sabato 31 ottobre 2015

SILLABARI : Orologio

 

 

 Orologio – Alda Merini

Agli oggetti non importa nulla
della nostra vita, ma a noi
interessa molto la storia di questi
esseri feroci che invadono
il nostro mattino.
Questi esseri che si svegliano
con noi all’alba e che continuano
a ripetere crudeli: “Sei ancora
qui con noi, ancora una volta viva”.
Il tempo è l’enorme graziosità della vita, ma per stare a lungo in una casa di cura occorre perderne innanzitutto la cognizione. I medici sono soliti chiedere al paziente: “Che giorno è oggi?”, “Quanti anni hai?”.
E sai che l’intervallo fra un ritiro della pensione e l’altro è di circa due mesi.
Per la persone comuni il tempo è invece una meravigliosa invenzione, Cronos vi abitava egregiamente.
Tutte le campane a martello hanno dichiarato agli uomini che era una certa ora, persino Dracula si affidava alle lancette.
Immanuel Kant servì per anni ai bottegai del quartiere, appena lo vedevano uscire regolavano gli orologi.
Anche mio padre aveva un suo personale regolatore: per orientare l’orologio avvicinava l’orecchio al quadrante come a sentire i palpiti di un cuore. E noi tutti eravamo sorpresi da quei rintocchi che camminavano tra le grandi pareti e portavano un senso di perdono e di adorazione verso il mistero della vita.
Mi vengono in mente i versi di Quasimodo quando prega la morte di non toccare mai la sveglia della cucina dove vive la madre.
Quello smalto bianco che per anni ha verniciato la nostra vita, che ha stabilito i nostri orari, che ci ha mandato a dormire, che ci ha fatto alzare e che ci ha persino detto che era giunta l’ora della poesia.
Tutto si è mosso quasi a nostra insaputa, sul grande paesaggio dell’orologio.
Io, però, preferisco la clessidra con quella sabbia che corre velocemente da un’ampollina all’altra. Tra quei granelli fiorivano i nostri occhi infantili come grandi anemoni, quando la clessidra veniva posata al centro di un ampio tavolo come se fosse una delle sette meraviglie del mondo.
E noi bambini pregavamo ignobilmente o ingenuamente che il passaggio fosse lento, sempre più lento, perchè la sabbia aveva dei riflessi dorati.
E la vita scorre così, come sabbia, con dentro tante pagliuzze d’oro.
Ma è la meridiana il più bell’orologio che io abbia mai visto, perchè non occorre alcun ingranaggio per chiedere al sole quando è l’ora della vita e quando quella della morte. Io uso la parola morte anche per significare il riposo. E’ allora che ci si acquieta.
Io non sono solita chiedere a Dio perdono della mia giornata, so che mi levo inconsapevolmente, che inconsapevolmente vivo e che inconsapevolmente scrivo.
Ho perso il conto dei giorni. Ma mi sento così carica di anni, mi sento ormai così vecchia e infelice che non capisco come mai il mio orologio segreto mi dica talvolta inaspettatamente che è ora di amare.

Eremo Rocca S.Stefano  sabato 31 ottobre 2015



mercoledì 28 ottobre 2015

SETTIMO GIORNO : Le beatitudini



 
 
 
 
Mt 5,1-12a 

1Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. 2Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: 3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. 11Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.

Celebriamo oggi una festa che riguarda soprattutto noi cristiani, discepoli di Gesù Cristo, ma non solo. Sia che siamo ancora viventi, sulla terra, sia che siamo passati attraverso l’esodo della morte e siamo dunque “in cielo”, nel regno di Dio, tutti noi siamo partecipi della beatitudine, della felicità. In un salmo risuona questa domanda: “C’è un uomo che desidera la vita e vuole giorni felici?” (Sal 34,13). L’essere umano cerca la felicità, la vita piena e senza fine, e Gesù vuole dare una risposta a questa sete profonda presente nel cuore di ogni persona.

Ecco dunque davanti a noi le beatitudini di Gesù attestate dal vangelo secondo Matteo, una pagina talmente conosciuta, citata, commentata e predicata che rischiamo di presumere di conoscerla già e di non avere più bisogno di ricominciare a leggerla, meditarla, comprenderla. Gesù ha iniziato il suo ministero pubblico predicando la venuta del Regno (cf. Mt 4,17) e chiamando alla sua sequela alcuni che sono diventati suoi discepoli (cf. Mt 4,18-22). Ormai è un rabbi, un profeta anche per molti credenti di Galilea e di Giudea, e attorno a lui c’è una piccola folla, nella quale abbondano malati, oppressi, poveri, persone che soffrono e piangono (cf. Mt 4,23-25). Gesù sa guardare a quelli che lo cercano, lo incontrano e lo seguono, sa discernere innanzitutto la loro fatica e la loro sofferenza ed è profondamente toccato dai mali delle persone. Non è un predicatore distaccato, che annuncia e parla guardando solo a Dio che lo ha inviato e lo ispira in ogni momento; sa anche guardare all’uditorio concreto, a chi ha di fronte e, come sa ascoltare Dio, così sa ascoltare questa gente che si rivolge a lui con gemiti, invocazioni, lamenti, domande senza risposta…

Secondo Matteo, Gesù decide allora di consegnare a queste persone le promesse di Dio, che possono essere anche un programma per chi vuole seguirlo. Sale sul monte, il luogo delle rivelazioni di Dio e, quale nuovo Mosè, ultimo e definitivo (dopo il quale non ce ne saranno altri!), dà la buona notizia, il Vangelo. Attenzione: non dà “una nuova Legge” – definizione ambigua e sviante – ma dà una parola di Dio che risuona in modo nuovo e crea il regno dello Spirito santo, non più della Legge. Ecco allora il grido: “‘Ashrè”, parola che in ebraico significa soprattutto un invito ad andare avanti, promessa che è certa e precede quanti vivono una determinata situazione, parola che indica uno stile da assumere, parola che cambia l’ottica con la quale si guardano la vita, la realtà, gli altri.

Noi traduciamo quest’espressione tante volte presenti nei Salmi e nella sapienza di Israele con “beati” (dal greco makárioi, che i vangeli prendono dalla versione dei LXX), ma purtroppo non abbiamo un termine italiano che ne sveli adeguatamente il contenuto. “Beati” non è un aggettivo, è un invito alla felicità, alla pienezza di vita, alla consapevolezza di una gioia che niente e nessuno può rapire né spegnere (cf. Gv 16,23). “Beati” ha anche il valore di “benedetti” (cf. Mt 25,34), in opposizione ai “guai” (cf. Mt 23,13-32; Lc 6,24-26), ma indica qualcosa che non è soltanto un’azione di Dio che rende giusti e salvati nel giorno del giudizio (cf. Sal 1,1; 41,2), ma che già da ora dà un senso, una speranza consapevole e gioiosa a chi è destinatario di tale parola. Promessa e programma! Nessuno dunque pensi alla beatitudine come a una gioia esente da prove e sofferenze, a uno “stare bene” mondano. No, la si deve comprendere come la possibilità di sperimentare che ciò che si è e si vive ha senso, fornisce una “convinzione”, dà una ragione per cui vale la pena vivere. E certo questa felicità la si misura alla fine del percorso, della sequela, perché durante il cammino è presente, ma a volte può essere contraddetta dalle prove, dalle sofferenze, dalla passione.

La promessa fatta solennemente da Gesù, parola potente di Dio, è il regno dei cieli, non un luogo, ma una relazione: essere con Dio, essere suoi figli, così come chi non è beato resta lontano e separato da Dio. Questo regno, dove Dio regna pienamente, è la comunione dei santi del cielo e della terra, la comunione dei fratelli di Gesù, dei figli di Dio, che noi cristiani dovremmo vivere con consapevolezza, ma che, a causa della nostra philautía, del nostro egoismo, non arriviamo neppure a credere saldamente. Questa esperienza del regnare di Dio su di noi possiamo farla qui e ora, alla sequela di Gesù: ciò accade quando su di noi non regnano né idoli, né poteri di nessun tipo, quando sentiamo che solo Dio e il Vangelo di Gesù ci determinano, ci muovono, ci tengono in piedi. È questo il caso in cui possiamo dire, umilmente ma con stupore, senza pensare di avere meriti, che Dio regna in noi, su di noi, dunque il regno di Dio è venuto: sempre però in modo non osservabile (cf. Lc 17,20), da noi riconosciuto solo parzialmente, sempre in modo fragile, che possiamo negare con il nostro venir meno all’amore.

Essere “poveri nello spirito”, nel cuore – precisa Matteo –, non semplicemente “poveri” (Lc 6,20), ma esserlo nell’umiltà di chi sa attendere Dio e la sua giustizia (cf. Mt 6,33) può aprire alla beatitudine di chi riceve in dono il regno di Dio.

Essere piangenti è una condizione frequente: le lacrime scorrono sul viso come un’invocazione, un grido a volte muto, ma il Signore raccoglie le lacrime (cf. Sal 56,9), non le dimentica. Ed ecco, manda già ora il Consolatore (cf. Gv 15,26; 16,7) a consolare, affinché ci aiuti ad attraversare la sofferenza e poi alla fine ci doni la gioia eterna, quando Dio asciugherà lacrime da ogni volto (cf. Is 25,8; Ap 7,17; 21,4).

Essere miti tra gli uomini e le donne, miti su questa terra, senza abitarla con prepotenza né violenza, senza riconoscere solo se stessi, rinunciando a ogni volontà di aggressione, fosse anche per difesa, è non solo possedere la terra promessa da Dio, ma già oggi pregustare una risposta amorosa da parte dell’umanità. San Francesco e papa Giovanni con la loro mitezza hanno “posseduto la terra”, nel senso più vero, evangelico, senza attraversare i sentieri del potere e della ricchezza.

Chi ha fame e sete di giustizia, cioè non è mosso dalla legge del vivere nella forza senza riconoscere l’altro, ma è vittima dei fratelli e delle sorelle che non si accorgono di lui, non desista da questa fame e combatta affinché Dio gli dia ora un cibo che lo sostiene e poi nel Regno quella giustizia della quale tanto ha avuto fame e sete.

Chi fa misericordia agli altri “obbligherà” Dio a fargli misericordia, perché Dio – dicevano i padri del deserto – obbedisce ai misericordiosi che sono come lui (cf. Lc 6,36), hanno lo stesso cuore, sono cioè santi come lui è santo (cf. Lv 19,2; 1Pt 1,16).

Essere puri di cuore significa vedere tutte le persone e gli eventi con gli occhi di Dio, vederli con “gli occhi del cuore” (Ef 1,18). Allora la gioia è quella di essere trasparenti, di non dover impiegare il tempo a organizzare la “maschera” con la quale desideriamo apparire agli altri ed essere da loro conosciuti. È la gioia di capire che l’altro è altro, è un dono di Dio, è un fratello o una sorella, e che io accetto di non mettere le mani su di lui o su di lei, di non possederli, sfruttarli, strumentalizzarli.

Un uomo, una donna che sa “fare pace” in ogni situazione di conflitto, da quelle tra i fratelli e le sorelle a quelle tra i popoli, siccome compie ciò che Dio vorrebbe fosse fatto, mostra di essere già qui sulla terra figlio, figlia di Dio, cioè partecipe della sua natura (cf. 2Pt 1,4), e lo sarà definitivamente nel regno dei cieli.

Infine, per tutti i discepoli la beatitudine riguarda il loro stare nel mondo tra le ostilità e le persecuzioni. Se un discepolo di Gesù riceve solo approvazione, applauso, abbia timore e si interroghi se è veramente tale! Almeno l’ostilità, la calunnia, l’opposizione deve conoscerla. Ha detto Gesù: “Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi!” (Lc 6,26). Cercare questo consenso è una delle peggiori tentazioni nella chiesa: compiacere tutti per essere da tutti approvati; sedurre gli altri per ricevere il plauso e avere successo; mancare di parrhesía cristiana (che sembra essere scambiata, all’interno della propria comunità o della chiesa, con la libertà di mormorare!) per essere da tutti apprezzati. Che miseria! Certo, in tal modo si sarà apprezzati e si avrà successo, ma non si conoscerà dentro di sé la gioia più vera, la beatitudine di essere in piena comunione con Gesù Cristo. Per rallegrarsi in profondità occorre invece non guardare ai propri interessi né mettere in atto alcuna strategia, ma “tenere fisso lo sguardo su Gesù” (cf. Eb 12,2) e solo da lui accettare la ricompensa, che consiste nel poter condividere il suo amore.

La comunione dei santi che festeggiamo oggi è gioia, festa per quanti con umiltà, senza arroganza, senza vanti, si riconoscono in queste situazioni sulle quali Gesù ha posto come sigillo la beatitudine.
 
Le Beatitudini, promessa e programma 1 novembre 2015Comunione dei santiCommento al Vangelodi ENZO BIANCHIdal sito del Monastero di Bose 

SILLABARI : Tempo




Io non credo che il tempo possa mai, in alcun modo, tiranneggiare nessuno. Il tempo non ha nulla a che vedere con le persone; ha invece tutto a che vedere con il valore delle persone, che è il valore da esse prodotto. Cercherò di spiegare il mio punto di vista usando l'economia e la contabilità come linguaggio. Il tempo è il solo valore che esiste, perchè è la sola moneta unitaria con la quale si paga tutto il resto, la moneta che comprende e determina il valore di tutte le altre. Puoi non accorgertene se invece di cercare di fare delle contabilità globali, fai una serie sterminata di bilanci parziali: così come il contabile vede separatamente ciascuna voce del piano dei conti e non i trasferimenti di prima nota, i "dare" e "avere" che intercorrono tra un conto e l'altro; o così così come l'amministratore di una società attiva non si preoccupa del disastro del gruppo a cui appartiene e del bilancio consolidato. E puoi non accorgertene se tieni fuori dai tuoi conti e dai tuoi progetti i cosiddetti costi di opportunità. Questo è un problema che affligge la grande maggioranza degli uomini, ma che proprio in italia si fa problema sistemico: l'assoluta mancanza di visione del tempo, la non percezione del collegamento tra tutti i fatti e le probabilità della vita di un organismo sociale in un bilancio unico. In questa visione, la pazienza di cui parli, è tempo investito: una cosa del tutto diversa dal tempo sprecato di cui parli subito dopo. Come per qualsiasi transazione, il massimo valore di un'acquisizione deriva dal massimo rapporto tra beneficio e investimento. Questo significa agire sull'investimento, riducendolo per incrementare il valore della transazione. Poichè l'investimento è il tempo, si tratta di non sprecare il tempo, ridurlo al minimo possibile a parità di beneficio. Ora torniamo alla cultura. Poichè ogni acquisizione della mente ha valore soltanto all'atto della produzione, il beneficio si valuta in termini di produttività - o, per tornare al linguaggio consueto, la conoscenza che non produce cambiamento non soltanto non è cultura, ma non ha alcun valore. E la produttività si paga, di nuovo, con il tempo. Se pensi al gatto di Schroedinger capisci facilmente quello che intendo: finchè la scatola resta chiusa, la vita del gatto non esiste. Quando la apri, il gatto è morto oppure vivo e produce cambiamento nella realtà. Ma il gatto di Schroedinger è UN solo gatto in UNA sola scatola. Per aprire una serie di scatole e incrementare la quantità di gatti vivi, devi usare il tempo. E per usare il tempo, per agire sulla società, per trasformare la conoscenza in cultura... il tempo non devi mai averlo sprecato.
Enrico Penco

ELOGI ED ESORTAZIONI : Dillo in italiano





Sollecitare ad un uso più accorto della lingua da parte degli amministratori publici. E' questo l'obiettivo dell'iniziativa ''Dillo in italiano'', la petizione lanciata da Annamaria Testa su Internazionale cui hanno aderito i giornalisti Michele Serra (Repubblica) e Massimo Gramellini (La Stampa). Basta con uso smisurato di parole come workshop, meeting, jobs act da parte di politici e istituzioni. Una petizione per invitare il governo italiano, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese a parlare un po’ di più in italiano.

LA PETIZIONE - Di seguito, ecco il testo della petizione:

La lingua italiana è la quarta più studiata al mondo. Oggi parole italiane portano con sé dappertutto la cucina, la musica, il design, la cultura e lo spirito del nostro paese. Invitano ad apprezzarlo, a conoscerlo meglio, a visitarlo.
Le lingue cambiano e vivono anche di scambi con altre lingue. L’inglese ricalca molte parole italiane (manager viene dall’italiano maneggiare, discount da scontare) e ne usa molte così come sono, da studio a mortadella, da soprano a manifesto. La stessa cosa fa l’italiano: molte parole straniere, da computer a tram, da moquette a festival, da kitsch a strudel, non hanno corrispondenti altrettanto semplici, efficaci e diffusi. Privarci di queste parole per un malinteso desiderio di “purezza della lingua” non avrebbe molto senso.
Ha invece senso che ci sforziamo di non sprecare il patrimonio di cultura, di storia, di bellezza, di idee e di parole che, nella nostra lingua, c’è già. Ovviamente, ciascuno è libero di usare tutte le parole di qualsiasi lingua come meglio crede, con l’unico limite del rispetto e della decenza. Tuttavia, e non per obbligo ma per consapevolezza, parlando italiano potremmo tutti cominciare a interrogarci sulle parole che usiamo. A maggior ragione potrebbe farlo chi ha ruoli pubblici e responsabilità più grandi.
Molti (spesso oscuri) termini inglesi che oggi inutilmente ricorrono nei discorsi della politica e nei messaggi dell’amministrazione pubblica, negli articoli e nei servizi giornalistici, nella comunicazione delle imprese, hanno efficaci corrispondenti italiani. Perché non scegliere quelli? Perché, per esempio, dire form quando si può dire modulo, jobs act quando si può dire legge sul lavoro, market share quando si può dire quota di mercato? Perché dire fashion invece di moda, e show invece di spettacolo?
Chiediamo all’Accademia della Crusca di farsi, forte del nostro sostegno, portavoce e autorevole testimone di questa istanza presso il governo, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese. E di farlo ricordando alcune ragioni per le quali scegliere termini italiani che esistono e sono in uso è una scelta virtuosa.
1) Adoperare parole italiane aiuta a farsi capire da tutti. Rende i discorsi più chiari ed efficaci. È un fatto di trasparenza e di democrazia.


2) Per il buon uso della lingua, esempi autorevoli e buone pratiche quotidiane sono più efficaci di qualsiasi prescrizione.
3) La nostra lingua è un valore. Studiata e amata nel mondo, è un potente strumento di promozione del nostro paese.
4) Essere bilingui è un vantaggio. Ma non significa infarcire di termini inglesi un discorso italiano, o viceversa. In un paese che parla poco le lingue straniere questa non è la soluzione, ma è parte del problema.
5) In itanglese è facile usare termini in modo goffo o scorretto, o a sproposito. O sbagliare nel pronunciarli. Chi parla come mangia parla meglio.
6) Da Dante a Galileo, da Leopardi a Fellini: la lingua italiana è la specifica forma in cui si articolano il nostro pensiero e la nostra creatività.
7) Se il nostro tessuto linguistico è robusto, tutelato e condiviso, quando serve può essere arricchito, e non lacerato, anche dall’inserzione di utili o evocativi termini non italiani.
8) L’italiano siamo tutti noi: gli italiani, forti della nostra identità, consapevoli delle nostre radici, aperti verso il mondo.

 Nel linguaggio comune, imperversano neologismi e termini stranieri che man mano stanno sopravanznado nella frequenza d'utilizzo i corrispettivi vocaboli italiani. Se alcune parole come “marketing”, “sport”, “rock”, “browser”, “smog” non trovano un corrispondente efficace nella nostra lingua, ci sono altri termini come "workshop", "abstract", "fashion", "light" di cui ptoremmo far benissimo a meno, utilizzando i loro corrispettivi italiani "seminario", "riassunto", "moda", "leggero". I nostri stessi lettori, spesso, ci fanno notare spesso che preferiscono essere definiti "amanti dei libri" piuttosto che "booklovers". In occasione dell'iniziativa "Dillo in italiano'', la petizione lanciata per rivendicare l'uso della lingua italiana da parte delle istituzioni, vi proponiamo una serie di termini stranieri di cui potremmo benissimo fare a meno, in quanto "doppioni" di vocaboli italiani. Non si tratta di una crociata contro le lingue straniere, né contro l’impiego dei molti termini inglesi che non hanno corrispondenti italiani efficaci e accettati, ma semplicemente di un gesto d'orgoglio nei confronti della nostra amata lingua italiana.

“Leggere è una ricchezza per la persona e per la comunità”. Le riflessioni di Mattarella



Signori ministri,
carissimi giovani che avete partecipato al progetto Libriamoci.
Sono davvero molto lieto che voi siate qui, e che possiate conoscere questo Palazzo, che è la casa degli italiani, il Quirinale.
Questi sono giorni che segnano qualche difficoltà, per quel che è avvenuto nei giorni scorsi, sono giorni che scuotono le istituzioni europee e che interpellano nel profondo il nostro stesso senso di umanità. Centinaia di profughi e di migranti sono morti ancora una volta nel Mediterraneo. Siamo di fronte a tragedie davvero sconvolgenti: trafficanti di esseri umani che provocano stragi di innocenti. Sentiamo questa ferita lacerante. E’ nostro dovere – dovere dell’Europa, dell’intera comunità internazionale fare di più per impedire queste stragi. La scuola, il mondo della cultura, voi giovani, siete risorsa indispensabile per un rilancio della solidarietà, per l’affermazione di una cultura di pace, per un riconoscimento condiviso del bene comune.
E quello di cui parliamo oggi, nella Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore, non è estraneo a questo lavoro, paziente, di costruzione di una società matura.
Leggere è una ricchezza per la persona e per la comunità. E’ una porta che ci apre alla conoscenza, alla bellezza, a una maggiore consapevolezza delle nostre radici, ai sentimenti degli altri che spesso ci fanno scoprire anche i nostri sentimenti nascosti, come poco fa è stato detto. Non è vero che la lettura sia stata e sia un’abitudine di personalità introverse. E’ vero il contrario: è una chiave per diventare cittadini del mondo, per conoscere esperienze lontane, per comprendere le contraddizioni e le storture, ma anche per comprendere le grandi potenzialità del mondo che ci circonda, dell’umanità che ci circonda. E’ un modo per far nascere speranze, per coltivarle, per condividerle.
I latini chiamavano liber il manoscritto, il libro. Liber, come il sostantivo e l’aggettivo che definivano l’uomo libero. Si tratta – lo sapete, certamente lo sanno i vostri docenti – di etimi diversi. La parola “libro” viene da corteccia, la corteccia degli alberi sulla quale si incidevano le iscrizioni. Ma questa identità del termine è quanto mai opportuna: in questo tempo avvertiamo particolarmente che leggere è parte di un percorso di libertà. Diceva un grande scrittore per ragazzi, Gianni Rodari: “Vorrei che tutti leggessero. Non per diventare letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo”. Più libri vuol dire più libertà. Più lettori vuol dire più conoscenza, più spirito critico, più autonomia di giudizio, elementi essenziali di una convivenza.
La società dell’iper-connessione, per definizione, dilata le facoltà dell’uomo, con un accesso, senza confini apparenti a nuovi contenuti e appare dischiudere una libertà quasi infinita. E’ come se un mondo divenuto più piccolo ci dicesse: la libertà è qui, basta coglierla, non c’è bisogno di alcuno sforzo, il mercato sovrabbonda di merce; ma non tutta è merce di qualità.
E invece, tanto più ci avviciniamo alla libertà, tanto più scopriamo che essa è delicata, che merita un’attenzione speciale, che comporta la fatica della responsabilità e dei doveri. La libertà, per radicarsi ed ampliarsi davvero, non può fare a meno della cultura e della coscienza. Il sapere è condizione di libertà. Perché è condizione del pensiero. Le riflessioni e le passioni che la lettura suscita costituiscono un ponte verso il futuro.
E, oggi, abbiamo grande bisogno di pensare al futuro, di progettarlo e di immaginarlo.
Il “tempo reale” dell’informazione tende a schiacciare tutto sul presente, con un rapido consumo e veloce abbandono delle notizie e delle emozioni, dei pensieri che esse suscitano. Ma, se gli obiettivi contingenti prevalgono sui progetti e gli investimenti per il domani, noi rischiamo di uniformare il pensiero, di appiattirlo, anziché di accrescere la capacità creativa.
Leggere, conoscere, pensare con la propria testa sono antidoti all’omologazione. Dunque sono qualità che rendono viva una civiltà, la nostra civiltà. Sono beni che le istituzioni e i corpi intermedi della società devono essere capaci di diffondere, soprattutto in favore delle generazioni più giovani, le più bisognose di futuro.
Va per questo sottolineata positivamente, in questo senso, l’azione dei ministeri che hanno cooperato per la riuscita del progetto “Libriamoci”, diretto particolarmente ai giovani e vi incoraggio a proseguire su questa strada e, se possibile, a svilupparla. Il ”Maggio dei libri”, voluto dal Centro per il libro e la lettura, così come l’iniziativa dell’Associazione Italiana Editori con l’hashtag #ioleggoperchè, sono altre iniziative che vanno nella giusta direzione.
Il valore della cultura va sottolineato e sostenuto come parte essenziale della ricchezza, anche economica, di un Paese. È quello che si ama definire capitale sociale: la trasmissione, cioè, della cultura di un popolo attraverso le generazioni, base di ogni avanzamento sociale e del processo di innovazione. All’ impegno educativo va data la priorità che merita, anche al fine di ricomporre il patto di fiducia fondamentale tra le famiglie e la scuola.
La ricchezza e la prosperità del Paese (è elemento ben noto), non risiedono soltanto su assetti economici industriali e materiali. Prima ancora dello sviluppo dell’industria digitale, in Italia si annoveravano beni immateriali preziosissimi che valgono capitali inestimabili, e che producono dividendi non solo economici ma soprattutto morali e sociali decisivi per la qualità della civiltà e della vita dei cittadini.
So bene che non basta una generica esortazione alla lettura, in un tempo in cui i messaggi volano sintetici e velocissimi, come mai è accaduto nella vicenda umana.
Non si tratta di lanciare appelli generici. Né ancor meno si tratta di riservare all’attività di formazione spazi protetti, dove i nuovi media vengano tenuti lontani. L’errore più grande che possiamo compiere è contrapporre le innovazioni e le nuove tecnologie agli strumenti che hanno accompagnato gli studi e la crescita delle generazioni precedenti. Il mezzo di distribuzione di un contenuto non va confuso con i contenuti. Il libro resta fondamentale, ma non è contrapposto alle versioni in e-book. Così come il quotidiano di carta non può essere opposto al formato oggi disponibile sul tablet, sul cellulare o sul computer.
Fondamentale è la circolazione dei contenuti e l’accesso ad essi. Il pensiero va subito alle biblioteche, tradizionali e virtuali (un contributo all’innovazione, nei decenni scorsi, è stato dato dal progetto del Servizio Bibliotecario Nazionale, Sbn, del Ministero dei Beni culturali), con la loro capacità di sollecitare nei giovani la curiosità e soddisfare le attese degli adulti. Al tempo stesso, continuano ad avere un’importanza strategica le librerie e le altre forme distributive del libro.
La lettura non è esercizio alternativo all’uso degli strumenti della modernità e dell’innovazione. Il suo valore rimane inalterato nei diversi supporti che oggi sono disponibili ai cittadini, e particolarmente ai giovani. La lettura genera sapere condiviso, passioni, produce comunità: nostro compito è far diventare le conoscenza una rete attiva.
Si tratta di una sfida cruciale.
La Giornata mondiale del libro pone a tema anche il diritto d’autore, che rischia di essere esso stesso aggredito e sminuito dallo sviluppo delle reti e dalla moltiplicazione delle piattaforme informative e di comunicazione. Il riconoscimento della creatività dell’autore è parte di quella trasmissione dei valori, e di quello stimolo alla crescita e alla cultura, di cui abbiamo parlato. Il legislatore interno e quello europeo sono chiamati alla vigilanza e all’aggiornamento necessari per non disperdere patrimoni di cui tutti possiamo beneficiare.
Permettetemi, ora, un saluto affettuoso alle due studentesse che hanno declamato, in lingue diverse, una poesia cinese.
”Divertendomi” è il titolo di questi versi. Divertendoci possiamo crescere, allargare il nostro cuore e la nostra mente, abbracciare realtà che sarebbero state irraggiungibili anche soltanto ai nostri padri. Dobbiamo andare incontro al futuro tenendoci per mano, non chiudendoci nella solitudine o nell’egoismo. Leggere, lo abbiamo detto, è aprirsi. Conoscere le lingue, impadronirsi ancora di più, attraverso esse, di culture di altri popoli, è aprirsi ancora di più. E’ questo, cari giovani, il futuro di cui dovete diventare protagonisti e non solo spettatori.
L’Unesco ha dedicato il 23 aprile alla Giornata del libro perché in quella data, nel 1616, morirono tre grandissimi scrittori. Uno di questi è Miguel de Cervantes, l’ideatore di don Chisciotte, maschera grottesca ma al tempo stesso simbolo di un passaggio d’epoca. L’arcaico mondo cavalleresco che don Chisciotte si ostinava a interpretare non c’era più, era finito per sempre. Tuttavia, il suo radicato senso di giustizia e la sua utopia costituivano uno sguardo critico sulle debolezze di una modernità che si era ormai affermata.
Cari giovani, il tempo che ci sta alle spalle non tornerà. Non saranno i nostalgici del passato a fare la storia. Si apre anche davanti a noi un’epoca nuova. Ma in questa nuova stagione dobbiamo saper portare quei tesori, quei desideri, quelle speranze che possono aiutarci a diventare artefici della nostra vita e costruttori di una società migliore.
Buon lavoro a tutti. E buone letture.
l’intervento integrale del Presidente della Repubblica Mattarella in vista della Giornata Mondiale del libro e del diritto d’autore in programma il 23 aprile
(tratto da www.quirinale.it)

SILLABARI : Discernimento





 


La parola chiave del grande Sinodo sulla famiglia appena chiuso dai 270 padri sinodali (vescovi, cardinali, religiosi, laici) è “discernimento”. È questo il metodo con cui la Chiesa supera le divisioni tra conservatori e progressisti e si apre ai problemi del nostro tempo, a cominciare dalle lacerazioni della famiglie e dalla spinosa questione dell’ostia ai divorziati risposati. Significa che nei confronti dei divorziati, o delle coppie irregolari che vogliono ricevere il sacramento della Comunione, i parroci o i religiosi cui si rivolgeranno valuteranno la questione “caso per caso”.
Quella che irrompe nella storia è un’idea di Chiesa diversa, non più “in ritardo di due o trecento anni” come diceva il cardinale di Milano Carlo Maria Martini, gesuita come papa Bergoglio, ma vicina alla gente, armata di un’altra parola centrale nel ministero di questo Papa: la misericordia.
Sul tema degli omosessuali, come aveva già anticipato il cardinale Schoenborn, arcivescovo di Vienna e figlio di separati, il documento non cambia posizione rispetto alla prima parte del Sinodo che si era chiuso lo scorso anno: “Nei confronti delle famiglie che vivono l’esperienza di avere al loro interno persone con tendenza omosessuale, la Chiesa ribadisce che ogni persona, indipendentemente dalla propria tendenza sessuale, vada rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare “ogni marchio di ingiusta discriminazione”.