mercoledì 29 febbraio 2012

CONFINI : La metafisica è finita filosofiamo in pace

CONFINI   :   La metafisica è finita filosofiamo in pace


Un problema preliminare, con cui la filosofia contemporanea non può non fare i conti se vuole esercitarsi ancora come filosofia, e non solo come saggistica o come industriosità storiografica sul pensiero del passato, né ridursi a pura disciplina ausiliaria delle scienze positive (come epistemologia, metodologia, logica), è quello posto dalla critica radicale della metafisica. Bisogna sottolineare qui l’aggettivo «radicale», perché solo questo tipo di critica della metafisica costituisce davvero un problema preliminare ineludibile per ogni discorso filosofico consapevole della propria responsabilità. Non sono radicali quelle forme di critica della metafisica che, più o meno esplicitamente, si limitano a considerarla come un punto di vista filosofico fra altri, una scuola o corrente, che per qualche ragione filosoficamente argomentata bisognerebbe oggi abbandonare. […]

La critica della metafisica è radicale, e si presenta come un problema preliminare ineludibile, una vera e propria «questione di metodo», là dove si formula in modo da non colpire solo determinati modi di far filosofia o determinati contenuti, ma la stessa possibilità della filosofia come tale, come discorso caratterizzato da un suo statuto logico e anche, inseparabilmente, sociale. Il maestro di questa critica radicale della metafisica è Nietzsche. Secondo lui, la filosofia si è formata e sviluppata come ricerca di un «mondo vero» che potesse fare da fondamento rassicurante alla incerta mutevolezza del mondo apparente. Questo mondo vero è stato di volta in volta identificato con le idee platoniche, con l’aldilà cristiano, con l’ a priori kantiano, con l’inconoscibile dei positivisti, finché la stessa logica che aveva mosso tutte queste trasformazioni - il bisogno di cercare un mondo vero autenticamente tale, capace di resistere alle critiche, di «fondare» - ha condotto a riconoscere la stessa idea di verità come una favola, una finzione utile in determinate condizioni di esistenza; tali condizioni sono venute meno, e questo fatto si esprime nella scoperta della verità come finzione.

Il problema che Nietzsche vede aprirsi a questo punto, in un mondo dove anche l’atteggiamento smascherante è stato smascherato, è quello del nichilismo: dobbiamo davvero pensare che il destino del pensiero, una volta scoperto il carattere non originario, ma divenuto e «funzionale», della stessa credenza nel valore della verità, o della credenza nel fondamento, sia quello di installarsi senza illusioni, come un «esprit fort», nel mondo della lotta di tutti contro tutti, nel quale i «deboli periscono» e si afferma solo la forza? O non accadrà piuttosto, come Nietzsche ipotizza alla fine del lungo frammento sul Nichilismo europeo (estate 1887), che in questo ambito siano destinati a trionfare piuttosto «i più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi di fede estremi, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso e di assurdità»?

Nietzsche non sviluppa molto di più questa allusione ai «più moderati», ma è probabile che, come appare dai suoi appunti degli ultimi anni (gli stessi da cui proviene questo frammento sul nichilismo), l’uomo più moderato sia per lui l’artista, colui che sa sperimentare con una libertà che gli deriva, in definitiva, dall’aver superato anche l’interesse alla sopravvivenza. […]

La questione circa la fine della metafisica, la sua improseguibilità, non è ineludibile solo o principalmente in quanto si riesca a dimostrare che essa costituisce il movente, esplicito o implicito, delle correnti principali della filosofia novecentesca; ma soprattutto perché pone in discussione la stessa possibilità di continuare a filosofare. Ora, questa possibilità non è minacciata tanto dalla scoperta teoretica di altri metodi, altri tipi di discorso, altre fonti di verità ricorrendo alle quali si potrebbe fare a meno di filosofare e di argomentare metafisicamente. Ciò che getta una luce di sospetto sulla filosofia come tale e su ogni discorso che voglia riprenderne su piani e con metodi diversi le procedure di «fondazione», di afferramento di strutture originarie, principi, evidenze prime e cogenti, è la smascherata connessione che queste procedure di fondazione intrattengono con il dominio e la violenza.

Il riferimento a questa connessione, sebbene possa apparire accidentale, è invece quello che, preso sul serio, rende davvero radicale la critica della metafisica; senza di esso, tutto si riduce a sostituire semplicemente alle pretese verità metafisiche altre «verità» che, in mancanza di una dissoluzione critica radicale della stessa nozione di verità, finiscono per riproporsi come istanze di fondazione. È difficile, come pure si sarebbe tentati di fare richiamandosi a Hegel, opporre a una tale «questione di metodo» l’invito a provare a nuotare gettandosi in acqua, cioè a cominciare di fatto a costruire argomentazioni filosofiche cercando se non sia possibile, contro ogni eccesso di sospettosità, individuare alcune certezze sia pure relativamente «ultime» e generalmente condivise. Tuttavia l’invito a gettarsi in acqua, l’invito a filosofare,non può provenire dal nulla; esso si richiama necessariamente all’esistenza di una tradizione, di un linguaggio, di un metodo. Ma le eredità che riceviamo da questa tradizione non sono tutte equivalenti: tra di esse c’è l’annuncio nietzschiano della morte di Dio, la sua «esperienza» più che teoria, della fine della metafisica e, con essa, della filosofia.

Proprio se si vuole accettare la responsabilità che l’eredità della filosofia del passato ci impone, non si può non prendere sul serio anzitutto la questione preliminare di questa «esperienza». Proprio la fedeltà alla filosofia è ciò che impone di non eludere, anzitutto, la questione della sua negazione radicale; questione che, come si è visto, è indistricabilmente connessa a quella della violenza.

Fonte  : GIANNI VATTIMO  La metafisica è finita filosofiamo in pace  La Stampa 23 febbraio 2012

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, mercoledì 29 febbraio 2012

AD HOC : Il fisco rigoroso di Quintino Sella Un convegno dell'Accademia dei Lincei

AD  HOC   :  Il fisco rigoroso di Quintino Sella Un convegno dell'Accademia dei Lincei


L'attualità di Quintino Sella meritava di essere valorizzata nell'ambito delle celebrazioni per i 150 anni dell'Unità nazionale italiana. E così ha fatto l'Accademia nazionale dei Lincei, con la Fondazione Sella, in un convegno, affiancato da una mostra, aperti alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Rosario Villari ha rivisitato magistralmente la personalità complessiva di Sella. A suo avviso lo statista piemontese, nella costruzione dello Stato unitario nell'ambito della Destra storica, «ha acquistato e mantiene una permanente attualità storica nella coscienza civile del nostro Paese per la profonda convinzione della necessità di superare lo squilibrio tra l'Italia e le nazioni più sviluppate, per la subordinazione della fortuna politica personale all'interesse della comunità nazionale, per la disposizione a verificare alla luce dei fatti la validità delle dottrine, per la novità dell'impegno sulla questione romana e sul rapporto tra lo Stato e la Chiesa, per la concezione universalistica del ruolo di Roma capitale, per il tentativo di collegare la riforma politica alle grandi tradizioni scientifiche della prima età moderna, per la considerazione non soltanto repressiva, infine, della emergente questione sociale».
Su questa tonalità tanti illustri studiosi del convegno linceo hanno argomentato come Sella, che visse solo 57 anni (1827-1884), esprima paradigmi di perdurante attualità per il progresso istituzionale e scientifico dell'Italia.

Come scienziato e docente universitario, Sella concepì la scienza e la tecnoscienza anche come politiche per allineare l'Italia a Francia, Germania, Inghilterra dov'egli aveva studiato dopo la laurea in ingegneria idraulica a Torino. Perciò contribuì al varo dei politecnici di Torino e di Milano, alla formazione di un qualificato corpo tecnico statale, alla prima elaborazione della carta geologica d'Italia, come al convegno ha argomentato soprattutto il linceo Giorgio Dal Piaz.
Sella rifondò e presiedette anche, dal 1874 al 1884, l'Accademia dei Lincei, per fissare in Roma capitale quel metodo promosso agli inizi del 1600 dai lincei Federico Cesi e Galileo Galilei. Nel solco della cultura umanistica italiana, Sella affiancò alla Classe di scienze fisiche, matematiche e naturali anche quella di scienze morali, storiche e filologiche, che nel primo decennio di vita dei Lincei fu presieduta da Terenzio Mamiani della Rovere. L'apertura europea e internazionale di Sella, condivisa da Mamiani, portò anche alla cooptazione ai Lincei di soci stranieri, tra i primi Darwin e Mommsen.
Come statista Sella salvò lo Stato unitario dalla disintegrazione finanziaria che molti avevano considerato inevitabile. Ministro delle Finanze tre volte (marzo - dicembre 1862, settembre 1864 - dicembre 1865, dicembre 1969 - luglio 1873) il suo contributo al pareggio di bilancio, sia pure raggiunto dopo di lui, fu cruciale. La sua politica si caratterizzò per il taglio della spesa corrente e per l'aumento delle entrate senza penalizzare gli investimenti necessari al nuovo Stato. Questi portarono, anche a causa degli interessi e fino al 1870, a un aumento del debito pubblico sul Pil che poi fu ridotto di ben 15 punti percentuali già nel 1874.
La sua politica fiscale, che improntò a lungo il sistema tributario italiano, si fondò su varie (e talvolta nuove) imposte, tra cui quella di ricchezza mobile e quella sul macinato. Tassò anche i titoli del debito pubblico, allora in gran parte posseduti da benestanti. Sella voleva che l'obbligazione fiscale creasse «le minori noie possibili», ma che pagando ciascuno il dovuto «ne abbia vantaggio tanto la giustizia come l'erario». Vendette beni demaniali a finalità non pubblica e beni confiscati all'asse ecclesiastico, dando anche in concessione privata taluni servizi. Riuscì perciò a finanziare, con selettivo rigore, investimenti infrastrutturali per la crescita e l'istruzione pubblica.
Molti in passato hanno espresso forti apprezzamenti per Sella e tra questi ricordiamo Benedetto Croce e Luigi Einaudi, due lincei che contribuirono alla rinascita della Accademia, soppressa dal fascismo nel 1939, ed alla nascita della Repubblica. Il loro sentire trova riscontro in quanto il presidente emerito della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi ci ha scritto in occasione del Convegno: «È con profondo rammarico che mi vedo costretto a mancare l'appuntamento che l'Accademia Nazionale dei Lincei dedica alla straordinaria personalità di Quintino Sella: statista, politico, economista, scienziato, amministratore e organizzatore lungimirante, dalla cui vicenda pubblica l'Italia contemporanea può ancora trarre insegnamento».
Quintino Sella (1827-1884)   Alberto Quadrio Curzio Il Corriere della sera  21 febbraio 2012


Eremo Via vado di sole, L’Aquila,  mercoledì 29 febbraio 2012

COTTO E CRUDO : L’imperialismo cambia nome: «land grabbing»

 COTTO E CRUDO  : L’imperialismo cambia nome: «land grabbing»


Qualche giorno fa si è letto che un tribunale della Nuova Zelanda, dando torto al governo, ha fermato la vendita a una società cinese di 16 aziende agricole per 166 milioni di dollari. Episodi come questo si vanno moltiplicando. Si è calcolato che negli ultimi 5 anni siano Stati acquistati, o comunque negoziati fra privati o governi di stati diversi, territori per 30 milioni di ettari: pressappoco la superficie delle Filippine.
Cominciamo col chiederci chi sono i protagonisti. Per i protagonisti passivi, e cioè coloro che vendono, l’elenco è fatto abbastanza presto. Sono, in primo luogo, i Paesi più poveri, quelli che non hanno nient’altro da vendere; e quindi, prevedibilmente, la maggior parte dei Paesi africani (anche se ce ne sono, come il Sudafrica o Gibuti, tra i compratori). Ma a vendere pezzi di territorio sono anche (tra gli altri) Filippine, Pakistan, Indonesia, Laos, Ucraina, Cuba.
Ci sono persino due importanti «Bric», cioè Paesi che stanno diventando potenze economiche mondiali, come Brasile e Russia. Dunque ra i venditori non ci sono solo Paesi poveri, ma anche Paesi che hanno molta terra da vendere.
Passiamo agli acquirenti. Il lettore penserà subito alla Cina, perché della Cina si conosce la fame crescente di materie prime, oleodotti, porti (a cominciare dal Pireo), contratti all’estero per infrastrutture (strade, raffinerie) e così via. Anche di territori da coltivare. Il grande Paese ha bisogno di alimentare la propria crescita, ma anche di attrezzarsi per nutrire i suoi abitanti: quasi un quinto della popolazione mondiale, che vive sul 7% delle terre coltivabili del pianeta. Non a caso, il Documento n. 1 del 2007 del Comitato Centrale del Pcc insisteva sulla necessità per l’agricoltura cinese di «uscire dalle proprie frontiere»: una direttiva che si è tradotta nell’uscita di capitali, tecnologie, manodopera. Non si sa con esattezza quanti cinesi lavorino oggi in Africa nei vari settori: le valutazioni vanno da
200mila a un milione.

Tuttavia la Cina occupa per ora solo il terzo posto nella speciale classifica degli acquirenti, nell’ordine: Corea del Sud, India, Cina, Arabia Saudita ed Emirati, Giappone (più indietro ci siamo anche noi, con presenze in Africa e in Europa Orientale). Anche se la forza e l’attivismo internazionale della Cina sembrano destinarla a scalare, molto presto, la testa della classifica. La quale è comunque incerta: sia perché i governi (e i protagonisti in genere) non forniscono volentieri i dati; sia perché non sono chiari, ma ambigui e vaghi, i confini che separano la piantagione gestita da un vecchio colono dal tradizionale investimento di una multinazionale, fino agli acquisti di cui parliamo (e ai quali ci avviciniamo per approssimazioni successive), che sono un fenomeno degli ultimi anni.
Si sarà già capito, dall’elenco qui sopra, che cosa spinge a comprare terreni agricoli in altri Paesi. La prima preoccupazione è di riuscire a fronteggiare, in prospettiva, ulteriori aumenti del prezzo della materie prime agricole, tali da mettere in pericolo la sicurezza alimentare. Della Cina si è detto. La Corea del Sud produce solo lo 0,2% del grano e lo 0,8% del mais di cui ha bisogno. Quanto all’India, è fin troppo nota una povertà che continua ad accompagnarsi a settori in sviluppo assai rapido. Del Giappone si sa invece che ha un’agricoltura progredita ma su una superficie limitata, ben lontana dal garantire il fabbisogno alimentare di una popolazione la cui densità è di 339 abitanti per chilometro quadrato (contro i 201 dell’Italia).

Sulle ragioni che spingono alla ricerca di terreni coltivabili e fertili i Paesi della penisola arabica non occorre insistere più di tanto, se si pensa ai deserti e alle steppe su cui si estendono. Ma naturalmente, per spiegare questo elenco di compratori manca ancora un elemento, e cioè i capitali. Della Cina si sa che è il Paese che ne ha più di ogni altro. Gli Stati arabi trasudano ricchezza. La Corea del Sud avanza tra i ricchi del mondo, mentre il Giappone, pur dovendosi curare le ferite dell’economia e della natura, resta uno dei Paesi più avanzati. Le motivazioni economiche sono, naturalmente, decisive: ma un po’ sempre, e in maniera vistosa nel caso della Cina, le accompagnano ragioni geopolitiche, di prestigio e di strategia mondiale.
È bene aggiungere, tuttavia, che ci sono anche delle eccezioni, e non poco curiose. Un tipico caso di anomalia è quello delle isole Maldive, minacciate di essere entro pochi anni ricoperte dall’oceano a causa del riscaldamento del clima. Si può capire che persino questo piccolo stato, non ricco, ma con buoni proventi dal turismo, compri sulla terraferma (africana, ovviamente) terreni da coltivare o sui quali – perché no? – rifugiarsi.
Quali sono le caratteristiche specifiche del fenomeno di cui stiamo parlando? La prima è quantitativa. Qui non si tratta più di tenute sia pur vaste, piantagioni o appezzamenti di terreno di medie dimensioni: si tratta invece di territori molto estesi, quanto una provincia italiana o anche più. Territori che sono, quasi sempre, i più fertili di Paesi la cui superficie coltivabile è in genere insufficiente. La propaganda ufficiale di venditori e compratori li descrive come terreni incolti o abbandonati, che l’arrivo di stranieri renderà fruttuosi.
In realtà, sono quasi sempre terreni sfruttati, sia pure con metodi primitivi, da un’agricoltura di sussistenza, ad opera di popolazioni spesso costrette ad abbandonare la terra perché possa essere consegnata, chiavi in mano, ai nuovi proprietari. I quali ultimi portano con sé, in molti casi, non solo tecniche più avanzate ma anche la manodopera. Questo vale soprattutto nel caso dei cinesi, che arrivano spesso sulle nuove terre portando con sé migliaia di lavoratori (molte volte carcerati cui viene condonata una parte della pena), che conducono per qualche anno una vita da reclusi, senza contatti con la popolazione locale. Si può capire che le reazioni di quest’ultima siano in molti casi ostili, anche se poco in grado di trasformarsi in vera opposizione. I governi tendono invece, molto spesso, a favorire le vendite (o gli affitti, o le joint-venture): è il caso, più di altri, del Brasile, dell’Etiopia, o del Pakistan nei confronti dei paesi arabi del Golfo. A Papua, per fare un altro esempio, sono i politici e gli amministratori locali a contattare i sauditi offrendo loro delle terre.
Alle dimensioni dei territori va aggiunta la durata dei contratti, che raggiunge spesso i 99 o 100 anni. Molti osservatori parlano di un’agricoltura «delocalizzata». Altri sottolineano che una volta territori così estesi si ottenevano con conquiste militari e si chiamavano colonie, mentre ora si comprano. Non solo: certi insediamenti stranieri, soprattutto cinesi, sono organizzati e diretti sulla base di una specie di silenzioso (quando non ufficiale) diritto di extraterritorialità. A parti rovesciate, qualcosa di molto simile a quanto accadde nella Cina dell’Ottocento dopo le guerre dell’oppio.

Un episodio tra i più significativi delle contraddizioni prodotte dall’acquisto di terre nei paesi del Sud è quello che si è verificato nel 2008-2009 nel Madagascar. La multinazionale sudcoreana Daewoo è entrata in trattative con il governo per ottenere per 99 anni il 40% delle terre coltivabili di tutto il paese (all’incirca la superficie della Campania) per produrvi granoturco e olio di palma. Daewoo non pagava praticamente nulla allo stato malgascio, ma si impegnava a costruire infrastrutture, a creare 45mila posti di lavoro e a rendere coltivabili terreni in buona parte usati in altro modo (per esempio coperti da foreste). Le proteste sono partite dalle popolazioni danneggiate ma si sono poi estese e radicalizzate, fino a determinare la caduta del presidente Ravalomanana, accusato di avere “svenduto” buona parte del Paese. Il suo successore, Rajoelina, ha detto: «Non siamo contrari all’idea di collaborare con gli investitori, ma se vogliamo vendere o affittare la nostra terra dobbiamo modificare la Costituzione, bisogna consultare la popolazione. Per questo, ora l’accordo viene cancellato».
Un episodio analogo si è verificato nel 2011 in Islanda, protagonisti un miliardario cinese e il governo di Reykjavík, timoroso che un progetto turistico nascondesse un disegno espansionistico nell’isola, che fa parte della Nato e vuole entrare nella Ue. Per un contratto cancellato, cinque nuovi contratti vengono firmati e altri dieci negoziati. Lasciamo al lettore di giudicare se fenomeni come questo, o come il silenzioso passaggio di cinesi in Siberia (fino a modificare l’assetto demografico di questa regione), non siano tali da esigere, in qualche modo, un ripensamento delle teorie vigenti del colonialismo e dell’imperialismo.


 Fonte :  l’Unità 28.2.12 L’imperialismo cambia nome: «land grabbing»E la Cina è il Paese-guida

Accaparramento di terre: il processo iniziato negli ultimi anni in Africa Ora interessa anche potenze come Brasile, Russia. E tra chi compra, le Maldive dove a causa del cambiamento climatico il mare erode il suolo dove vivere di Gianni Sofri

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, mercoledì 29 febbraio 2012

venerdì 24 febbraio 2012

ARTE FACTUM : Si impara sbagliando !? Marcia indietro sui neutrini ?

ARTE FACTUM  :  Si impara sbagliando !? Marcia indietro sui neutrini ?

Sarebbe un cavo in fibra ottica il colpevole della velocità dei neutrini, risultata inaspettatamente in settembre superiore a quella della luce in un esperimento in gran parte italiano. La ragione dell'errore è rivelata dal ben informato "Science" , anche se mancano conferme ufficiali al momento.
Sparati da Ginevra, dal centro di fisica nucleare del Cern, dopo 700 chilometri, percorsi in pochi attimi, i neutrini erano arrivati ai laboratori nazionali dell'Istituto nazionale di fisica nucleare, Infn, del Gran Sasso in men che non si dica, anzi ancora meno.

Per la precisione erano arrivati 60 nanosecondi prima di quanto avrebbero dovuto, viaggiando alla velocità della luce. Più veloce della luce? Un risultato che aveva messo a soqquadro il mondo della fisica mondiale, dato che avrebbe portato a rivedere le basi di questa importante disciplina. Nulla infatti, secondo le teorie correnti può portare informazione ad una velocità superiore a quella della luce.
Misure incredibilmente delicate, anche perché le apparecchiature in questione, sia a Ginevra che al Gran Sasso, sono molto complesse, alte come una casa e con chilometri di cavi. E poi le misure di tempo e spazio, fatte con il GPS, sulla base di 700 chilometri sono tali, a quel livello, che mille piccoli effetti possono rendere vano il tentativo di misurare con precisione del miliardesimo di secondo.
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Ora sembrerebbe che l'errore sia stato trovato: rivedendo pezzo per pezzo tutto l'esperimento - i pezzi importanti da controllare sono centinaia - si è trovato che un cattivo collegamento fra fibra ottica e un computer dell'esperimento potrebbe aver causato esattamente un ritardo di 60 nanosecondi. Ora ovviamente si cerca di trovare un errore nell'errore. Per cambiare la teoria della relatività e tutto il resto della fisica, insomma, la cautela e un sano sospetto non sono mai troppi.

Dunque i  neutrini non sono più veloci della luce. E’ stato un falso allarme. Lo scrive il numero in uscita della rivista «Science». L’errore non stava della relatività di Einstein ma in una banale connessione in fibra ottica tra il ricevitore GPS e il computer usato per calcolare il tempo impiegato dai neutrini a viaggiare dal Cern di Ginevra al Laboratorio sotterraneo del Gran Sasso. Era il 23 settembre dell’anno scorso quando l’équipe dell’esperimento «Opera» diretto da Antonio Ereditato diede l’annuncio bomba. Con cautela, va detto. Così come cauti nell’accoglierlo, e spesso scettici, furono i fisici di tutto il mondo. Ma la notizia era così clamorosa che occupò le prime pagine di tutti i giornali. La velocità della luce è una costante della fisica. Superarla non solo metterebbe in crisi la teoria di Einstein ma porterebbe a paradossi imbarazzanti: l’effetto potrebbe precedere la causa. Ora il numero in uscita della rivista «Science» lancia il contrordine. Lo stesso gruppo di ricercatori in un comunicato di dieci righe spiega la causa dell’errore. Ma non è finita. Alle 11 della sera di ieri Antonio Ereditato dichiara all’Ansa che non è detta l’ultima parola: occorre prudenza anche nella smentita...

Il 23 settembre c’erano degli scettici nella stessa équipe di «Opera». Eppure avevano controllato tutto (ora possiamo dire: quasi tutto): i neutrini prodotti a Ginevra, dopo aver attraversato la crosta terrestre sotto le Alpi e gli Appennini fino al Gran Sasso per 720 chilometri, sembravano guadagnare 60 miliardesimi di secondo rispetto alla velocità della luce. I fisici di «Opera» furono i primi a stupirsi. Decisero di comunicare il loro sconcertante risultato proprio per chiedere ai colleghi americani e giapponesi, che hanno esperimenti simili, di verificare come stessero le cose.

Subito dopo l’équipe di «Opera» si è messa a controllare meglio il proprio esperimento. I fasci di neutrini erano un po’ troppo lunghi, non si poteva sapere se si catturava un neutrino della testa o uno della coda dei fasci: li hanno accorciati perché la misura fosse più precisa. Poi con i satelliti GPS hanno meticolosamente controllato la distanza Cern-Gran Sasso, riducendo l’incertezza a una ventina di centimetri. Il sospetto era che ci fosse un errore sistematico, perché la differenza di tempo saltava fuori in modo costante su 15 mila neutrini osservati. In effetti era così: l’errore sistematico si annidava in un pezzetto di fibra ottica, dove la luce non viaggia alla velocità della luce ma più lentamente, sia perché non è nel vuoto sia perché dentro la fibra viene continuamente rifratta. Era quel rallentamento a far sembrare i neutrini più veloci. Ma l’intervento in extremis di Ereditato lascia spazio a una nuova puntata del giallo.

L’annuncio del 23 settembre ebbe un risvolto divertente. L’allora ministro dell’Istruzione e Ricerca Mariastella Gelmini fu anche lei più veloce della luce nel rivendicare al proprio ministero il merito di un fantomatico tunnel nel quale i neutrini disputerebbero le loro corse travolgenti da Ginevra all’Abruzzo. Non sapevano, il ministro e il suo ufficio stampa, che per i neutrini la materia è perfettamente trasparente perché sono particelle a interazione debolissima. E neppure che non esistono al mondo tunnel così lunghi, il che è geografia, non sofisticata fisica delle particelle. Oggi, con il senno di poi, si può dire che quell’intervento fu due volte sbagliato. Niente tunnel, niente neutrini superluminali.

Qualche riflessione dovranno fare anche gli scienziati. E’ vero, si impara sbagliando. Ma è anche vero che i media oggi hanno i nervi scoperti e ciò modifica il vecchio modo di procedere delle riviste scientifiche, dei controlli tra pari, degli esperimenti indipendenti che si verificano vicendevolmente. I ricercatori dovranno tenerne conto ed evitare l’accavallarsi di annunci, smentite e parziali smentite della smentita. Il che significa, in sostanza, più cautela in laboratorio. E nei giornali meno sensazionali.

Eremo Via vado di sole , L'Aquila, venerdì 24 febbraio 2012

ET TERRA MOTA EST : Chiudere il cerchio

ET TERRA MOTA EST  : Chiudere il cerchio

L’Aquila è l’esempio  di come , politici,amministratori, tecnici, intellettuali , rincorrendo e palleggiando le responsabilità , sono incapaci di utilizzare  le risorse  e capacissimi di  far incancrenire i problemi.
Quando, e se , finirà questa confusione simile a quella viaria della rotonda di Coppito  a causa del rifacimento del manto stradale in ora di punta ( ore 8 del mattino).?
Alla fine però chi paga il prezzo di tutto questo  è chi è ancora  senza casa, ,senza lavoro, senza risposte a bisogni ed esigenze anche e soprattutto di carattere  di salute e assistenza.
Un tecnico dell’attuale  compagine governativa ( un così detto professore ) di fronte ad un grave problema  del nostro paese , voltandosi dall’altra parte ha sommessamente  sussurrato “ Ci vorrebbe una rivoluzione !”
Ebbene sì che ci vorrebbe una rivoluzione ma una rivoluzione di idee anche se  purtroppo la ricerca delle verità è solo filosoficamente parlando una  finzione  (secondo Nietzsche ).  Comunque una rivoluzione di idee significa sostituire le idee ad altre idee. E per sostituire  le idee bisogna sostituire gli uomini.
A casa dunque amministratori, politici e tromboni . E lo strumento è uno solo : quello della democrazia.
Dunque la lotta aperta e leale da parte  delle istanze di base è quella per accrescere la democrazia perché   la partecipazione  è appunto il primo passo della democrazia. Come partecipare in questa città alla ricostruzione, alle decisioni sull’uso  del territorio,  alla conduzione della cosa pubblica ?
Ma come scrive Enrico Berlinguer "Non si può rinunciare alla lotta per cambiare ciò che non va. Il difficile, certo, è stare in mezzo alla mischia mantenendo fermo un ideale e non lasciandosi invischiare negli aspetti più o meno deteriori che vi sono in ogni battaglia. Ma alternative non ne esistono."

Eremo Via vado di sole ,L'Aquila, venerdì 24 febbraio 2012

martedì 21 febbraio 2012

VERSI D’ALTRI E ALTRI VERSI :Wislawa Szymborska 1923 – 2012 poesie (parte seconda )

VERSI D’ALTRI E ALTRI VERSI :Wislawa Szymborska 1923 – 2012 poesie (parte seconda )




Il 16 maggio 1973
da "La fine e l'inizio"

Una delle tante date
Che non mi dicono più nulla.

Dove sono andata quel giorno,
che cosa ho fatto – non lo so.

Se lì vicino fosse stato commesso un delitto
- non avrei un alibi.

Il sole sfolgorò e si spense
Senza che ci facessi caso.
La terra ruotò
E non ne presi nota.

Mi sarebbe più lieve pensare
Di essere morta per poco,
piuttosto che ammettere di non ricordare nulla
benché sia vissuta senza interruzioni.

Non ero un fantasma, dopotutto,
respiravo, mangiavo,
si sentiva
il rumore dei miei passi,
e le impronte delle mie dita
dovevano restare sulle maniglie.

Lo specchio rifletteva la mia immagine.
Indossavo qualcosa d'un qualche colore.
Certamente più d'uno mi vide,

Forse quel giorno
Trovai una cosa andata perduta.
Forse ne persi una trovata poi.

Ero colma di emozioni e impressioni.
Adesso tutto questo è come
Tanti puntini tra parentesi.

Dove mi ero rintanata,
dove mi ero cacciata –
niente male come scherzetto
perdermi di vista così.

Scuoto la mia memoria –
Forse tra i suoi rami qualcosa
Addormentato da anni
Si leverà con un frullo.

Addio a una vista
da "La fine e l'inizio"

Non ce l'ho con la primavera
perché è tornata.
Non la incolpo
perché adempie come ogni anno
ai suoi doveri.
Capisco che la mia tristezza
non fermerà il verde.
Il filo d’erba, se oscilla,
è solo al vento.
Non mi fa soffrire
che gli isolotti di ontani sulle acque
abbiano di nuovo con che stormire.
Prendo atto
che la riva di un certo lago
è rimasta - come se tu vivessi ancora bella
come era.
Non ho rancore
contro la vista per la vista
sulla baia abbacinata dal sole.
Riesco perfino ad immaginare
che degli altri, non noi
siedano in questo momento
sul tronco rovesciato d’una betulla.
Rispetto il loro diritto
a sussurrare, ridere
e tacere felici.
Suppongo perfino
che li unisca l'amore
e che lui stringa lei
con il suo braccio vivo.
Qualche giovane ala
fruscia nei giuncheti.
Auguro loro sinceramente
di sentirla.
Non esigo alcun cambiamento
dalle onde vicine alla riva,
ora leste, ora pigre
e non a me obbedienti.
Non pretendo nulla
dalle acque fonde accanto al bosco,
ora color smeraldo,
ora color zaffiro
ora nere.
Una cosa non accetto.
Il mio ritorno là.
Il privilegio della presenza ci
rinuncio.
Ti sono sopravvissuta solo
e soltanto quanto basta
per pensare da lontano.

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì 21 febbraio 2012

VERSI D’ALTRI E ALTRI VERSI :Wislawa Szymborska 1923 – 2012 poesie

VERSI D’ALTRI E ALTRI VERSI :Wislawa Szymborska 1923 – 2012 poesie


Vestiario
da "Gente sul ponte"

Ti togli, ci togliamo, vi togliete
cappotti, giacche, gilè, camicette
di lana, di cotone, di terital,
gonne, calzoni, calze, biamcheria,
posando, appendendo, gettando su
schienali di sedie, ante di paraventi;
per adesso, dice il medico, nulla di serio
si rivesta, riposi, faccia un viaggio,
prenda nel caso, dopo pranzo, la sera,
torni fra tre mesi, sei, un anno,
vedi, e tu pensavi, e noi temevamo,
e voi supponevate, e lui sospettava;
è già ora di allacciare con mani ancora tremanti
stringhe, automatici, cerniere, fibbie,
cinture, bottoni, cravatte, colletti
e da maniche, borsette, tasche, tirar fuori
-sgualcita, a pois, a righe, a fiori, a scacchi- la sciarpa
riutilizzabile per protratta scadenza.
Scrivere un curriculum
da "Vista con granello di sabbia"

Che cos'e' necessario?
E' necessario scrivere una domanda,
e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si e' vissuto
e' bene che il curriculum sia breve.
E' d'obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e malcerti ricordi in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta di piu' chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all'estero.
L'appartenenza a un che, ma senza perche'.
Onorificenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l'orecchio in vista.
E' la sua forma che conta, non cio' che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.
Prospettiva
da "Due punti"

Si sono incrociati come estranei,
senza un gesto o una parola,
lei diretta al negozio,
lui alla sua auto.

Forse smarriti
O distratti
O immemori
Di essersi, per un breve attimo,
amati per sempre.

D'altronde nessuna garanzia
Che fossero loro.
Sì, forse, da lontano,
ma da vicino niente affatto.

Li ho visti dalla finestra
E chi guarda dall'alto
Sbaglia più facilmente.

Lei è sparita dietro la porta a vetri,
lui si è messo al volante
ed è partito in fretta.
Cioè, come se nulla fosse accaduto,
anche se è accaduto.

E io, solo per un istante
Certa di quel che ho visto,
cerco di persuadere Voi, Lettori,
con brevi versi occasionali
quanto triste è stato.
Ringraziamento
da "Vista con granello di sabbia"

Devo molto
a quelli che non amo.
Il sollievo con cui accetto
che siano più vicini a un altro.

La gioia di non essere io
il lupo dei loro agnelli.

Mi sento in pace con loro
e in libertà con loro,
e questo l'amore non può darlo,
n´ riesce a toglierlo.

Non li aspetto
dalla porta alla finestra.
Paziente
quasi come un orologio solare,
capisco
ciò che l'amore non capisce,
perdono
ciò che l'amore non perdonerebbe mai.

Da un incontro a una lettera
passa non un'eternità,
ma solo qualche giorno o settimana.

I viaggi con loro vanno sempre bene,
i concerti sono ascoltati fino in fondo,
le cattedrali visitate,
i paesaggi nitidi.

E quando ci separano
sette monti e fiumi,
sono monti e fiumi
che si trovano in ogni atlante.

E' merito loro
se vivo in tre dimensioni,
in uno spazio non lirico e non retorico,
con un orizzonte vero, perchè mobile.

Loro stessi non sanno
quanto portano nelle mani vuote.

"Non devo loro nulla" -
direbbe l'amore
su questa questione aperta.
La stazione

Il mio arrivo nella città di N.
è avvenuto puntualmente.

Eri stato avvertito
con una lettera non spedita.

Hai fatto in tempo a non venire
all'ora prevista.

Il treno è arrivato sul terzo binario.
E' scesa molta gente.

L'assenza della mia persona
si avviava verso l'uscita tra la folla.

Alcune donne mi hanno sostituito
frettolosamente
in quella fretta.

A una è corso incontro
qualcuno che non conoscevo,
ma lei lo ha riconosciuto
immediatamente.

Si sono scambiati
un bacio non nostro,
intanto si è perduta
una valigia non mia.

La stazione della città di N.
ha superato bene la prova
di esistenza oggettiva.

L'insieme restava al suo posto.
I particolari si muovevano
sui binari designati.

E' avvenuto perfino
l'incontro fissato.

Fuori dalla portata
della nostra presenza.

Nel paradiso perduto
della probabilità.

Altrove.
Altrove.
Come risuonano queste piccole parole.

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì 21 febbraio 2012

BIBLIOFOLLIA : L’unico scrittore buono è quello morto,

BIBLIOFOLLIA  : L’unico scrittore buono è quello morto,

Un divertissment può aspirare a essere qualcosa di più dell’entartainment? Volando basso, ci si può sbellicare dalle risa e nel frattempo farsi venire qualche idea riguardo alla strana umanità condannata da demoni discordi all’esercizio (talora del tutto immaginario) della scrittura? Magari approfittare per rivedere un po’ di aberrazioni in corso trasformate in abitudini ormai considerate normali? E rivederle per es. con un ceffone assestato a mestiere? Provate a leggere questo libro di Marco Rossari e ditemi: non lo fareste, nel caso pur impossibile foste Tolstoj, costretto a vedersela con un paio di esemplari tipici dell’odierna società della comunicazione che fagocita e tira verso le sabbie mobili della stupidità anche un capolavoro della scrittura (che - parrà curioso solo agli incauti - con la comunicazione niente ha da spartire)? Non lo sgancereste un bel ceffone, molto espressivo, foste l’autore della Sonata a Kreutzer, se vi trattassero come una cretinetta che ha firmato l’ennesimo repertorio di ricette, come il giornalista cerchiobottista cui hanno attrezzato un romanzaccio sulle comode scrivanie di una major milanese, come il rocker che è un pianto come musicista e un disastro ambientale come scrittore? Immaginatevelo il buon vecchio Lev Nikolaevič, invitato a Roma in una radio per parlare del suo romanzo, accolto da una sciamannata che fra le altre cose gli domanda cosa sta leggendo in questo periodo e quando sente rispondersi “La Bibbia”, gli fa “E com’è?”, e poi deve vedersela, il vecchio russo, con il garrulo conduttore e gli ascoltatori che fanno a gara a chi gli pone la domanda più idiota…
Ma se Tolstoj passa una brutta giornata, pure Shakespeare deve vedersela con un mediocre tutore dell’idiozia, un giudice, che ha deciso di condannarlo per plagio e diffamazione, avendo il grandissimo inglese rubato le sue storie a destra e a manca, con l’aggravante, da lui ingenuamente pensata come sola, onorevole discolpa, di “averci messo la poesia”…


Rossari racconta storie così. Brevissime, a volte ridotte a fulminanti battute, a scambi o pensieri non solo di scrittori giganteschi ma di poveri, comici, disgraziati scriventi… Se ai grandi risparmia le reazioni estreme vagheggiate dal comune lettore, dei restanti colleziona immagini definitive. “C’era uno scrittore che aveva letto un solo libro, il suo. E gli era bastato”. E ce n’era un altro “che considerava la letteratura finita, anche perché non leggeva mai un libro.”
Le vicende umane e professionali degli scrittori – di quelli veri e di quelli farlocchi - possono essere tragicomiche, come quelle di chiunque altro, ma godono, si fa per dire, di una peculiare caratteristica: sembrano poggiare sul nulla, non hanno appoggi sicuri, il mestiere in sé può non sembrare un mestiere, non v’è certezza, come dire, statutaria, figuriamoci ontologica; è un’avventura destinata per lo più alla sconfitta, e in nessun altro caso la disfatta è spietata quanto in questo eterno Purgatorio sospeso fra la gloria e l’abisso. Nessuno - è noto - perdona a uno scrittore di non esserlo compiutamente… Epperò, cos’è quella mancanza? che vuol dire? non finire un romanzo, non pubblicarlo, non venderlo? o semplicemente non essere cacato da nessuno - nemmeno dai propri amici? Rossari sa che parlare di scrittori non è come parlare di ingegneri. O, ancor meno, di farmacisti. Ché poi la natura precaria degli scrittori dipende anche dai lettori (e mica sempre con la testa a posto pure loro, a cominciare dalle lettrici che si aspettano di essere scopate a sangue da un ficaccio col proprio nome stampato da qualche parte), dagli editori e via dicendo. Tutto questo complica la faccenda, già poco limpida di suo… Metti a scuola, che ci hanno raccontato di una certa tradizione romantica, che ci sarebbe come “un sentire” dello scrittore… Il narratore di Rossari sa per esempio di uno scrittore isolato in uno sperduto villaggio del cosiddetto Terzo mondo: be’, costui non aveva una penna né un foglio, forse nemmeno una lingua. Così, “se ne stava lì, seduto su una roccia, a contemplare il creato. Eppure era uno scrittore”. Umanità dalle strane caratteristiche, non c’è che dire. E c’era quell’altro – ancora - che “stroncava montagne e partoriva topolini”.
La parodia, modalità stilistica che oggi non gode di grandi apprezzamenti da parte della critica, salvo dimenticare che l’ottanta per cento dei romanzi italiani in circolazione sono involontariamente parodistici, nel libro di Rossari mostra come, nelle mani giuste, possa “dire” senza parere cose mica così frivoli. Non so se l’autore ha qualcosa in comune con lo scrittore-dandy cui l’editore che lo scopre suggerisce di scrivere aforismi, più che romanzi, perché ha un gran talento nello scatto, nella “definizione fulminante, nella battuta salace”. Non ho letto gli altri suoi libri. Certo, se Wilde non ebbe pari nel “paradosso spiazzante”, Rossari (fra l’altro, di questo ho contezza reiterata, ottimo traduttore) non scherza quanto a beffarda lapidarietà. Aspiranti o sfigati scrittori sappiatelo: ce n’era uno “che decise di vivere recluso e non pubblicare più. Nessuno venne a cercarlo”.
di Michele Lupo Il paradiso degli orchi 26 gennaio 2012

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì  21 febbraio 2012

mercoledì 15 febbraio 2012

ET TERRA MOTA EST : Il mese di febbraio ( Parte seconda )

ET TERRA MOTA  EST  : Il mese di febbraio ( Parte seconda )


Dal Blog  Viaggio & Viaggi  pubblicato da Il Capoluogo.it e curato da Vincenzo Battista prendo questo scritto  per ricordare , in questo mese di febbraio  un altro terremoto , quello del 1703.


“A dì due febraro 1703, Aquila dai muggiti e fragori”

A leggere la scarna cronaca della signora Jattilli, sembra di immaginarla, lei , protagonista che si racconta in una sceneggiatura, in una strisciata di un film in bianco e nero che narra la distruzione totale, implacabile, ma soprattutto apre, senza retorica, messaggi di vita e di speranza custoditi dentro l’inferno che da lì a poco si scatenerà.
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Il viaggio, nei fotogrammi delle macerie e del dolore, lo chiameremo così, di una bambina, la signora Jattilli appunto, che a quell’epoca aveva tre anni, tenuta dalla madre per mano, piccola, stipata nella chiesa di San Domenico, insieme a centinaia di persone, forse ottocento, che aspettano la distribuzione delle candele. E’ il giorno importante, il due febbraio 1703, presenti le confraternite, il clero sontuoso per la festa della Purificazione della Vergine quando “su l’ore dieciotto, e mezza, celebrandosi l’ultima Messa, il demone che vive nel ventre della terra” si affaccia e scuote la città di Aquila, muggiti e orrendi fragori sotterranei l’avvolgono, spaventose voragini l’attraversano, vapori e acque solfuree lattiginose ne prendono possesso, mentre lampi e fuoco dalle viscere della città dantesca, “luogo dell’estremo Giorno del Giudizio” raccontano le testimonianze cariche di angusti presagi popolari, onde burrascose fuoriescono dal suolo e le chiese sono sbattute come navigli, il campanile del Duomo si piega e l’arco basilicale della chiesa di San Marco fu visto tre volte aprirsi e tre volte richiudersi: “Che sono quasi a terra – è scritto in una relazione dell’epoca – le chiese di San Bernardino, S. Filippo, La Cattedrale,  San Massimo, S. Francesco, Sant’Agostino, con il resto di tutte le chiese, e monasteri di detta Città” insieme ai palazzi“ ò rasi ò cadenti, la Fortezza verso tramontana è caduta, il resto molto intronato, a segno tale, ch’è stata abbandonata dal castellano, e dalla guarnigione, che dimora tuttavia in campagna”, per proseguire, spostando il campo visivo dei fotogrammi, fuori le mura su “li viventi restati a tanto sterminio, tutti in campagna aperta sotto capanne, e tavole, ignudi, miserabili, e mendichi, con calamità, e miserie inesplicabili”.
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Quando i fumi delle macerie si diradano, il film continua, c’è solo silenzio, e da sfamare, con il pane nero, “la gente bassa”, i sopravvissuti, è riportato in un’altra relazione del Procuratore Fiscale della Regia Audienza dell’Aquila per i riconoscimento dei luoghi e terre danneggiati dal sisma : “Preti che tengono grano – annota – non vogliono darlo ai prezzi stabiliti, e il Vescovo, trovandosi già venduto quello della Mensa, non fa niente dal canto suo; anzi ha permesso di farlo salvare ne i Conventi e luoghi pii secolari benestanti, e di cuoprirlo sotto il manto dè Preti…”.

La chiesa di San Domenico è crollata, portandosi dietro il più alto numero di sepolti, seicento morti secondo alcune fonti, dentro un edificio pubblico, e molti feriti invocano tra le macerie. Tra questi una bambina tirata fuori dal corpo, dal fianco della madre, poiché lì aveva trovato. La chiesa non esiste più, solo una cappella è in piedi, un abside laterale, una sorta di “conchiglia magica” che ha protetto la piccola Jattilli. E’ in salvo.

Il film ormai è al termine, sono passati decine di anni e la signora Jattilli, nel 1803, a cento anni dal sisma, tornò nello stesso posto per assistere alla messa e segnare, con la sua presenza, quel messaggio di vita che il demone uscito delle profondità della terra non riuscì a portarsi con sé. Visse fino a centocinque anni, sette mesi e alcuni giorni…


“ Non avevo paura…”. Il cantico sull’Aquila della libertà


 E’ arrivato il momento, scende il silenzio, si inizia: “Fecea ‘nu friddu cane quella sera; girea pell’aria quacche fioccu stancu…” e poi ancora “… Smosse la paja  ‘ntornu ‘a queij agneju…”. Le insegnanti della “Materna” hanno lavorato bene, non è stato semplice, però ne è valsa la pena. In piedi, sulle sedie, i bambini (tornando a casa hanno raccontato di aver imparato una poesia in francese) iniziano a recitare quelle strofe, antiche, misteriose, profetiche... Chissà cosa avrebbe pensato Mario Lolli (1917 -2002), lui, autore di quei versi che sono stati trasportati dai bambini, nelle incertezze del vernacolo, e tolti dai loro fondali sabbiosi dove speso sono domiciliate alcune “voci” diverse, della città; Lolli, il poeta del cantico aquilano, dalle immagini naif, il “viaggiatore” dell’universo del vernacolo mai banale che sa guardare oltre i versi le prospettive del racconto, la trasformazione del dialetto in immagini, insieme alle passioni che evocano un altro tempo, ma soprattutto il poeta dialettale di una città antica, L’Aquila, dalle tante storie: una lunga narrazione, una sorta di epistolario collettivo mai spento, una biblioteca ancorata alle innumerevoli voci, un archivio della memoria come questa foto in bianco e nero del 1956, che rigiro tra le mani: via S. Onofrio, una donna coperta dagli indumenti in nero, con un copricapo, assorta ma dignitosa, esce da una galleria di neve scavata e accumulata fino al secondo piano. Una città  secolarizzata anche negli eventi, tutt’uno le persone sembrano con case e pietre che raccontano, sanno narrare, così è sempre stato: dalle mura delle case si alzano e viaggiano, le parole, leggere, che vanno colte, e si alza anche una piccola voce, anch’essa da custodire: numero civico 8 di Costa Masciarelli.

Un lembo di coperta è libero, il resto è coperto da detriti, calcinacci esplosi dal solaio, dalle pareti, e scaraventati sul piccolo corpo che si sta cercando tra la polvere che frulla, in un vortice, e inghiotte tutto, risucchia le urla e la disperazione di attimi interminabili, oltre il panico, mai provato, in quel momento, che è arrivato dopo le tante scongiurate attese…;  il sangue, dirà più tardi la madre, usciva e gelava sulla fronte mentre non la trovava, sotto quel lembo, tirato, lentamente, poi finalmente prima il piede e poi lei, Cecilia, quattro anni, una piccola foglia dentro una sprezzante tempesta. “Non ero sola sotto la coperta e i calcinacci”, dirà molte ore più tardi, Cecilia, nel pomeriggio,  dentro i suoi quattro anni, avvicinandosi alla madre. “C’era una signora, un angelo, che mi parlava e ti chiamava. Era l’angelo di nonna Pina e mi parlava e ti chiamava… non avevo paura”.


Alle tante come Cecilia che sono andate via dalla città, un brano, dedicato, un testo per ripartire forse da quella recita delle scuola materna: “La prima nevicata” del poeta Lolli, in una città adesso disperata ma che le aspetta, prima o poi, le aspetta .

Ecco il testo. “L’atra mmatina, dopo colazzio’, me mne so’ jitu a fa’ ‘na caminata, ma “ senza passu e senza direzziò”, pe’ reguarda’ la prima nevicata. Tirea ‘narietta fresca, assutta e pura; ju solo se sforzea de rescalla’ non solu le montagne e la pianura ma pure tutta quanta ‘sta città. A quiju spiazzu ‘nnanazi alla Piscina, camminenno e pensenno aju passatu, pe’ caso  me scontrette, ma ‘nduvina? Co’ Giggi dittu pure “j‘affamatu” che, pe’ non fa’ ‘nu tortu aj’inventore de quissu soprannome naturale, se stea a sdeora’, co’ tantu amore, lo pa’ co’ ‘na costata de maiale. Non remanette sbalurditu assai; tutti quanti tenemu ‘nu difettu. Ci salutemmo e po’ ji domannai : “Te recurdi quand’ecco dirimpetto ci stea sott’ a‘ssu muru, tempu fa, ‘ na gabbia, ‘mbe…, ‘ na spece de locale e loco ‘entro, pe pubblicità, ci stea ‘ nzaccata ‘n’aquila reale? Se ce repenzo me ce ve’ ‘na rabbia, ‘na pena, ‘nu rimurzu e ‘na tristezza. Tene’ rinchiusa, fra’, dentr’a ‘na gabbia ‘n’animale creatu  pe’ l’ardezza. Capace se saji’ ‘n cima a ‘na stella pe’ trovà postu alla staggione nova; vola’ daju Gransassu alla maiella pe’ sceje mejo addo’ allevà’ la cova; resta’ ‘nchioata, ‘nvece, a ‘na priggiò a raggirasse come ‘nu mulinu, guardenno ‘n celu co’ disperazziò, maledicendo j’ome e ju distinu!”. Finitu de parla’, ji’, m’aspettea che rincarasse subbito la dose; ma pe’ forza tenette cagnà idea. Se fece ‘na risata e me respose: “ Tenerristi sapello pure tu: p’ogni quistiò difficile e ‘nfrascata de soluzziò ne truvi armeno ddu’. Tu sci trovata mo’ quella sbajata! Lo campà de quell’aquila reale” – continuette – “non è mica fessa; è ‘na fortuna, frà, pe’ ‘nanimale esse servitu come ‘na papessa. Te llo figuri tutto lo pena’, co’ ju callu, la pioggia, la ggelata, pe’ procurasse ‘n giru lo magna’ co’ lla paura de vini’ ammazzata? Questa che sci’ chiamata ‘na priggio’ pe quell’aquila è stata ‘na cuccagna. Da quann’e’ natu ju munnu fino a mo’: va bbona tuttu, basta che se magna! “ ‘Sta ‘ote non me potti resta’ zittu; m’era fattu ggira’ ji zzebbedei pe’ tuttu quello ch’issu m’era dittu. Co’ distinziò contette fino a sei e dapo’ j’ammollai ‘stu ricurdino : “Stamme a sentì, tu forze non lo sa’, ma ‘zieme alla crostata e aju paninu, te sta a magna’, Giggi, la libbertà!”.


Le foto sono di  Sara Hay , Danilo Balducci  e Claudio Cerasoli
Eremo Via vado di sole , L’Aquila, mercoledì 15 febbraio 2012

ET TERRA MOTA EST : Il mese di febbraio (Parte prima )

ET TERRA MOTA  EST  :  Il mese di febbraio  (Parte prima )


Dal Blog  Viaggio & Viaggi  pubblicato da Il Capoluogo.it e curato da Vincenzo Battista prendo questo scritto  per ricordare , in questo mese di febbraio  un altro terremoto , quello del 1703.

In nome della città dell’Aquila

Il mese di febbraio in particolare alle date dei primi giorni rappresenta per l’Aquila una storica ricorrenza. E’ proprio  nel mese di febbraio di quell’anno di alcuni secoli fa , era appena l’inizio del secolo  che la città fu  colpita  da un terremoto  devastante. La memoria di quell’avvenimento , ancora viva , e il comportamento degli aquilani che seguì quella catastrofe possono essere utili nell’attuale situazione.  Prendo allora in prestito  uno scritto di Vincenzo Battista che potete anche leggere sul blog  Viaggio & Viaggiotori de Il Capoluogo.it


 “Si animarono gli smarriti Cittadini rendendoli coraggiosi a’ non dishabitare dalla loro Patria…”. Scritto così sembra poco più di un epigrafe, una citazione, una lapide, un epitaffio solenne, un monito di quelli che fanno mormorare gli studenti a scuola e forse fanno girare la testa dall’altra parte, indifferenti.

Parole distanti, molto distanti, che non sappiamo più riconoscere, ma che tuttavia sono “nostre”, ci spettano di diritto, inconsapevolmente, in una sorte di legame, poiché sono custodite, queste parole, in un antico processo mentale, quasi testamentario, nel Dna di questa città: un codice: “In nome della città dell’Aquila”, ossia la molecola chiave della solidarietà, la partecipazione, il consenso e soprattutto la concordia (che sembrano scaraventate lontano, indecifrabili, grondanti di retorica) oggi smarrite; ma anche informazione genetica della spiritualità e della coscienza civile e collettiva pronta a costruire il futuro.

Parole che possono sembrare vane, ininfluenti e distanti per le “attese incomprensibili”, i  diritti, calpestati, della città e delle sue persone per i ritardi della ricostruzione del centro storico. Ma le particelle chimiche sono la nostra impronta, comunque la pensiamo, tutt’uno con i quarti con i quali si sono sempre misurate dopo i terremoti, in un progetto, un' idea spalancata sull’ignoto, sul tempo impietoso che trascorreva, indecifrabile, riempito di lutti, senza identità in cui riconoscersi e senza più autorevolezza da negoziare  (anche le montagne, forse complici, l’hanno voluta così la città). Ma queste particelle, appunto, non sono andate perdute, ma nel  “nastro”, viceversa, sono state registrate “le informazioni” per identificarci: deposito antropologico, sigillo della nostra appartenenza.
 “In nome della città dell’Aquila” è quindi la matrice, il segmento in definitiva, il “tracciato” di questa molecola del Dna che finalmente si rivela, si apre, si manifesta con tutta la sua forza nella città e negli uomini che l’hanno abitata e così lasciata, tra lacrime e sangue, in periodi lontani, in un viaggio nel tempo e nello spazio dove ha avuto origine, appunto, questo minuscolo frammento di particella, ed ha “imparato a sopravvivere”, tra queste montagne, da tempo immemorabile.

“Il giorno due febbraio 1703 – è scritto in una relazione – festa della Purificazione di Maria Sempre Vergine Nostra Signora, su l’ore diciotto, e mezza, celebrandosi l’ultima messa per le Funzioni della distribuzione delle candele, si fece di nuovo sentire nella medesima  Città del’Aquila con trepidante scosse il Terremoto e danneggiò a segno…” causando, secondo alcune stime, circa 3000 morti, su una popolazione superstite di 6600 persone che lì seppellirono, tra le macerie, nei grandi spazi metafisici causati dai crolli dentro le mura dell’Aquila, in uno spettacolo devastante di  luogo altro, non più la città condivisa, che si apriva davanti agli occhi dell’immane tragedia collettiva.

I cavalieri dell’Apocalisse si erano affacciati dalle montagne di Roio, Assergi, Ocre e Arischia, narra una leggenda popolare, ed erano scesi con i loro stalloni neri che soffiavano fiamme e fuoco e lanciavano lamenti lugubri e infernali. Avevano dato battaglia, scaraventando le antiche porte della città ed erano entrati, per il loro dividendo, da spartirsi. Ma prima dell’esodo più volte annunciato, la fuga della popolazione dalla città morta, senza futuro e speranze, sito di rovine dai pali alzati che segnalavano i dispersi, fumo e lamenti, la molecola del Dna s’impose nella volontà di ricominciare di nuovo, ebbe la meglio sulla lacerazione del tessuto sociale e si riconobbe dentro la scia di lutti e devastazione degli intimi spazi urbani violati, viaggiò nei quarti, nelle macerie guadò le chiese dirute, girò nei luoghi sociali divelti, visse quell’identità, unica nell’Italia degli stati, strutturale e culturale di una città di frontiera, ma  “In nome della  città dell’Aquila”  no, non fu seppellita, divenne invece più di un’espressione geografica, un lascito, un’eredità spirituale, che riecheggia nelle certe consumate dei documenti d'epoca, in un accorato appello, in una sorta di logo dell’identità, insistentemente  presente nei manoscritti di E. Mariani (seconda metà dell’Ottocento) quando ci descrive la città di mastri, muratori, giovani, gente comune che forma comitati, si aggrega, oltre le istituzioni, gente comune che dà le giornate di lavoro per la ricostruzione. “In nome della città dell’Aquila” fornisce calce, chiodi, tegole, tavole, grano e pane, manodopera, trasporti e alloggi, ducati e carlini per rialzare gli edifici materiali e simbolici della quotidianità: venne “trattenuta”, questa molecola in definitiva, conservata a lungo, come un film in bianco e nero protetto da particolari temperature, in uno straordinario resoconto antropologico dell’identità giunto fino a noi, nessuno escluso, fino alla ricostruzione.

“D’un Miserere la città dell’Aquila”

E’ forse il salmo più inquietante disceso sulla città dolente, il Miserere, espressione sopra tutte le altre, il più implacabile, penitenziale, ma anche il più eloquente utilizzato nei suoi scritti da Antonio Ludovico Antinori (1704 -1778) per provare a rappresentare il dolore pubblico e privato, lugubre e luttuoso, tonfo e agghiacciante che segna i destini, scandisce le pene solenni, drammatiche; la misericordia, appunto dell’Ufficio delle tenebre, funebre, sopra le macerie fumanti di fuochi e polvere, le urla di disperazione e di panico degli abitanti dei quarti, le invocazioni di aiuto; sopra le torce accese che si rincorrono nel vespro, e cercano, nella imminente notte gelida; sopra cumuli di pietre e calce, travi e corpi sepolti di una città Aquila, che adesso abita lì sotto, attraversata in lungo e in largo “dagli spettri e le squadre di nero e in atto di dare battaglia”: metafora della tradizione popolare del terremoto del 2 febbraio 1703 che cambio per sempre i destini della gente dell’Aquila, produsse un’infinità di lutti come non mai, sconvolse i punti di riferimento spaziali della ”civitas nova”, cancellò i siti architettonici : dalle case del popolo minore ai palazzi dell’aristocrazia, agli edifici di culto e alle reliquie dei santi protettori della città il sisma smantellò, in definitiva, la mappatura della città –territorio medioevale e soprattutto rinascimentale, ancora visibile prima di allora, come non l’avremmo mai più potuta vedere.


“Fra gli effetti naturali – scrive appunto nella sua cronaca l’Antinori – si contarono i vapori puzzolenti esalati dalla terra, le acque cresciute nei pozzi, gli acquedotti sotterranei rotti in più parti. Seguì la terra a ondeggiare in modo quasi in bollimento per ventidue ore continue. Molti furono gli accidenti compassionevoli occorsi a’ feriti e mal rifugiati. Girolamo Papareschi vecchio prete nonagenario stette tre giorni circondato da tutti i lati dalle rovine di casa sua, escavato vivo poco dopo morì. Giuseppe Pallotta e la sua moglie scavati il settimo giorno vivi, moriranno poco dopo. Agostino Rosanzio restato sotto quattro canne di pietre e travi per sei giorni e mezzo, ricevendo gli alimenti, per un fenditura da Giuseppe suo padre, iscavato alla fine non sopravvisse all’aria aperta che per tre giorni. Giulio Marchetti Novizio Domenicano era morto dopo due giorni senza essere potuto scavare. Un altro fanciullo ne visse quattro senza alimenti, ma scavato appena morì…”

Una città – rovina, da evacuare, da abbandonare, per ricostruirla altrove, spostarne il sito, forse per sconfiggere il destino che la voleva città sempre da ricostruire (1315, 1349, 1456, 1461, 1498, 1646  gli anni dei sisma); città “cultura” dei terremoti divenuta così per l’intera collettività.


Tutto sembrava perso, invece, la grande reazione del sentimento locale, dell’opinione pubblica, una spinta inaspettata, un moto di orgoglio degli aquilani e la certezza di appartenenza ad una storia secolare tramandata, di sfide, impedì la delocalizzazione a favore di “là dove era e come era”: una prova di forza nuova per Aquila, una prova di coraggio inusuale, per ripartire, da quelle montagne di pietre e macerie, lasciandosi dietro i caduti: un terzo della popolazione; lasciandosi dietro il sisma più feroce della storia della città; lasciandosi dietro, e non fu certo semplice, le identità distrutte: vessilli, cari, dei nostri antenati.

Le foto sono di  Sara Hay , Danilo Balducci  e Claudio Cerasoli
Eremo Via vado di sole , L’Aquila, mercoledì 15 febbraio 2012

ET TERRA MOTA EST : 1703 IL GOVERNO DELLA CITTA’ FU DECIMATO E CI FU IL RISCHIO CHE L’AQUILA FOSSE ABBANDONATA IN MANIERA DEFINITIVA…( PARTE SECONDA )

ET TERRA MOTA  EST  : 1703  IL GOVERNO DELLA CITTA’ FU DECIMATO E CI FU IL RISCHIO CHE L’AQUILA FOSSE ABBANDONATA IN MANIERA DEFINITIVA…( PARTE SECONDA  )


Il processo di ricostruzione degli edifici di culto, con gli strumenti e i ritmi di allora, si può dire durò 50 anni, distinti in tre fasi.

Nella prima, il ventennio seguito al sisma, si ricostruirono pressoché tutte le chiese cittadine principali, e ad opera di prestigiosi nomi romani (1705ss. la Concezione, di Carlo Fontana; 1707ss. l’organismo di San Bernardino, con cupola del Contini; 1708ss. Sant’Agostino, dello stesso Contini; 1708-1711ss. la cattedrale, di Sebastiano Cipriani; 1710ss. San Quinziano; 1712ss. San Domenico, di un architetto romano innominato; 1714-19 il Suffragio, di Carlo Buratti; 1715ss. Santa Maria di Paganica, e così via).

Nella seconda, ossia gli anni Venti e Trenta del ‘700, si configurarono gli interni di alcune chiese minori che erano state progettate e rialzate al rustico nella prima fase.

Nella terza, ossia gli anni Quaranta/Cinquanta del ‘700, si procedette a radicali innovazioni architettonico-stilistiche di edifici sacri che erano stati riedificati magari nel decennio dopo il terremoto, ma i cui committenti, colpiti dalle magnifiche fabbriche erette successivamente, decisero di ricostruirli dalle fondamenta con nuovi e diversi piani, aggiornati stilisticamente: ad esempio la Santa Caterina Martire, di Ferdinando Fuga, nel 1753.

Una fase extra conclusiva si aggiunse negli anni Sessanta e Settanta, in cui si realizzarono caratteristici progetti in tardo-barocco come il San Luigi, l’Annunziata, il San Giuseppino, e per ultima, nel 1770-75, la facciata del Suffragio in Piazza, di Francesco Leomporra – la cupola 1805 del Suffragio per opera del Valadier, la fronte 1851-59 della cattedrale di San Massimo, compiuta addirittura nel 1928, e la facciata e cupola 1870 di San Pietro di Coppito, furono completamenti postumi, la costruzione 1892 della nuova Concezione, inoltre, essendo dovuta alla balorda demolizione di quella 1705ss. del Fontana, cui si procedette per realizzare i portici del Corso.

È da segnalare, peraltro, che nel corso di tale grandioso interminabile cantiere non soltanto si procedé a ricostruire il patrimonio chiesastico crollato, ma si profittò altresì a sanare in radice, impostandole nuove dalle fondamenta, molte costruzioni sacre medioevali che dal ‘600 in poi per la smania di modernizzazione tipica del tempo spesso erano state rimaneggiate con soluzioni architettoniche e volumetriche tali, sia interne che esterne, che invece di risultarne abbellite ne erano uscite piuttosto deformate.

Per ciò che invece concerne la diocesi, essa al momento del terremoto si trovava senza Vescovo – l’ultimo presule, il De la Cerda, era morto nel 1702 e fino al 1712 governarono la Chiesa locale dapprima il vicario capitolare Francesco Antonelli, rimasto sepolto nel 1703 sotto le macerie della cattedrale, e poi il nuovo vicario capitolare Domenico De Benedictis. Quando poi nel 1712 fu eletto vescovo Domenico Taglialatela, questi non poté prendere possesso a causa dei non ancora risolti problemi giurisdizionali di fine ‘600, sicché passarono altri sette anni sotto amministrazione transitoria: ben 16 anni in tutto, proprio nel periodo decisivo dell’avvio del processo di ricostruzione di San Massimo e delle chiese della città e del contado.
Mentre non mancava, si noti, la dedizione caritativa della Chiesa locale per soccorrere le popolazioni, per la ricostruzione della cattedrale vediamo dapprima il canonico procuratore Ignazio Porcinari impegnare, a due mesi e mezzo dal terremoto, 22 aprile, “i mastri fabbricatori milanesi Domenico Cometti, Pietro Longhi e Francesco Visconti, nonché l’aquilano Narducci, a scavare la cattedrale di S.Massimo, completamentre crollata con la sua ‘bella facciata’, recuperando entro luglio per 230 ducati colonne, marmi, campane, ferri, ed ammucchiando il tutto nella navata centrale”. Nei successivi mesi e anni si susseguono iniziative plurime, come nel 1704 quella per cui il capitolo vende per 25 ducati le pietre di S.Antonio ormai crollante, per procurarsi i danari per la riedificazione della cattedrale, fino ad arrivare al 1709, quando si affida all’architetto Sebastiano Cipriani il progetto per il nuovo edificio sacro, iniziandone i lavori nel 1711.

Sarà il vescovo Taglialatela a fornirci, con la sua relatio ad limina del 1722, la prima informazione sulla situazione delle chiese cittadine a vent’anni dal sisma. Alcune, compresa la Cattedrale, erano ancora in stato “quoddam rude contabulatum”; San Biagio, dove “usque modo lateralis tantum parietes unius navi sunt refecti, in qua divina celebrantur”; altre, erano “a ruinis reparatas” come San Quinziano, oppure “ad formam ornatumque decentem redactas”; San Silvestro, che “antiquitate, amplitudine et structura commendatur a multis”, era “bene retenta, quamvis illius parietes ex terremotu vitium sensit”; altre erano “noviter erectas” ed altre ancora “magnificentius reparatas”; San Marco, “nuper reedificata”; la Concezione, “reparata et in meliorem formam redacta”; Santa Maria di Paganica, “in multis ad meliorem redacta est formam”; Collemaggio, abbellita “eleganti opere et singulari magnificentia”; San Domenico, “noviter a fundamentis magnificentius renovata”; Sant’Agostino, “magnificentius reparata”, e così via.

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Altri particolari, istruttivi per l’oggi in cui si invocano maggiori spazi di partecipazione alle forze operative e culturali locali per la ricostruzione post-terremoto, si riferiscono agli architetti ed artisti, nonché alle imprese edili, che eseguirono materialmente la ricostruzione settecentesca.

Ebbene, la documentazione ci dice che nel ‘700 la piupparte degli architetti che furono chiamati dagli Aquilani a reinventare e riprogettare i loro edifici sacri crollati furono di fuori, romani in assoluta preponderanza, e tra quelli che andavano per la maggiore in quel frangente storico – i Fontana, i Cipriani, i Contini, i Buratti, Barigioni, Ferdinando Fuga. E altresì gli artisti, scultori e stuccatori che abbellirono le nuove fabbriche, furono forestieri, ticinesi in assoluta preponderanza, ed anche sulmonesi e napoletani. Quanto alle imprese edili, risulta che anch’esse per la maggior parte furono forestiere, lombarde/milanesi in assoluta preponderanza, delle quali alcune erano sul posto da secoli, ma molte affluirono all’Aquila appunto per la ricostruzione settecentesca.

Ne risultò per la città, nonché per i centri del contado, e pur mantenendosi sostanzialmente sull’identico impianto urbanistico preesistente, una facies architettonica e formale radicalmente nuova: il carattere ancora prettamente medioevale dell’edilizia urbana, sia civile che religiosa, delle quinte e degli scorci stradali e delle facciate di case, chiese e palazzi, scomparve d’incanto, assumendo la facies moderna grosso modo barocca, del tutto distinta dalla precedente, che conosciamo e che il terremoto del 6 aprile 2009 è venuto a sconvolgere.

Ciò non significa che agli attori ‘forestieri’ fosse stato consentito pervertire l’identità culturale che la città si era andata forgiando nei secoli. Il nuovo volto stilistico dell’Aquila e dei centri del territorio fu voluto tale dai committenti aquilani, che ricorsero a quegli artisti e concordarono con essi nei particolari proposte progettuali, preventivi ed esecuzione delle opere. Il barocco aveva fatto il suo ingresso nell’Aquilano già dal primo ‘600, e nei successivi anni Sessanta e Settanta del secolo, grazie soprattutto alla febbrile creatività di Francesco Bedeschini e degli stuccatori lombardi e ticinesi, aveva riconfigurato e trasfigurato gli interni delle chiese principali. Senza parlare dell’ordine architettonico classico e dell’impianto gesuitico adottati dagli architetti romani settecenteschi nel riconfigurare gli interni delle chiese crollate o danneggiate e nell’inventare le nuove: essi costituivano un dato acquisito nella tradizione architettonica aquilana, incoativamente da fine ‘400 ed inizio ‘500, e nel 1595 del Gesù del Valeriani, nonché nel 1636 per il San Filippo, o il 1646 per il Sant’Antonio de Nardis, in maniera compiuta. È sempre la documentazione, poi, a dirci che quei pur famosi autori per l’ampia generalità dei casi nelle scelte formali ed operative furono determinati del tutto dai committenti locali. Questi ultimi a volte furono intrattabili, come nel caso dei frati di San Bernardino, i quali, di fronte alla tipologia cupolare prismatica proposta dal Contini nel 1708 per coronare di nuovo l’immensa ottagonale sezione centrale della basilica, la rifiutarono, obbligandolo alla molto più polarizzante cupola a calotta estradossata, che dal ‘400 aveva bellamente caratterizzato la chiesa e lo skyline cittadino. In breve nella quarta ricostruzione dell’Aquila e dei centri del suo bacino territoriale il radicalmente nuovo consisté essenzialmente nell’aver esteso e generalizzato agli esterni degli edifici il carattere formale e stilistico che già da tempo informava la generalità degli interni, sia civili sia ecclesiali, e il gusto degli abitanti.

I documenti provano insomma che nell’immane sinergia di forze in azione, le ‘forestiere’ ebbero il sopravvento – del resto l’entità della ricostruzione era tale, ed anche oggi lo è, che non sarebbe stato possibile alle sole forze culturali ed operative locali di portare avanti la grande impresa – ma sviluppando in pienezza premesse culturali ed artistiche già recepite in loco.



FONTE :   .laquilanuova.org/gli-effetti-post-sisma/terremoto-1703-per-la-ricostruzionelavori-scaglionati-in-50-anni-e-sgravi-fiscali/* Mons. Orlando Antonini, 65 anni, è nato a Villa Sant’Angelo (L’Aquila), uno dei borghi distrutti dal terremoto del 6 aprile 2009. Ordinato sacerdote nel 1968, è stato parroco di Picenze. Formazione diplomatica presso la Pontificia Accademia, ha fatto importanti esperienze come Segretario in diverse Nunziature apostoliche: Bangladesh, Madagascar, Siria, Olanda, Francia e Cile. Nel 1999 l’ordinazione episcopale, la nomina a Vescovo e l’affidamento della Nunziatura apostolica in Zambia e Malawi, che ha retto fino al 2005.

Nunzio apostolico in Paraguay fino ad agosto 2009, è ora a Belgrado dove Benedetto XVI gli ha affidato la Nunziatura in Serbia. Scrittore, musicista e storico, mons. Antonini è uno dei più insigni studiosi di architetture religiose e urbane in Abruzzo. Di capitale interesse scientifico le sue pubblicazioni, come  “L’architettura religiosa aquilana” volumi 1 e 2, “Manoscritti d’interesse celestiniano in Francia”, “Chiese dell’Aquila”, “Recupero e riqualificazione dei centri storici del Comitatus Aquilanus”  e “Villa Sant’Angelo e dintorni”. Le sue pubblicazioni sull’architettura religiosa sono imprescindibile punto di riferimento per studiosi e storici dell’urbanesimo abruzzese.

Le foto sono di Sara Hay, Daniele Balducci  Claudio Cerasoli

Eremo Via vado di sole , L’Aquila, martedì 14 febbraio 2012