lunedì 31 gennaio 2011

ET TERRA MOTA EST . L’Aquila : Piazza d’Armi

ET TERRA MOTA EST . L’Aquila : Piazza d’Armi


Un concorso internazionale per progettare l'area di piazza d'Armi all'Aquila: l'Ordine degli architetti della provincia dell'Aquila intende bandirlo con l'obiettivo di recuperare, riabilitare e ridisegnare luoghi urbani, tenendo conto di una maggiore sicurezza e di un differente dinamismo della vita nel capoluogo abruzzese devastato dal terremoto del 2009. Tre interventi operativi sono stati individuati nel corso di un incontro al quale hanno partecipato il sindaco, Massimo Cialente, l'architetto Antonio Riverso, membro dell'Uia (Unione Internazionale Architetti), l'architetto Mauro Latini, presidente della Federazione Architetti Abruzzo e Molise, Enza Blundo del Tavolo piazza d'Armi e l'architetto Marino Bruno.

Il concorso internazionale di progettazione (con bando Unesco) sarà patrocinato e sponsorizzato dall'Uia e le opere saranno realizzate con risorse economiche reperite dal Comune. E' previsto anche un concorso di idee per la parte antica dell'Aquila, in particolare l'asse di via Roma quale elemento di congiunzione tra piazza d'Armi, periferia (ora divenuta centrale) e piazza Palazzo, spazio pubblico da valorizzare quale luogo di memoria e identità della città e sede del Comune. Infine un workshop internazionale sul centro storico sarà presentato al Congresso Mondiale di Architettura che si terrà a Tokio l'anno prossimo.

Ma che cosa è stato Piazza d’Armi appena dopo il terremoto ?

scrive Valeria Manzottu di “Lungotevere .net “ “ Una pista d'atletica con all'interno centinaia di tende. All'ingresso una sbarra rossa e bianca come quelle che chiudono i parcheggi, solo che questa è completamente di legno ed è stata costruita dagli alpini. Ai lati della pista, invece, tutto attorno alle tende, decine di associazioni e servizi: gli scout, la Caritas, gli psicologi, le mense, la biblioteca, la protezione civile, i bagni, i vigili del fuoco, la polizia che fa da presidio con la camionetta.


Questa è piazza D'Armi, una delle più grandi tendopoli dell'Aquila con le sue mille e cento persone ospitate.

Con questo e con i prossimi post vorrei provare a raccontarvi, per quel poco che posso averne capito, cosa sia Piazza D'Armi, le cose belle che sono state organizzate nella tendopoli (come ad esempio Piazza D'Armi on line) e i mille problemi che una tendopoli di queste dimensioni (e di questa importanza, anche dal punto di vista politico/mediatico) purtroppo ha.

Oggi iniziamo con le due parti della tendopoli, la parte A e la parte B.

Prima però due parole per spiegare cosa sia Piazza D'Armi e quale sia il suo reale valore. Il terremoto è avvenuto alle 3.32 del 6 Aprile. Il Tg1 delle 20.00 del 6 Aprile apre con David Sassoli che conduce il telegiornale in diretta da Piazza D'Armi. Se Onna è stata la città della completa distruzione, Piazza D'Armi ha invece ricoperto, anche mediaticamente, il ruolo di centro del terremoto. Piazza D'Armi come simbolo per il terremoto che aveva colpito tutta la città.

Subito dopo il terremoto le persone sono state alloggiate nelle tende disposte all'interno della pista d'atletica e tantissime associazioni si sono inserite nella tendopoli per dare una mano. In quelle ore serviva tutto, ma essere a Piazza D'Armi voleva anche dire essere un'associazione importante, riconosciuta, che "serve". In parte questa dimensione che potremmo definire "politica" e di immagine è rimasta anche oggi.

Il problema è che a un certo punto le tende non sono più bastate e dalla pista di atletica si è iniziato ad occupare il campo da calcio. Quello che appare oggi è questo: una parte della tendopoli, il lato A, con tanti servizi e poi una rete di ferro verde e dall'altra parte, nel lato B, ancora tante tende ma nessun servizio. Aggiungete che le tende che si trovano in questa seconda parte sono occupate soprattutto da persone anziane e da extra comunitari.


Il risultato, almeno dal punto di vista dell'immagine, è quella di una tendopoli divisa in persone di classe A e altre di classe B. Fortunatamente anche le molte associazioni che gestiscono la tendopoli (e che si riuniscono più volte al giorno per ragionare su come migliorare la vita dei terremotati) si sono accorti di questa situazione e stanno cercando di spostare alcuni dei servizi nella zona B.”

Una esperienza quella della tendopoli di Piazza d’Armi che ha visto nascere anche un giornale on line fatto da giovani adolescenti http://www.piazzadarmi.it.gg/Newsletter.htm

E che continua come scrivono i redattori nei loro post : Diario Post tendopoli:


Ciao a tutti!! come credo ben sapete la tendopoli di piazza d'armi è stata smantellata..e questo ci ha spezzato seriamente il cuore..ma noi con la mente e un pezzo di cuore siamo rimasti ancora là..l'idea è di far continuare sia il sito ke il giornalino..e questo porterà alla non-dimenticanza di tutto quello ke abbiamo vissuto..ci manca tutto..ci mancano tutti..ci manca la nostra quotidianità ke ormai avevamo appreso dopo 5 mesi di convivenza..noi però nn ci lasceremo!! rimarremo sempre in contatto..xk noi siamo un pezzo di storia ke ricorderemo PER SEMPRE!!

(Alessandra giornalista Piazza D'Armi Post)

Ora ci siamo ritrovati, quasi tutti, nella caserma degli allievi della Guardia di Finanza a Coppito, è quasi un mese che siamo qui e la Protezione Civile Nazionale si sta impegnando ad assegnare gli alloggi tanto attesi del Progetto C.A.S.E., mentre saremo in queste nuove abitazioni assisteremo alla ricostruzione della città dell'Aquila che sarà un'impresa colossale, la quale durerà moltissimo tempo e porterà le amministrazioni pubbliche ad un lavoraccio enorme!! Io sono uno dei "giornalisti" di questo sito e del giornale e mi viene da dire "Speriamo bene" intanto il nostro "amico" terremoto si fa risentire ogni tanto, per farci capire che non se ne va, comunque che dobbiamo fare??Si va avanti, è la natura!!


Rinnovo infiniti grazie a tutti i volontari che ci hanno aiutato, a tutti gli organi di protezione civile

e a tutte le persone che hanno gestito il campo di Piazza D'Armi o che hanno aiutato in qualche modo lo "stare bene" della popolazione aquilana!!(Renzo)

Tanto che "Schegge di vetro" ( http://scheggedivetro.blogosfere.it/2009/08/il-grido-di-alex-scuote-piazza-darmi-aquilani-rialziamoci.html )ne parlava scrivendo questa nota e richiamando l’attenzione su quella iniziativa che sembrava essere , anzi era un grido, una chiamata proprio al “ combattimento “:

Non scappate amici miei, combattete! Con queste parole voglio parlare al cuore dei miei fratelli Aquilani. Sono qui per chiedervi, anzi spronarvi, di vedere tutto questo NON come la fine di un qualcosa ma, come l'inizio di qualcos'altro. Voglio ricordarvi che non è la prima volta che la nostra città viene devastata dal terremoto e non è la prima volta che viene ricostruita. Pertanto, questo dovrà darci speranza per un nuovo inizio. Abbiamo la possibilità di ricostruire un'altra volta la nostra città, da capo, e renderla più bella di prima.


Queste parole non sono state pronunciate da Berlusconi o dalla Pezzopane, ma da Alex, uno dei ragazzi che ha dato vita a Piazza d'Armi online, il giornale (anche in versione web) che da qualche settimana racconta la vita in una delle più grandi tendopoli dell'Aquila vista con gli occhi dei ragazzi che si trovano lì.

Il 6 Aprile ha cambiato profondamente la vita di tutti noi. Sono bastati solo 22 secondi a segnare la storia di una città, di un popolo. I ricordi di quei momenti ora sono indelebili nei nostri ricordi. Ora io non sono qui per ricordare quei momenti tragici a quali, ognuno di noi, è legato, ma per lanciare un messaggio alla mia gente, quella gente che come me ha perso gran parte della loro vita quel giorno.

Con questo messaggio mi rivolgo soprattutto agli uomini, alle donne, ai ragazzi e alle ragazze dell'Aquila, che sono nel pieno delle forze, ma anche agli anziani, che di forza non ne hanno tanta, anche se qualche eccezione in giro l'ho vista, a fare la loro parte per far tornare "L'Aquila a volare". Non scappate amici miei, combattete! L'Aquilano vero è quello con la testa dura più del marmo, quello che non abbandona la propria casa per nulla al mondo, il vero Aquilano è quello che è attaccato alla sua terra! Voglio concludere che non sono quattro case a fare la città ma, a fare la città sono gli uomini che ci vivono, ciò significa che: tanto forti saranno gli aquilani e tanto forte sarà L'Aquila!


Nei giorni scorsi ho incontrato Alex e Renzo, due dei principali redattori di Piazza d'Armi online nel loro container/redazione. Nei prossimi giorni cercherò di intervistarli per capire come mai hanno dato vita a questa iniziativa e cosa vorrebberò ottenere con i loro articoli. “

Ma già prima del terremoto gli aquilani sapevano che cosa farne di Piazza D’Armi Infatti dopo 120 anni e 11 mesi, l’area di piazza d’Armi dell’Aquila è tornata di proprietà del Comune. L’atto formale di consegna alla Municipalità capoluogo é stato firmato ieri, nell’aula del consiglio comunale, dal sindaco Massimo Cialente e dal direttore della filiale abruzzese dell’Agenzia del Demanio, Cesare Sarchiapone.

Era stato concesso all’Esercito Italiano con un atto firmato ad Ancone nel 1888 dall’allora sindaco di L’Aquila Ciolina e aveva lo scopo di permettere l’acquartieramento delle truppe .


“L’amministrazione militare si impegnava a realizzare la caserma, con le annesse strutture, potendo contare su un contributo di 500.000 lire messo a disposizione dal Comune, il quale doveva anche concorrere alle spese per l’acquisto, a beneficio dei militari, dell’area di piazza d’Armi occorrente per le esercitazioni. Tale area doveva ricadere "a monte della via Romana, detta Piano di Sant’Antonio, in adiacenza alla via Romana stessa e al paese di San Giuliano". Il Municipio, inoltre, doveva impegnarsi a somministrare alla caserma 34 metri cubi di acqua al giorno e a costruire le fogne.

Scriveva la redazione di “ L’Aquila in movimento “ : “ In virtù della riacquisizione della proprietà, potranno essere attuati i progetti già predisposti dai tecnici del settore opere pubbliche dell’amministrazione comunale, tra cui quelli per la realizzazione di un parco urbano con piste ciclabili e di jogging, di aree giochi per i bambini, di un teatro all’aperto e per la sistemazione viaria dell’anello stradale che circonda piazza d’Armi, compreso l’allargamento e il ripristino del doppio senso di circolazione lungo viale Corrado IV. Nel dirsi soddisfatto per la positiva conclusione dell’operazione, Cialente ha annunciato che, non appena ci saranno fondi disponibili, saranno previsti interventi per ristrutturare gli impianti sportivi.

Una storia lunga 120 anni….


Con l’iniziativa odierna, l’area di piazza d’Armi torna definitivamente nella proprietà dell’Amministrazione comunale dell’Aquila, 120 anni e 11 mesi dopo il trasferimento della medesima zona dalla Municipalità all’Amministrazione militare.

La simbolica consegna delle chiavi, dal direttore della filiale abruzzese dell’Agenzia del Demanio, Cesare Sarchiapone, al Sindaco del Capoluogo abruzzese, Massimo Cialente, conclude materialmente il procedimento per la riacquisizione dell’area. L’intesa era stata siglata dal Demanio e dall’assessore alle opere pubbliche, Ermanno Lisi, lo scorso 19 dicembre. Il Sindaco ha rivolto un ringraziamento alla Giunta – e in particolare allo stesso assessore Lisi e all’assessore alle Finanze e al Patrimonio, Silvana Giangiuliani – e agli uffici comunali che hanno lavorato per questa operazione. “


L’idea di rilanciare quello che doveva essere il progetto su Piazza d’Armi è nata immediatamente dopo il terremoto tanto che Enza Blundo scriveva : Dopo l'incontro svoltosi il 28 marzo2010 scorso ad iniziativa di alcuni cittadini aquilani, desiderosi di attivarsi per il recupero e la riqualificazione di uno spazio tanto grande e tanto trascurato come piazza d'Armi, oggi così importante per i risvolti sociali delle sue possibili destinazioni.Il gruppo organizza un nuovo momento di incontro per sabato 17 aprile, a partire dalle ore 15.


I partecipanti saranno coinvolti nella raccolta di proposte per l'utilizzo futuro dello spazio e invitati ad essere "Progettisti per un Giorno". Ognuno a suo modo potrà infatti disegnare il suo ideale recupero di piazza d'Armi, con appositi colori, su carte fornite dagli organizzatori. Ci sarà spazio per i bambini che potranno costruire i loro aquiloni e fare altri giochi. Si continuerà nella pulizia dell'area degradata raccogliendo i rifiuti.

Occasioni di aggregazione e partecipazione come queste, consentono di recuperare uno spazio abbandonato a se stesso, ma soprattutto testimoniano un diffuso bisogno di socializzazione(come quello che tutti abbiamo sperimentato nel passarci secchi di macerie o nel ritrovarci nei parchi con i bambini, felici di liberare palloncini accompagnati dalle nostre speranze. Dimenticare per un attimo il proprio orticello e dedicarsi a un bene collettivo, fa assaporare il privilegio di immedesimarsi nell’altro, abbandonando l'individualismo che in un contesto sociale difficile come quello attuale, renderebbe impossibile la vera ripresa della città).


Rifiutando ogni possibile strumentalizzazione, tanti aquilani vogliono quindi riprendere in mano le redini della loro vita e contribuire fattivamente alla rinascita del loro territorio duramente colpito, senza intermediari, non da spettatori ma da protagonisti.

Per questo, i cittadini di piazza d'Armi chiedono che a poter fruire di questo spazio sia anzitutto la collettività con il recupero e l'ampliamento degli spazi verdi trascurati, per soddisfare il proprio bisogno di socializzazione, lavoro, cultura e svago. I promotori auspicano il coinvolgimento della cittadinanza all'iniziativa e tornano a chiedere il diritto di condividere le scelte istituzionali sui progetti già esistenti per piazza d'Armi, ovvero: il ripristino delle strutture sportive,l'insediamento del mercato ambulante di piazza Duomo e l'attuale progetto dell'arch. Mario Cucinella per un teatro eco-sostenibile da realizzare in loco (http://www.edilportale.com/news/2010/02/architettura/mario-cucinella-disegna-un-teatro-per-l-aquila_17905_3.html),

Partecipate con:palloni, buste colorate per la spazzatura e per gli aquiloni, fili resistenti al vento, pennarelli, guanti da lavoro, secchi, chi vuole, la carriola e.... spazio alla fantasia"

E infine va detto ancora che su Facebook potete trovare anche un gruppo : “ GLI AMICI DI PIAZZA D'ARMI L'AQUILA 23-30/05.....”


Eremo Via vado di sole , L'Aquila,
lunedì 31 gennaio 2011

SILLABARI : Giovani

SILLABARI : Giovani

"Non siamo i giovani". Con questo slogan il direttore Mario Adinolfi e i suoi compagni di viaggio tutti rigorosamente under 40 hanno varato il nuovo settimanale "The Week", in edicola dal 5 novembre 2010 . Il periodico nasce da un gruppo di giornalisti di nessunotv/REDTV e l'editore è La Locomotiva. Prima tiratura 130mila copie. sotto la testata riporta la dicitura: "Il settimanale degli italiani nati dopo il 1 gennaio 1970". E Adinolfi spiega: "Pochi sanno che dopo la data che noi abbiamo scelto come fatidica sono nati 28 milioni di persone nel nostro paese, poco meno della metà dell'intera popolazione.

Eppure questi sono cittadini di serie b, condannati all'irrilevanza in qualsiasi posto di potere, destinati a una condizione di eterno precariato non solo lavorativo ma esistenziale, utilizzati per lo scarico di qualsiasi costo della collettività, a partire da quello previdenziale. Veniamo identificati come 'i giovani', ma solo in Italia alle soglie dei quarant'anni o persino oltre si può essere definiti 'giovani'. Noi non siamo i giovani. Siamo quelli che pagano sempre, che non hanno diritto a un lavoro decente, a una prospettiva pensionistica, a emanciparsi dalla famiglia d'origine, ad acquistare una casa, a generare dei figli.


Per rappresentare tutto questo un gruppo di italiani nati dopo il 1 gennaio 1970 ha deciso di mandare in edicola un settimanale scritto solo da italiani nati dopo il 1 gennaio 1970, rappresentando così un punto di vista inedito. A fronte di un 50% di popolazione espressa, abbiamo rappresentanza appena per il cinque per cento in Parlamento, alla guida di comuni capoluogo, province e Regioni, alla direzione dei giornali, alla guida delle grandi aziende.

Proveremo a dare forza a quel cinque per cento e ad accrescere la percentuale di rappresentanza. Racconteremo i bisogni, le paure, le istanze, le passioni, i sogni, i modelli positivi e quelli negativi, indicheremo dei nemici. Questo sarà The Week". E' già attivo il sito che progressivamente diventerà il quotidiano online collegato al settimanale cartaceo.

Siamo un paese vecchio, con vertici logori che non hanno alcuna intenzione di investire sui giovani. Questa è la cantilena che sentiamo un po' ovunque. Ma quanti si impegnano effettivamente per proporre progetti di rottura con l'andamento del nostro Paese?

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Sessantaquattro pagine a colori (compreso un retro-giornale dedicato al poker), grafica accattivante e diversi articoli interessanti, scritti rigorosamente da under 40. Foliazione particolare, mi aspettavo una rivista più compatta, ma nel complesso promossa.

Su questa iniziativa scrive Barbara Spinelli in :GIOVENTU’ BRUCIATA di Barbara Spinelli

Filed under: Cronache,Pensiero — vbinaghi @ 4:32 pm Tags: Barbara Spinelli, Precariato giovanile, (Repubblica 8 dicembre 2010)


Ha ragione Mario Adinolfi a ricordare che è cosa insultante oltre che menzognera, parlare di giovani senza futuro o d’una sola generazione depredata. Un trentasettenne precario non è più giovane, e il fatto che gli tocchi pregare per essere riconosciuto (questa l’etimologia di precario) è lo scandalo che vien mascherato chiamandolo giovane. Una catena di generazioni fatica a preparare prima l’età matura, poi l’anziana. I nati dopo il ’70 sono la metà degli italiani: 28 milioni 150.000, non più solo figli ma padri che della vita attiva non conoscono che contratti brevi o niente contratti. Che s’imbarcano in lavori low cost o addirittura gratuiti, come denunciato da Michele Boldrin, professore di economia alla Washington University di St Louis (Il Fatto, 11 novembre).

Lavorare gratis è una pratica in espansione, per chi non ha forze e soldi per fuggire all’estero. È una regressione, nei rapporti sociali e nel riconoscimento reciproco fra l’Italia che ha un posto e l’Italia che ha semplici attività, menzionata di rado. I giovani fanno questa scelta volontariamente, consapevoli d’essere immersi nella Necessità: dare il proprio tempo senza salario li rende visibili, consente di “accumulare punti”. Alla fine del tunnel, chissà, il riconoscimento verrà e avrà gli occhi di un lavoro decentemente pagato. Lo sfruttamento s’è fatto banale: è un’usanza dettata dal principe (un bando dell’autorità). È la morale del tempo presente.

Se questa è la realtà, si può capire come la riforma Gelmini sia solo una miccia – così Ilvo Diamanti, lunedì su Repubblica – che ha acceso risentimenti acuti, non limitati all’istruzione che pure è “crocevia nella vita” d’ognuno. Analoghe micce anti-riforme si moltiplicano, a occidente, ma cruciali non sono le riforme, così come per Heidegger l’essenza della tecnica non è la tecnica ma quel che essa disvela, provoca. Nella rivolta dei giovani francesi la pensione è un pretesto: essi sanno che il paese invecchia, che i soldi dello Stato sociale non bastano. Se protestano con tanto accanimento è perché qualcos’altro è in gioco: il disagio, più radicale, riguarda l’esistere stesso; il perché e il come si vive l’oggi e si pensa, tremando e temendo, il futuro.


In tutti i paesi industrializzati il futuro è programmato penosamente. Adinolfi lo spiega bene nella rivista Week, iniziata il 25 novembre. Basandosi su ricerche dell’Istat e del Center for Research on Pensions and Welfare Policies (Torino), Adinolfi fornisce cifre cupe sulla metà d’Italia che vive il precariato. Al momento, chi va in pensione o sta andandoci è sicuro di ottenere circa il 95 per cento della media dei compensi degli ultimi anni.

Non così il precario nato dopo il ’70: la percentuale crolla dal 95 al 36. Fra 20 anni, quando andrà in pensione, riceverà – se avrà lavorato 32 anni su 40 – 340 euro al mese. Duro in tali condizioni fabbricare futuro, generare figli che non potremo sostenere e non ci sosterranno, impoveriti anch’essi.

I rivoltosi vedono questo, guardandosi allo specchio: uno scenario che mette spavento. Che ti porta a dire, visto che a nulla è servito il titolo di studio: non resta che farmi menare dalla polizia. Esibisco la mia bile nera, come gli eroi di Moby Dick che è uno dei miei libri-vessillo. Non mi resta, come in Gioventù Bruciata di Nicholas Ray, che il chicken run. Il chicken run è la gara mortale che James Dean ingaggia coi compagni: vince chi guida l’auto sino all’orlo del burrone, tentando di saltar fuori in extremis. Chi fugge la prova è un pollo, un vile. È significativo che a costoro si neghi oggi perfino il diritto a morire, quando sei attaccato a un tubo senz’averlo deciso.


Il chicken run che impregna il tumulto è argomento tabù. Se ne ragiona molto sul Web – l’agora di queste generazioni – ma poco sui giornali. C’è una complicità tacita, che impedisce alla verità d’esser disvelata. Non ne parlano gli imprenditori, che del lavoro precario o gratuito profittano; e neanche i sindacati, tutori dei pensionati. Nella Cgil, il 53 per cento degli iscritti aderisce al Sindacato dei pensionati italiani (Spi). Se la crisi dice qualcosa – sulla crescita che nei paesi sviluppati s’abbasserà stabilmente, sul clima da proteggere, sullo Stato impoverito – questo qualcosa dovrà implicare nuove distribuzioni fiscali, e anche una mutazione di linguaggio. Riformismo, accordi bipartisan: sono vocaboli inani, se usati solo per dissimulare tagli. Tutti hanno rovinato l’istruzione, il patto bipartisan già esiste (da Luigi Berlinguer a Mussi, Moratti, Gelmini). L’accordo non va cercato tra partiti ma tra l’Italia che è nello Stato sociale e quella che ne cascherà fuori. Non di patti bipartisan c’è bisogno, ma di dirigenti (politici, imprenditori, sindacati, accademici) che queste cose le guardino in faccia.

Anche il popolo del disagio ha sue responsabilità. È un punto su cui Boldrin insiste crudamente: “Cosa volete fare, ragazzi e ragazze? A favore di cosa siete scesi in piazza, oltre che contro il ddl Gelmini? Perché è questa, non altra, la questione che dovete avere il coraggio d’affrontare”. Il risentimento è comprensibile, ma il tema del merito sollevato dalla riforma resta. E che significa rottamare un ceto politico, se non invocare palingenetiche facce giovani? Perché difendere lo status quo universitario, finito in marasma? È come desiderare la crescita squilibrata che nel 2007 causò la crisi economica nel mondo.


Si disserta spesso in Italia della sindrome Peter Pan, che ti reclude nei focolari paterni o materni: secondo l’Istat, il 68 per cento vive coi genitori sino a 35 anni. Lo stesso succede in paesi cattolici dove la famiglia sostituisce il Welfare: Spagna, Irlanda. Ma la vista psicologica è corta, occulta le cause strutturali. Scrive Vincent Venus, direttore del Giovani Federalisti Europei a Berlino, che questa è una generazione diversa: ricorda gli anni ’40. Non una conflagrazione militare le ha aperto gli occhi; ma la crisi del lavoro, del pianeta, dell’economia, è un’esperienza interiore di guerra: “È una sfida, quella odierna, che i nostri genitori hanno ignorato. Il compito è talmente vasto che somiglia a quello della generazione postbellica. Unica differenza: non si tratta solo di ricostruire la società, in Europa, ma di mantenere in vita il Welfare”. Pur rispettando i conti, oggi esistono cose da preservare: la solidarietà sociale, il lavoro, il pianeta. La distruzione non è più creativa.

Fu così anche nel 1942, quando il Welfare prese la forma di un piano comune di lotta al bisogno: il piano di William Beveridge. “È proprio adesso, con la guerra che tende a eliminare ogni genere di limitazioni e differenze, che si presenta l’occasione. (…) Un periodo rivoluzionario nella storia del mondo è il momento più opportuno per fare cambiamenti radicali invece di semplici rattoppi” (Beveridge, La libertà solidale, Donzelli 2010).

Molti si domandano come mai il malcontento non sia esploso prima di Berlusconi, visti gli errori della sinistra. Domanda sensata, ma vista parziale. Lo spirito dei tempi modellato da Berlusconi e dalle sue Tv ha dilatato al contempo i risentimenti dei dannati e lo sprezzo dei salvati, sostituendo lo Stato sociale con la compassione o l’ignoranza. Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, ha detto in Tv: “Se un uomo a 37 anni non può pagarsi il mutuo è colpa sua: vuol dire che è un fallito”. Nemmeno gli avversari del ’68 usavano aggettivi simili.

Negli italiani è stata svegliata nell’ultimo decennio, e nutrita, ingigantita, la parte peggiore. È come quando, nel febbraio 1932, il socialdemocratico Kurt Schumacher denunciò l’attacco di Goebbels ai socialdemocratici-partito dei disertori: “Tutta la propaganda nazionalsocialista è un costante appello alla brutta canaglia interiore (Schweinehund) che abita ciascun uomo”.


Eremo Via vado di sole , L’Aquila,
lunedì 31 gennaio 2011

SILLABARI : Lussuria

SILLABARI : Lussuria


La sapienza dei padri della Chiesa fin dai primi secoli ha saputo distinguere tra alcuni peccati gravissimi - passibili di «scomunica» e di una lunga penitenza pubblica prima della riammissione nella comunità cristiana: apostasia, adulterio, omicidio, aborto... - ma legati a un singolo gesto e altri peccati o vizi «capitali» che sono invece espressione di una patologia spirituale molto più profonda.


Comportamenti generati da «pensieri malvagi» che in certo senso minano la personalità stessa di chi li commette, facendolo finire in una spirale di depravazione sempre più disumana: autentici «vizi dell’anima», che nascono dal cuore e che a partire dal cuore vanno contrastati. Tra questi la lussuria, il rapporto deformato con il sesso, una passione che porta a ricercare il piacere per se stesso, il godimento fisico avulso dallo scopo al quale è legato.


Il piacere sessuale è il più intenso piacere fisico, un piacere complesso che investe il corpo e la psiche, un piacere inerente all’atto sessuale, di cui tuttavia costituisce solo un aspetto. Ora, se il piacere è cercato nella «quantità», nella compulsione, nell’eccedenza, l’incontro sessuale viene ridotto alla sola genitalità, al piacere fisico e all’orgasmo, l’interesse si focalizza sull’organo specificamente implicato in esso e lì si rinchiude, senza aperture ad alcuna finalità. L’unico scopo diventa possedere l’altro per farlo strumento del proprio piacere: l’altro è ridotto al suo corpo, alle sue parti erotiche e desiderabili, diventa un oggetto, addirittura un elemento feticistico... Ma l’energia sessuale è unificante quando è rivolta all’amore, alla comunicazione, alla relazione, cioè a una «storia» d’amore; ridotta all’erotismo, invece, essa frammenta, divide, dissipa il soggetto.

Chi è preda della lussuria assolutizza la propria pulsione e nega la relazione con l’altro, compiendo così una scissione della propria personalità e riducendo l’altro a una «cosa», prima ancora che a una merce. Le pulsioni erotiche, non più ordinate e armonizzate nella totalità del sé, sfogano la propria natura caotica e selvaggia, fino a sommergere l’altro, indotto nella fantasia o nella realtà - quasi sempre con prepotenza - all’atto sessuale: la lussuria si manifesta là dove il piacere sessuale è incapace di sottostare alle elementari regole della dignità propria e altrui.

Eppure questa passione nasce nello spazio della sessualità, dimensione umana positiva tesa alla comunione tra uomo e donna: la complessità del piacere sessuale non riguarda solo la genitalità e l'orgasmo, ma coinvolge la persona intera, con tutti i suoi sensi. Linguaggio d'amore, manifestazione del dono di sé all’altro, il piacere sessuale è coronamento dell’unione e, come tale, resta inscritto nella storia di un uomo o di una donna: appare nella pubertà ed è accompagnato dalla fecondità, per poi conoscere una stagione di sterilità, fino alla sua estinzione. La lussuria, percontro, consiste nell’intendere il piacere come realtà scissa dai soggetti, dalla loro storia d’amore, ed è perciò una ferita inferta a se stessi e all’altro. Quando si separa il corpo dalla persona, allora l’esercizio della sessualità è sfigurato, degenera, sfocia in aridità, diventa ripetizione ossessiva, obbedisce all’aggressività e alla violenza. L’amore, che è dono di sé e accoglienza dell’altro, è smentito radicalmente dalla lussuria, che vuole il possesso dell’altro; e così il rapporto sessuale, che dovrebbe essere un linguaggio «altro», sempre accompagnato dalla parola ma anche eccedente la parola stessa, diventa la morte del linguaggio, della comunicazione, impedendo di fatto ogni comunione. Viviamo in un contesto culturale, costruito ad arte da molti mass media e sfruttato dalla pubblicità, in cui l’unica realtà non oscena è quella dell’erotismo: è ormai inevitabile imbattersi in immagini erotiche, che si imprimono nella mente per riemergere in seguito e stimolare fantasie perverse. Per reagire a tale clima ammorbante dovremmo acquisire la consapevolezza che la lussuria toglie la libertà: chi ne è schiavo finisce per asservirsi all’idolo del piacere sessuale, un idolo ossessionante che innesca una pericolosa dipendenza. Chi è preda della lussuria è come malato di bulimia dell’altro, lo cosifica in modo reale nella prestazione sessuale o in modo virtuale nell’immaginazione. La vera perversione in atto nella lussuria è infatti quella che induce a concepire l’altro come semplice possibilità di incontro sessuale, come mera occasione di piacere erotico. Come non notare oggi il fenomeno della senescenza precoce dell’esercizio sessuale nelle nuove generazioni? Come ignorare l’esercizio di un eros virtuale, la pornodipendenza da internet? Per questa strada ci si incammina verso il baratro di un libidogramma piatto, si uccide l’eros per sempre.

Una gestione sana del piacere sessuale comporta che la presa di coscienza di un corpo sessuato si accompagni alla volontà di incontrare l’altro nella differenza e nel rispetto dell’alterità: si tratta di integrare la sessualità nella persona, attraverso l’unità interiore della persona nel suo essere corpo e spirito. Certo, richiede una padronanza di sé, ma questa è pedagogia alla vera libertà umana: o l’essere umano domina le proprie passioni oppure si lascia da esse alienare e ne diventa schiavo. Il lussurioso riceve come salario del proprio vizio una tristezza e una solitudine più pesanti, alle quali pensa di riparare entrando nella spirale lussuriosa per nuove esperienze, nuovi incontri, nuovi piaceri: sì, una spirale «dia-bolica» che separa sempre di più piacere da relazione e fecondità. Per questo la disciplina interiore, anche nello spazio della sessualità, è sempre opera di libertà e, quindi, di ordine e di bellezza: è uno sforzo di umanizzazione capace di trasformare anche l’esercizio della sessualità in un’opera d’arte, in un capolavoro che corona una storia d’amore.

"La tristezza della lussuria" di Enzo Bianchi del 19 gennaio 2011 oubblicato su La Stampa


Eremo Via vado di sole , L'Aquila,
lunedì 31 gennaio 2011

domenica 30 gennaio 2011

BIBLIOFOLLIA : Lussuria libraria

BIBLIOFOLLIA : Lussuria libraria


Scrive Giorgio Manganelli "Nella mia vita fin dall'infanzia ho sempre praticato il peccato di lussuria libraria. Ho amato i libri di amore passionale, poligamico, vizioso, incontinente, maniacale. Ho sedotto e stuprato libri. Ho abbandonato libri in stato interessante. Ho ucciso libri per gelosia, altri ho scelto per odio di altri libri che non volevano amarmi."

Si macchia dello stesso peccato Umberto Eco che così formula la sua biblioteca ideale “Messieurs les anglais, je me suis couchè de bornie heure. Tu quoque, alea! Licht, mehr Licht uber alles. Qui si fa l’Italia o si uccide un uomo morto. La guerra è una cosa troppo seria perché la vecchia guardia muoia. Soldato che scappa, arrestati sei bello. Fratelli d’Italia, ancora uno sforzo. L’aratro che traccia il solco è buono per un’altra volta. L’Italia è fatta ma non s’arrende. Ben venga maggio, combatteremo all’ombra. Allons enfants de la patrie, ma l’amore no. Spesso è subito sera. Tre donne intorno al cor e senza vento. L’albero a cui tendevi la nebbia agli irti colli. Non chiedere la parola impazzita di luce. Dall’Alpi alle Piramidi andò in guerra e mise l’elmo. Fresche le mie parole nella sera pei quei quattro scherzucci di dozzina. Sempre libera sull’ali dorate. Addio monti sorgenti dall’acque, ma il mio nome è Lucia. O Valentino, Valentino storno! Guido io vorrei che la ciel si scoloraro. Conobbi il tremolar, l’arme, gli amori. Esterina, bocca di sorgiva. De la musique, où marchent des colombes. Fresca e chiara è la notte, e il capitano. M’illumino, piobove. Benché il parlar sia indarno, li ho visti a Pontida. Alle cinque della sera mi ritrovai per una selva oscura. Settembre, andiamo dove fioriscono i limoni. Sparsa le trecce morbide, una spronata, uno sfaglio: questi sono i cadetti di Guascogna. Qui comincia l’avventura del Pelide Achille. Aprile: ei fu. Tintarella di luna, dimmi che fai. Gioia, figlia dell’Eliso, guai a chi me la tocca. In principio la terra era siccome immobile. Eppure il dottor Livingstone si muove! Contessa, cos’è la mia vita: tre civette sul comò”.

Che però precisa “[…] Ci sono due tipi di libro, quelli da consultare e quelli da leggere. I primi (il prototipo è l’elenco telefonico, ma si arriva sino ai dizionari e alle enciclopedie) occupano molto posto in casa, son difficili da manovrare, e sono costosi. Essi potranno essere sostituiti da dischi multimediali, così si libererà spazio, in casa e nelle biblioteche pubbliche, per i libri da leggere (che vanno dalla Divina Commedia all’ultimo romanzo giallo). I libri da leggere non potranno essere sostituiti da alcun aggeggio elettronico. Son fatti per essere presi in mano, anche a letto, anche in barca, anche là dove non ci sono spine elettriche, anche dove e quando qualsiasi batteria si è scaricata, possono essere sottolineati, sopportano orecchie e segnalibri, possono essere lasciati cadere per terra o abbandonati aperti sul petto o sulle ginocchia quando ci prende il sonno, stanno in tasca, si sciupano, assumono una fisionomia individuale a seconda dell’intensità e regolarità delle nostre letture, ci ricordano (se ci appaiono troppo freschi e intonsi) che non li abbiamo ancor letti, si leggono tenendo la testa come vogliamo noi, senza imporci la lettura fissa e tesa dello schiermo di un computer, amichevolissimo in tutto salvo che per la cervicale. Provate a leggervi tutta la Divina Commedia, anche solo un’ora al giorno, su un computer, e poi mi fate sapere.

Il libro da leggere appartiene a quei miracoli di una tecnologia eterna di cui fan parte la ruota, il coltello, il cucchiaio, il martello, la pentola, la bicicletta. Il coltello viene inventato prestissimo, la bicicletta assai tardi. Ma per tanto che i designer si diano da fare, modificando qualche particolare, l’essenza del coltello rimane sempre quella. Ci sono macchine che sostituiscono il martello, ma per certe cose sarà sempre necessario qualcosa che assomigli al primo martello mai apparso sulla crosta della terra. Potete inventare un sistema di cambi sofisticatissimo, ma la bicicletta rimane quella che è, due ruote, una sella, e i pedali. Altrimenti si chiama motorino ed è un’altra faccenda.

L’umanità è andata avanti per secoli leggendo e scrivendo prima su pietre, poi su tavolette, poi su rotoli, ma era una fatica improba. Quando ha scoperto che si potevano rilegare tra loro dei fogli, anche se ancora manoscritti, ha dato un sospiro di sollievo. E non potrà mai più rinunciare a questo strumento meraviglioso. La forma-libro è determinata dalla nostra anatomia.”


Ma come scrive Roberto Ridolfi i libri si amano o non si amano “Non credo che nessuno possa sospettarmi di una bibliofilia esteriore e deteriore. Amo i libri per il loro contenuto, e il loro contenuto so, forse, gustare non meno di alcuno altro uomo; ma li amo di più se la veste esterna dà loro un più degno e proporzionato castone. Se tutto ciò che è bello è, per definizione, buono ed amabile, perché non dovrei io amare pur questa forma e, direi, questa occasione di bellezza? Si ama una donna per il suo spirito e la sua grazia, ma molto anche per la bellezza del corpo e moltissimo per l’eleganza del vestire e dello adornarsi. L’anima e la carne: siamo ancora a questo dissidio, ch’è armonia qualche volta; e anche nella corporea veste di un bel libro è cosa rara e stupenda goderne, quando accada, di tale armonia.

Item, il mio cupido amore per certe prime edizioni non è, o è in minima parte, dovuto a mera avidità di bibliofilo; né tutte parlano ugualmente al mio spirito. Un’edizione originale del Poliziano, dell’Ariosto, del Montaigne, a me dicono molto più della editio princeps della Divina Commedia, sebbene neppure a questa possa accostarmi senza venerazione. Le prime edizioni che amo fino a soffrirne sono quelle che gli autori stessi curarono, vegliandone giorno per giorno i progressi; e su quei fogli videro primamente, con commosso animo, sciamare per il mondo i loro fantasmi di poesia e di bellezza. Io credo che le cose s’impregnino dell’amore e delle sofferenze degli uomini; e in nessuno altro modo, né altrove come su quelle pagine, mi sento altrettanto vicino all’anima di uno scrittore.”


Eremo Via vado di sole , L'Aquila 29 Gennaio 2011

COTTO E CRUDO . CINEMA: IL VINO VA IN SCENA A ROMA, VENERDI' PRESENTAZIONE DI 'VINALIA'

COTTO E CRUDO . CINEMA: IL VINO VA IN SCENA A ROMA, VENERDI' PRESENTAZIONE DI 'VINALIA'


(ASCA) - Roma, 26 gen naio 2011- Dall'unione di due ''maestri'', del vino e della pellicola, il vino diventa cinema d'autore. Con la supervisione alla cinematografia del tre volte premio Oscar, Vittorio Storaro, e la direzione scientifica di Luca Maroni, nasce ''Vinalia'', il corto che verra' presentato in anteprima assoluta venerdi' 28 gennaio nel corso della serata di gala della rassegna ''SensofWine'' al Palazzo dei Congressi dell'Eur (ore 18.30).


Prodotto da Giovanni Storaro, figlio del grande Vittorio, con la regia e il montaggio di Lorenzo Peluso e la recitazione di Vittoria Belvedere e Massimo Foschi, ''Vinalia'' rappresenta la prima parte di un progetto piu' ampio: ''Vini d'Italia'', che vedra' la realizzazione di 15 DVD (Mithril Production S.R.L.) della durata di 40' sulle zone vinicole italiane divise per regioni. Vittorio Storaro e' la figura artistica cui e' assegnato il compito di supervisionare l'ideazione artistico creativa del progetto, mentre Luca Maroni rappresenta la figura intorno alla quale esso si articola: sara' lui il Virgilio di un viaggio attraverso l'Italia enologica. Il vino per la prima volta al centro di un grande progetto culturale che esalta il nostro territorio e la sua produzione con l'obiettivo di realizzare un grande atlante visivo, non solo dei terroir vinicoli italiani, ma del nostro ''bel Paese'', attraverso le suggestioni per immagini di un grande maestro dell'arte cinematografica come Vittorio Storaro.


''Da sempre - spiega Vittorio Storaro - il mio vocabolario visivo parla in termini di Luce e Ombra di Colori e Elementi di sole e di luna e li ho sempre applicati al racconto di una storia e quindi per la prima volta mi si apriva la possibilita' di applicare il mio vocabolario visivo alla natura. Una frontiera nuova a cui mi sono immediatamente dedicato coinvolgendo dei giovani professionisti che erano stati anche tra i miei migliori allievi dell'Accademia dell'Immagine de L'Aquila e con cui abbiamo condiviso l'impostazione creativa del lavoro sul Lazio che e' la prima parte della collana di 15 Dvd che racconteranno questo mondo del vino tra mito e realta' in un percorso di ombra nell'inconscio della nostra storia antica e di luce del nostro cosciente odierno tecnologico e d'avanguardia''.


''Fino ad oggi - afferma Luca Maroni - il vino non e' mai stato rappresentato e comunicato attraverso la sua luce e la sua natura e con i produttori posti al centro della scena''.

''Il mio sogno era quello di poter rappresentare e divulgare l'Italia del Vino come fenomeno e spettacolo naturalistico, luminoso, come esempio di bellissime umanita' virtuosamente applicate. Di avviare con questo strumento comunicativo un Rinascimento Culturale Agricolo e Naturalistico per il nostro paese''.

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(Asca)


Eremo Via vado di sole , L'Aquila,
domenica 30 gennaio 2011

MEDITERRANEO : Albania


MEDITERRANEO : Albania

All'indomani degli scontri del 21 gennaio scorso il giornalista e intellettuale albanese Fatos Lubonja ha pubblicato un commento sul sito della rivista culturale albanese Përpjekja .


Quello che sta succedendo questi giorni in Albania ha diviso gli albanesi in due grandi gruppi. Del primo fanno parte quelli che pensano che ciò che sta avvenendo è il risultato di due pessime persone: Sali Berisha e Edi Rama. Per coloro che la vedono così – che sono per lo più militanti dei partiti in conflitto o loro sostenitori – il male sparirà quando uno di questi due uomini sarà definitivamente sconfitto. Esiste però anche un altro gruppo di non minore importanza, di cui fanno parte anche simpatizzanti e membri dei due partiti, di persone sempre più convinte che questi due uomini altro non sono che il volto di un male maggiore e che il Paese si salverà solo quando la nostra lotta contro il male che questi due uomini rappresentano li cancellerà dalla vita politica.

Ma prima di dire la mia su questo vorrei analizzare la dinamica delle tragiche vicende di venerdì 21 gennaio.


I disordini sono cominciati con la messa in onda del video Meta-Prifti, dove si vede chiaramente che due uomini importanti della politica albanese fanno affari corrotti tra loro, con un linguaggio dal quale traspare che tali trattative sono una consuetudine tra i due e che mette a nudo quanto avviene dietro la facciata delle cosiddette istituzioni del nostro stato e del nostro Paese.

Innanzitutto sulla questione vi è da chiedersi: la pubblicazione di quel video è stata qualcosa di spontaneo, dettato dalle logiche dell'informazione, o era più che altro una mossa pensata a tavolino da parte dell'opposizione? Temo che il fatto che Dritan Prifti non l'abbia consegnato alla magistratura ma a una televisione filo-socialista, il fatto che sia stato reso pubblico ora e non mesi fa quando era stato registrato, il taglio del video in un punto molto delicato in maniera tale che nell'affare risultasse coinvolto anche il premier Berisha e anche il fatto molto rilevante che questioni del genere non sconvolgono certo politici come Rama, che detiene il potere proprio grazie a questo tipo di affari, lascia pensare che tutto ciò sia volutamente pensato per dare inizio al movimento di protesta. Fa pensare nella direzione della non-spontaneità anche il fatto che l'opposizione abbia annunciato la manifestazione subito dopo la trasmissione del video: o ti dimetti, o noi protestiamo e non ci riteniamo responsabili se i manifestanti perdono il controllo.

Intanto da parte di Berisha è arrivato un fiume di insulti e minacce in Parlamento, parte di un odio infinito e metafora del suo desiderio di annientare moralmente e politicamente gli oppositori - che l'avevano accusato - ma anche appello ai militanti e sostenitori del suo partito. Le dimissioni di Meta non sono state interpretate da Berisha come un segno di responsabilità e colpevolezza. Tutt'altro, sono state accompagnate da dichiarazioni di vendetta nei confronti di chi Berisha riteneva responsabile di questa manipolazione ingiusta. La battaglia verbale, quindi, stava preparando una battaglia concreta. Questo è poi avvenuto il giorno della manifestazione.


Seguiamo la dinamica di quel giorno. Per chi ha seguito gli accadimenti da vicino e sulla tv, è chiaro che quella manifestazione era stata pensata per arrivare a degli incidenti. Per evitare la responsabilità legale gli organizzatori hanno pensato ad una trovata molto furba: avevano avvisato infatti che la folla indignata poteva perdere il controllo, ma la responsabilità non sarebbe stata loro, bensì del governo che non voleva dare le dimissioni.

Per quelli che hanno vissuto da vicino questi anni del post comunismo albanese, questo è uno scenario noto: la destabilizzazione del Paese per mezzo della folla sino a quando il governo in carica dà le dimissioni. Berisha conosce molto bene questo modo di fare, poiché ne ha fatto uso in prima persona. Di conseguenza non penso che le cose stiano come dichiara la maggioranza, e cioè che l'opposizione aveva intenzione di mettere in atto un golpe, di occupare le istituzioni e di dichiarare destituito il premier Berisha. La manifestazione mirava a costringere Berisha a dare le dimissioni e ad accettare elezioni anticipate, creando un clima tale da costringere anche gli internazionali a chiedere questo. Un Berisha dimissionario sarebbe stato costretto a portare il Paese alle elezioni per consegnare il potere ai suoi oppositori.

L'uso di tale strategia si deve anche al fatto che l'opposizione è ormai convinta - e non le si può dar torto del tutto – che non può ottenere il potere per mezzo di libere elezioni, poiché Berisha provvederà a truccarle.


Nel momento in cui si sono visti i manifestanti con in mano pali e bottiglie molotov, scagliate contro la polizia, nel momento in cui li si è visti incendiare macchine e sfasciare marciapiedi, è stato chiaro che la persona più soddisfatta dal bilancio che avrebbe avuto quel venerdì 21 gennaio sarebbe stato il premier Berisha. La violenza di quei manifestanti arrivati da ogni dove - che solo socialisti non sembravano - sarebbe bastata a far capire agli albanesi e agli stranieri che tipo di opposizione o meglio che tipo di leader ha l'opposizione in Albania.

Ad un certo punto durante la manifestazione in molti abbiamo avuto l'impressione che le forze dell'ordine si fossero ritirate per dare il via libera all'accesso alla sede del governo, ricordandoci che è stato proprio il 14 settembre 1998, in un episodio simile, che Berisha prese il potere. Questo a quanto pare lo sapevano anche coloro che dirigevano la manifestazione. Naturalmente loro avevano lasciato libera la folla affinché causassero più disordine possibile ma dall'altra parte nessuno aveva intenzione di farsi carico della responsabilità di tali mosse e quantomeno di occupare la televisione pubblica per poi apparire sugli schermi e dichiarare vittoria, come in seguito Berisha ha accusato l'opposizione di aver tentato di fare.

Gli organizzatori della manifestazione avevano pensato di giustificare tutto con l'esplosione della rabbia dei cittadini a causa del governo corrotto e incolpando le forze dell'ordine di un intervento violento, nonostante la polizia, in base a quanto è stato trasmesso sugli schermi, avrebbe dovuto intervenire molto prima.

Di conseguenza, la battaglia davanti alla sede del Governo, più che una rivolta per costringere Berisha a dimettersi, seguendo l'esempio tunisino, assomigliava di più a una dimostrazione di forza – in diretta su tutte le televisioni nazionali - dove senz'altro c'era anche spontaneità dei giovani, colti da un istinto combattivo (come del resto, sull'altro fronte, i membri della guardia repubblicana), ma vi era anche gestione dei rispettivi architetti dietro le quinte. A mio avviso era qualcosa che grazie all'amplificazione mediatica dei disordini, mirava a raggiungere il massimo profitto con il minor costo possibile. Non perché non si volesse ottenere di più, ma perché la maggior parte della popolazione conosce bene i due burattinai e non si sarebbe lasciata coinvolgere in questa vicenda, come d'altronde è successo.

FIN QUI L'OPINIONE DI FATUS LUBONJA che davanti agli incidenti sulla piazza continua :


Ho reagito con stupore al momento in cui si è iniziato a sparare. Cosa stava facendo l'architetto dentro alla sede del Governo? Ho avuto l'impressione che fossero degli spari in aria, un'avvisaglia per spaventare il gruppo che per l'ennesima volta tentava di entrare nella sede del Governo. Non mi sarei mai immaginato che quelli fossero proiettili veri.

Guardando quella folla si poteva davvero credere che se dentro il cortile non ci fossero state le forze dell'ordine sarebbe entrata e avrebbe commesso atti di vandalismo gridando “vittoria, vittoria”, ignorando il fatto che quella sarebbe stata una grave sconfitta. Tuttavia la domanda, legittima, è: ma non c'era altro modo per porre resistenza? I manifestanti stavano tirando pietre e non stavano sparando con armi da fuoco, questo non ridimensionava la loro pericolosità? Secondo me c'erano sicuramente altri modi per controllarli, anche eventualmente permettendo loro di entrare nella sede del Governo e di commettere atti di vandalismo. Ma mai sparargli addosso.

Si sarebbe potuto ad esempio utilizzare gli idranti, che abbiamo visto durante la manifestazione. Si potevano utilizzare proiettili di allenamento, o proiettili di plastica, senza causare la morte di alcuno. C'era anche un modo per fermare il vandalismo: Edi Rama e i suoi compagni avrebbero potuto mettersi a capo della folla, fermarla, mettersi con il petto contro il portone della sede del Governo. Oppure mettersi in contatto con i vertici della Guardia repubblicana invitandola ad avere un po' di pazienza, che sarebbero intervenuti loro a fermare i manifestanti.


Ma il problema è che entrambe le parti avevano bisogno di quei morti. Il Governo per dimostrare quello che aveva espresso in parlamento, che avrebbe cioè represso i nuovi figli della nomenclatura comunista, mentre l'opposizione aveva bisogno di questi morti come uno strumento d'accusa e anche come bandiera da sventolare nelle prossime battaglie. Ecco perché sono dell'idea che i morti sono vittime di entrambe le parti: perché Edi Rama e i suoi compagni hanno guidato la folla verso la trappola e Sali Berisha ha fatto il resto.

Quello che è successo quasi subito dopo le uccisioni, mentre le parti iniziavano ad accusarsi a vicenda, senza alcuna inchiesta, era la continuazione di quella battaglia immorale sui morti, uccisi e strumentalizzati. I funzionari, e Berisha, nonostante avrebbero dovuto sapere che alcuni membri della Guardia repubblicana avevano sparato in orizzontale, si sono affrettati ad affermare che i morti erano stati uccisi dagli stessi manifestanti in modo da incolpare il governo. Invece i manifestanti hanno sottolineato la variante più criminale: l'uccisione con snyper a sangue freddo. Neanche la morte di tre persone non ha fermato questi uomini nella loro immoralità, irresponsabilità, e neanche le loro manipolazioni, accuse e fandonie reciproche.

Quello che è seguito a quel venerdì è una continuazione di questa lotta immorale e irresponsabile, nella quale la responsabilità sta pesando sempre più forte sul governo e su Berisha personalmente, senza però che i suoi oppositori facciano del loro meglio per evitare azioni inopportune.

Il rifiuto da parte del governo di eseguire l'ordine di cattura emesso da parte della procura di Tirana per sei capo-ufficiali della Guardia repubblicana, ha inaugurato una nuova crisi istituzionale che fa comprendere sempre più a fondo come l'uso della forza e della violenza stanno diventando prioritari in questo Paese. Le accuse nei confronti della procuratrice generale di essere parte di un golpe e l'iniziativa di Berisha di istituire una commissione parlamentare, che può anche sospendere le competenze della procuratrice su questa tragedia, de facto vuol dire che Sali Berisha sta acquisendo le competenze di un leader onnipotente, che controlla tutti, ma che non si fa controllare da nessuno, dando alla fragile democrazia albanese il volto di un autoritarismo puro.


E anche la gratificazione pari a uno stipendio mensile, per quei poveri poliziotti che sono rimasti feriti per mano di altri poveri manipolati, manipola e polarizza ulteriormente la situazione. I poliziotti in quanto dipendenti pubblici hanno svolto il loro dovere ed è inammissibile che vengano gratificati come se fossero dei mercenari di un determinato schieramento politico. Almeno non in questo momento. In queste condizioni l'opposizione viene quasi proclamata illegale, costretta alla scelta se lottare con la sua gente per destituire Berisha oppure mollare, e rassegnarsi, rimanendo isolata. La spirale di questo conflitto senza arbitro ci potrebbe portare verso il caos e la destabilizzazione e una sorta di guerra civile o verso l'instaurazione di una dittatura del più forte.

In nome di tale prospettiva questi schieramenti ci invitano a partecipare alle manifestazioni di questa settimana cercando di convincerci che stiamo scendendo in piazza per la democrazia e la libertà. Ma non abbiamo già visto quanto abbiano a cuore la democrazia, la libertà, l'onestà, e la giustizia, e la felicità degli altri? Io sono dell'idea che non solo non occorra aderire alle loro manifestazioni, ma che vadano boicottati e denunciati entrambi. E' arrivato il momento in cui l'Albania sforni un movimento che faccia uscire la gente in strada a manifestare pacificamente, ma sempre con più forza, non per sostenere uno di questi due leader che ci ritroviamo, ma per mandarli a casa entrambi.


Ecco perché ritengo che bisogna eliminare dalla scena politica leader come Sali Berisha e Edi Rama, non solo come persone, ma per quello che rappresentano. Perché Sali Berisha e Edi Rama non rappresentano solo la loro sete di potere, il patriarcato e l'autoritarismo. Ma anche la cultura della violenza, dell'immorale, dell'ipocrisia, della corruzione, dell'illegalità che stimolano in questa società. Sono anche gli oligarchi che li appoggiano, con i quali rubano e condividono il patrimonio pubblico, sono anche i media che hanno costruito come strumenti che istigano alla violenza, alla manipolazione, all'inganno, sono anche gli intellettuali e i giornalisti che hanno comprato, sono anche i trafficanti e i criminali con cui collaborano, sono anche gli ignoranti e i mercenari che pagano, che gli servono come strumenti con cui uccidere. La loro condanna dovrebbe accompagnarsi con movimenti di purificazione all'interno dei partiti.

A qualcuno questa proposta sembra irrealistica, dato che le persone e i fenomeni che ho menzionato sono onnipresenti nella società albanese. Questo è vero, però d'altro canto è molto realistico dato che sono in molti in questo Paese a pensarla così, oggi più che mai. Ed è proprio la maturità della cittadinanza di queste persone, che sono tantissime, che sta facendo sì che gli irresponsabili e gli assetati di soldi e potere ci trascinino verso grandi tragedie. Per questo mi ha fatto molto piacere, quando mentre scrivevo questo commento, ricevere sulla posta elettronica un'e-mail da persone che rappresentano proprio questa parte della società che "rifiuta di diventare parte del clientelismo del militantismo partitico” e che ha iniziato a firmare una petizione che chiede le dimissioni sia di Sali Berisha sia di Edi Rama “ritenuti pubblicamente quali responsabili politici della morte di tre persone innocenti e di centinaia di feriti”. L'ho firmato subito e l'ho condivisa come meglio ho potuto.

Pubblicato originariamente sul blog di Fatos Lubonja, Përpjekja , il 25 gennaio 2011 (tit. orig. Ku po shkojmë, ç’duhet të bëjmë)

Traduzione per Osservatorio Balcani e Caucaso: Marjola Rukajhttp://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Crisi-in-Albania-i-due-gruppi

Fatos Lubonja

Scrittore e intellettuale albanese, è editore della rivista letteraria Përpjekja, pubblicata a Tirana. Nato nella capitale nel 1951, laureato in fisica, fu arrestato nel 1974 per associazione e propaganda contro il regime e condannato a 17 anni di lavori forzati. Venne scarcerato solo nel 1991. Oggi è noto nel suo Paese e all’estero come uno degli analisti più lucidi e critici del periodo enverista, dello stalinismo e delle contraddizioni della nuova democrazia albanese. E’ stato l’unico intellettuale nel Paese a schierarsi contro la guerra in Iraq, scelta che gli è valsa un’accusa per diffamazione. Nel 2002 gli è stato conferito il Premio Moravia, seguito l’anno dopo dal Premio Herder. In Italia ha pubblicato Diario di un intellettuale in un gulag albanese (ed. Marco, 1994) ed Intervista sull'Albania ( Il Ponte, 2004)





Eremo Via vado di sole , L'Aquila,
domenica 30 gennaio 2011