì 30 agosto 2013

LINEA D’OMBRA : La penna e il tamburo

LINEA D’OMBRA : La penna e il tamburo

30 agosto 2013 alle ore 20.34
LINEA D’OMBRA : La penna e il tamburo

Giorgio Mariani   Lapenna e il tamburo Gli Indiani d'America e la letteratura degli Stati Uniti

il manifesto - 18 Aprile 2003

INDIANI RIBELLI AL CIECO DESTINO
Di felicità e di uguaglianza ci parla la gloriosaDichiarazione d'Indipendenza americana, che, però, contemporaneamente annunciala demonizzazione e lo sterminio degli indiani. L'ultimo libro di GiorgioMariani, "La penna e il tamburo", pubblicato da Ombre Corte

di ALESSANDRO PORTELLI

C'è una curiosa e feconda ambiguità nel titolo dell'ultimolibro di Giorgio Mariani, La penna e il tamburo. Gli Indiani d'America e laletteratura degli Stati Uniti (Ombre Corte, € 13: in una collana intitolata"Americane", diretta da Roberto Cagliero e Stefano Rosso - tral'altro, tutti dell'equipe americanistica della rivista "Acoma").Dunque: che cos'è il tamburo lo sappiamo, e sappiamo che c'entra con gliindiani (Tamburi lontani...). Ma la penna? La penna, ovviamente, è unostrumento di comunicazione che, come il tamburo, serve a mandare messaggi. Inquesto senso, la penna è un'alternativa al tamburo, e una sua continuazione conaltri mezzi generati dalla conquista, dalla modernizzazione,dall'acculturazione. Ma riferita agli indiani d'America, la penna evoca anchealtre associazioni: per esempio le penne che dalle mie parti noi bambinistrappavamo alle galline per mettercele in testa e giocare agli indiani (giàallora nessuno voleva fare il cowboy). In questo senso, allora, la pennasuggerisce che anche quando si mettono a scrivere - e con la frequenza einnovativa creatività che Mariani ci fa vedere - gli indiani non dismettono gliabiti tradizionali e, con i nostri mezzi, fanno i conti con l'immagine che noiabbiamo di loro. "La scrittura", dice Simón Ortíz, grande poetaamericano del pueblo di Acoma in Nuovo Messico, non è "un ponteattraversato, ma una parte del sentiero, della strada, del viaggio, su cui giàcammini". Il libro di Giorgio Mariani lo mostra con esemplare chiarezza,accompagnata ma non offuscata da un rigore critico e da un aggiornato dialogocon la storia della critica letteraria e le sue tendenze attuali. Ne vienefuori un libro che è al tempo stesso militante e, nel senso migliore dellaparola, accademico; un contributo non marginale alla nostra comprensione dellacomplessità della cultura degli Stati Uniti.
Il libro è sostanzialmente diviso in due parti. Come spiegaMariani nell'introduzione, la prima mette in luce il modo in cui l'identitàdegli Stati Uniti, non solo letteraria, "si è venuta formandocontrapponendosi a una identità indiana", peraltro "largamenteconcepita dal punto di vista della cultura dominante euroamericana, e legatadunque alle immagini più o meno stereotipate che quest'ultima ha proiettatosulle popolazioni indigene del Nord America". Qui Mariani riprendecriticamente una decisiva intuizione di Toni Morrison. In Giochi nel buio, lagrande scrittrice afroamericana ha dimostrato, infatti, che la "presenzaafricanista" incombe su tutta la letteratura degli Stati Uniti, non soloin quei testi in cui gli afroamericani sono presenti ma anche, forsesoprattutto, dove sono cancellati. Lo stesso vale, aggiunge Mariani, perl'altra fondamentale presenza sul suolo nordamericano, gli indiani (e il fattoche Morrison non ne faccia cenno fa capire quanto divisa, settorializzata, sial'identità americana anche nelle sue punte più alte di coscienza).
Il margine, dunque, diventa centro: gli indiani, i neri, nonsono un'alterità occasionale, un esotismo coloristico o una minaccia incombente,ma una condizione istitutiva del discorso dominante stesso. Un testo americanoin cui non esistono indiani o neri è un testo americano che ha preliminarmentecompiuto il lavoro invisibile di cancellarli. "Non a caso", scriveMariani, la Dichiarazione d'Indipendenza, testo fondante della libertàamericana, "menziona i nativi esclusivamente come quegli `spietatiselvaggi indiani', scatenati dalla corona inglese contro le colonie"; eaggiungerei che la sacra Costituzione degli Stati Uniti d'America menziona indianie neri solo come "all other persons", "tutte le altrepersone", conteggiate per tre quinti nella rappresentanza elettorale deibianchi ma privi essi stessi di voto e cittadinanza. In un discorso recente, invista della guerra all'Iraq, citando per intero il brano della dichiarazioned'Indipendenza (che continua: "gli spietati selvaggi la cui ben notaregola di guerra è un'indiscriminata distruzione di tutte le età, sessi econdizioni"), lo scrittore indiano americano Sherman Alexie diceva:"dunque gli Stati Uniti sono stati fondati, in parte, sulla demonizzazionedei Nativi Americani, ed è dannatamente facile giustificare lo sterminio didemoni, no?" Io aggiungerei: non è curioso che quella gloriosaDichiarazione sia per noi "occidentali" la affermazionedell'uguaglianza e del diritto alla felicità, e sia per gli indiani l'annunciodella loro demonizzazione e sterminio? Della uguaglianza e felicità di chiandiamo parlando.
D'altra parte, un testo americano in cui gli indianicompaiono è un testo americano che ha fatto o sta facendo il lavoro dirappresentarli come una proiezione di sé. Nel rapido ma convincente excursussulla storia della critica americana sulle rappresentazioni letterarie degliindiani, da Roy Harvey Pearce a Richard Slotkin, da D. H. Lawrence a LeslieFiedler, emerge come anche la critica al genocidio mantenga una decisivaambivalenza: da un lato, riconosce la presenza degli indiani e la violenzaesercitata su di loro dal progresso della civiltà euroamericana; ma,dall'altro, li legge solo come oggetto della soggettività dei loro distruttori,come problema per la coscienza di questi ultimi. Il senso di colpa è alimentatodalla proiezione dell'indiano in un passato dal quale è destinato a nonemergere perché la sua estinzione si è già consumata o è inevitabile.
In realtà, come Mariani eloquentemente ci ricorda, gliindiani non erano e non sono estinti, e hanno continuato in tutto il corsodella conquista a parlare ai loro conquistatori, anche a costo di doverlo farenella loro lingua, nei loro termini, con i loro strumenti. Tra le grandi figurea noi sconosciute della storia e della cultura americana, per esempio, dobbiamoannoverare quel William Apess che sta alla storia degli indiani un po'comeFrederick Douglass sta alla storia dei neri. Indiano Pequot (è la tribù che dàil nome alla nave di Moby Dick) convertito al protestantesimo, in tutta laprima metà dell'800 Apess continua a ribadire ai bianchi la loro comune umanitàcon gli indiani, e a ricordare all'America le sue stesse leggi, le sue stessenorme morali e religiose, che viola brutalmente nel modo come tratta gliindiani.
Mariani insiste giustamente sul fatto che Apess (comeFrederick Douglass) e tutte le voci degli indiani d'America nell'800 nonrovesciano meccanicamente il discorso della cultura dominante: se per i bianchigli indiani sono "l'Altro", Apess, Black Hawk, George Copway, SaraWinnemucca rifiutano di riconoscere un'alterità essenziale nei bianchi mainsistono a rivolgersi ad essi come esseri umani simili a sé. Anche per questo,gran parte delle autobiografie indiane che ci sono arrivate - da Black Hawk aBlack Elk (Alce Nero) - sono in realtà dialoghi, fra un narratore indiano e unascoltatore, copista, interprete, traduttore, scrittore bianco. Come ha scrittoArnold Krupat e come sviluppa Mariani, questi testi non ci danno l'autenticitàincontaminata di una cultura ma l'incontro fra due culture, il dialogo, ilconfronto, lo sforzo di spiegarsi e di capirsi.
Questo diventa ancora più vero in tempi più vicini a noi,quando - soprattutto a partire dalla fine degli anni `60 - esplode una speciedi "rinascimento letterario" degli indiani d'America, che producetesti ormai canonici per qualunque storia della letteratura americana, da HouseMade of Dawn di N. S. Momaday a Ceremony di Leslie Marmon Silko, da Winter inthe Blood di James Welch a Indian Killer di Sherman Alexie. Proprio a questoromanzo - un horror urbano intriso di rabbia politica e memoria storica -Mariani dedica un'analisi ravvicinata,mostrando l'intreccio complesso dellecategorie temporali tradizionali e occidentali, "tra universo mitico eframmentazione postmoderna", come recita il titolo del capitolo (e anchequi, un'ambiguità feconda: Indian Killer vuol dire sia killer indiano, siakiller di indiani. E il romanzo si muove in questo spazio, fra dolore per laviolenza subita e furore di violenta vendetta).
Alla fine, il mistero dell'identità del killer restairrisolto. Ma il mistero vero, come scrive Mariani, è un altro: "unaresistenza indigena alla colonizzazione euroamericana che scompagina lestrutture temporali delle 'grandi narrazioni' nazionali degli StatiUniti". E continua a farlo: "In quanto Nativo Americano, conoscointimamente la storia delle menzogne americane in tempo di guerra e di pace. Inparole povere, gli organi esecutivi e legislativi degli Stati Uniti hannoviolato tutti i trattati firmati con tutte le tribù Native, e solo l'interventooccasionale e imprevedibile del ramo giudiziario ha restituito e protettooccasionalmente la sovranità tribale. Perciò, come Nativo Americano, trovoparadossale che gli Stati Uniti vogliano fare la guerra all'Iraq perché viola itrattati... Trovo gravissimo che l'Iraq violi da dieci anni le risoluzionidelle Nazioni Unite, ma sono altrettanto scandalizzato dal fatto che gli StatiUniti hanno il coraggio di prendere una posizione di superiorità morale aproposito di trattati violati".
"E' tutto nel passato, direte voi", canta lamusicista Nativa Americana Buffy Sainte Marie, a proposito di altri trattativiolati, "ma succede ancora, qui ed oggi". Insomma, possiamo dire -con le parole di un personaggio di Indian Killer che sono anche le parole concui Mariani sceglie di chiudere il suo libro: "Non è finita affatto".


Diario, 4 luglio 2003

Racconto degli indiani. La difficoltà di essere nativi
di Francesco Dragosei

Nel suo noto saggio del 1992, Giochi al buio: il bianco e ilnero nella letteratura americana, la scrittrice Toni Morrison rileva comel’ossessiva e oscura presenza dei neri nella letteratura americana abbiacostituito la pietra fondamentale su cui i bianchi hanno edificato ladefinizione di se stessi, oltre che dei propri schiavi neri. Per esempio, lasensibilità americana per la libertà e per i diritti umani sarebbe stataparadossalmente stimolata dallo stato di schiavitù in cui erano tenuti gliafro-american. Partendo da quel libro della Morrison, Giorgio Mariani sipropone con questo suo bel saggio di dimostrare come, assieme a quella delnero, sia stata la figura dell’indiano a essere costantemente al centroprofondo della letteratura e dell’io americano. Presenza fondamentale, ma alcontempo così spesso deformata da potersi quasi parlare di un’invisibilità delNative American agli occhi dell’America bianca. I gradi di invisibilitàvarieranno nel corso della Storia. In una prima fase – al momento dellaconquista del continente – il Native American si vedrà negare l’appartenenza algenere umano, trasformato in creatura demoniaca e abietta, utile a giustificarel’intervento «civilizzatore» dei conquistatori. In una seconda l’indiano avràun riconoscimento di umanità, ma non quello della propria soggettività:continuando a essere considerato un oggetto dell’osservazione dei bianchi.Frutto di tale visione sarà, per esempio, The Indian in American Literature: unclassico scritto da Albert Keiser nel 1933, e che comincerà a gettare unaqualche luce di verità sulla figura del Native American. Altre difficoltà sullavia del riconoscimento dell’indiano sorgeranno dal doversi la sua culturaprettamente orale inserire nella gabbia di scrittura (e altro) della tradizioneletteraria europea. Difficoltà che saranno aggravate – per quanto riguarda iprimi scrittori indiani – dal doversi essi esprimere in una lingua non propria,e, in un secondo momento, dal non ricordare nemmeno più l’idioma originario.Serie di ambiguità che si riassumono nel dilemma di uno scrittore indianodiviso tra «la penna» della cultura di arrivo e «il tamburo» della cultura dipartenza.
Per fortuna, a riequilibrare un po’ la situazione, ci sarà aun dato momento la presenza di un certo numero di nuovi scrittori indiani(dalla Leslie Marmon Silko a Gerald Vizenor, a Sherman Alexie) che cercherannodi restituirci una visione realistica dell’indiano e della sua cultura. Dellaquale però – avverte Mariani – saranno parte talmente importante eimprescindibile i vari gradi di allontanamento da sé (e di assimilazione allacultura statunitense) che sarebbe un nuovo, grave errore non riconoscerli, nonprendere atto di quello che è ormai un complicato, stratificato (taloraambiguo) ibrido culturale. Un errore che, a questo punto, rappresenterebbel’ennesimo atto di disconoscimento dell’indiano. Di accettazione della suainvisibilità.
Recensione di Matteo Sanfilippo sulla rivista telematicaIPERSTORIA

Eremo Rocca S.Stefano venerdì 30 agosto 2013











mercoledì 21 agosto 2013

ARTE FACTUM : BRUCE STERLING SOPRAVVIVERE AI ROBOT


Recentemente c'è un ritorno di interesse per la vecchiateoria che vede i robot come nemici dei lavoratori manuali.
L'idea è che i robot possono portare via il lavoro agli esseri umani, chepossono perfino rendere irrilevante il concetto di classe operaia, perché chipossiede i capitali può usarli per crearsi un vantaggio politico permanenteattraverso l'high-tech.
Questa teoria pessimistica è vecchia quanto la parola robot, che apparve per laprima volta in un'opera teatrale di fantascienza nel 1920, R.U.R.
(che sta per Rossumovi univerzální roboti, cioè «I robot universali di Rossum»)e fu scritta a Praga da Karel Capek.
La sinistra leggenda sui robot è già presente in toto nell'opera originaria diCapek.I «robot» del drammaturgo ceco sono esseri umani artificiali, progettatiesplicitamente da «Rossum», un fanatico imprenditore high-tech, per sostituiregli operai umani nelle industrie.
La storia va a finire male, perché gli infaticabili robotspazzano via la razza umana, che ha perso ogni speranza e interesse per un futuro di umanità.
C'è di peggio: l'autore stesso, Karel Capek, morì nella disperazione,e suofratello Josef, che aveva inventato la parola robot, fu eliminato dai nazistinel famigerato lager di Bergen-Belsen.
La storia dei robot è molto pesante, perciò appare un po' naïf cominciare apreoccuparsi del rapporto tra robot e posti di lavoro nell'anno di grazia 2013.
Non è mai stato un segreto che i robot sono creati per distruggere i posti dilavoro degli esseri umani.
È palese che i robot sono al servizio degli interessi del capitale, e non dellavoro.
Dal 2008 questa tendenza è quanto mai evidente.
I «robot» sono ben poca cosa a confronto degli attacchi ai sindacati, dellachiusura delle fabbriche, dell'esternalizzazione dei posti di lavoro, deisalari ridotti per decreto, delle proclamazioni unilaterali dello stato diausterity e delle enormi disparità di reddito fra chi possiede i capitali e lapopolazione fisicamente produttiva.
Sono realtà concrete, perciò preoccuparsi troppo dei «robot» in condizioni cosìdrammatiche in sostanza non è altro che superstizione popolare, una metaforaletteraria.
Non è il modello di robot proposto da Capek novant'anni fa,una macchina in forma umana che toglie a un uomo i suoi mezzi di sussistenza eusurpa il suo ruolo di cittadino, operatore morale e specie, di cui dobbiamoaver paura.
Robot di forma umana e con nomi umani, come «Baxter» e «Asimo», sono solomanichini animati.
I «robot» avanzati dei giorni nostri sono una cosa diversa e più moderna.
Non sono macchine indipendenti e pensanti fatte con le nostre fattezze.
Sono le periferiche di enormi database wireless in banda larga, come peresempio la Google Car.
La Google Car non si guida da sola.
È fondamentale capire che la Google Car è un'automobile guidata da Google, che vienespostata con precisione attraverso lo spazio tridimensionale dalle smisurate esempre più accurate banche dati di Google Mappe.
Una Google Car non è un'entità indipendente e pensante.
È una macchina mobile che esegue un'enorme database composto dai movimentitridimensionali preregistrati eseguiti da molte altre auto prima di lei.
La Google Car è un'entità simile al traduttore di Google.
Il traduttore di Google non capisce l'inglese o l'italiano, ma ha un enormedatabase stocastico di testi tradotti dall'italiano all'inglese.
Il traduttore di Google non è in grado di scrivere niente dasolo, ma per certi testi che sono già stati tradotti migliaia di volte prima, èun ottimo traduttore.
Economico, efficiente e sempre disponibile.
Ne consegue che la Google Car può essere un autista eccellente su tragitti che sonostati percorsi da molti altri in passato.
Su certi percorsi molto trafficati, con mappe molto dettagliate, può essere unautista eccellente, probabilmente migliore di qualsiasi essere umano.
Perciò, se vi state chiedendo se una Google Car può togliere il lavoro a unessere umano che fa le consegne, la risposta è sì.
Non ci sarà un autista robot a forma di uomo dietro il volante.
La Google Car ideale non ha nemmeno un volante.
Il robot della Google Car è Google con le ruote.
Questa è automazione moderna in azione.
L'automazione non è una novità.
La domanda fondamentale è come saranno distribuiti tra gli esseri umani ibenefici di questa maggiore efficienza industriale.
E sappiamo già come vanno le cose in questo senso ultimamente: i benefici vannodritti ai più ricchi, mentre gli oneri ricadono sui poveri.
Karel Capek lo sapeva già nel 1920.
Nel tempo che è trascorso da allora, sembra che non abbiamo imparato quasinulla.
La Repubblica  21.08.2013  (Traduzione di Fabio Galimberti)

Eremo Rocca S.Stefano mercoledì  21 agosto 2013









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