giovedì 22 novembre 2012


OCCHIO DI GIUDA  : Intra moenia
La tarantola racconta 22 novembre 2012

Quando esci da lì, il mondo è quadrato e regolare.
Guardi verso destra, guardi verso sinistra e non riesci a vedere la fine del viale alberato, dritto e ordinato. Sei spuntato fuori da quel muro lungo quanto il viale, perfettamente grigio e squadrato, le cui linee sono interrotte solo dalla torre di vedetta blu. Ce n’è una anche là in fondo e una dalla parte opposta, che ti fanno intuire la fine del viale e il punto dove il muro continua dietro l’angolo. Che è un perfetto angolo di novanta gradi: lo sai perché non potrebbe essere diversamente, ma anche perché tre ore prima, arrivando in macchina, hai pensato che non ti era mai capitato di vedere tanti angoli retti tutti insieme.
Lungo quel viale non c’è nessuno (a parte le persone che sono uscite con te dalla piccola porta scorrevole: blu) e di Roma intuisci la presenza, un po’ più in là, col caos, il traffico e tutto il resto. La fila di alberi è regolare, i gialli e i marroni dell’autunno, poi, ti aspettano discreti, senza fare domande. Non sono mica sfacciati come i colori dell’estate, che ti corrono incontro gridandoti “ehi, eccoti finalmente! beh, di cosa abbiamo voglia, oggi?”.
Quando esci da lì pensi che è giusto così, e che se l’avessi deciso tu l’avresti fatto esattamente in quel modo: quadrato, regolare, ordinato.
Perché in quel momento hai bisogno di due cose.
Una, un po’ di silenzio per ascoltare le voci che ti accompagnano da là dentro.
Due, angoli retti e linee dritte per metterle in cornice, quelle voci, quelle facce e le ore che hai passato di là dal muro.
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Il punto è il modo che ha Bianca di chiederti le cose. Anche se non la guardi in faccia, anche per iscritto: prima di ora Bianca l’ho incontrata una sola volta nel mondo reale, ma mi è bastata per immaginarmi, ogni volta che leggo le sue email e i suoi post su Facebook, la sua voce entusiasta che più si accalora e più accentua quelle venature di Abruzzo e basso Lazio, e i suoi occhi ipnotici.
Il punto è il modo che ha Bianca di chiederti le cose. Di solito, quando qualcuno ti propone di fare qualcosa che non hai mai fatto prima, ti domandi innanzitutto se sai come si fa. Quando te lo chiede Bianca, dici di sì e poi pensi “adesso però devo capire come si fa”.
Bianca aveva scritto due mesi prima: “ti va di parlare a Rebibbia?”
“Il capolinea della metro? Una volta ho suonato la chitarra alla stazione di Piazza di Spagna.”
“No, no: il carcere. Una lezione a Rebibbia.”
Io avevo risposto: “Fai conto che sono già lì.”
Lei aveva riscritto: “Benissimo, ti contatterà Monica.”
Io avevo cominciato a pensare: “Da che parte si comincia per fare una lezione a Rebibbia?”
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Bianca

Io e Bianca siamo arrivati in zona con largo anticipo, per metterci in un angolo di un bar a preparare il nostro materiale.
A un certo punto, nei giorni scorsi, Monica ci ha fatto sapere che la lezione l’avremmo fatta insieme. Con un grande sospiro di sollievo da parte mia: se devi fare una cosa che non hai mai fatto prima, in un posto dove non sei mai stato prima, la cosa migliore che possa capitarti è di portare Bianca con te. Ve lo dico anche come consiglio.
L’unico bar vicino all’unico parcheggio libero non ha sedie né tavolini. In equilibrio sul trespolo il massimo che puoi tentare è mordere un cornetto senza sbilanciarti: di smanettare col powerpoint non c’è speranza. Così dopo il cornetto ci chiudiamo in macchina, però dai ché il tempo corre. Guardiamo l’orologio perché fra meno di un’ora abbiamo appuntamento con Monica, un botanico e un’archeologa in qualche altro bar qua intorno. Magari stavolta con i tavoli.
Mentre scarico dalla sua chiavetta le fotografie da copiaincollare nella presentazione, Bianca le indica sul monitor del mio computer e me le spiega una ad una. A un certo punto mi fa: “ma come è cominciato tutto questo?”.
“Mi hai scritto tu due mesi fa”, le ricordo.
“Ah. Io pensavo fosse stata una tua idea.”
“Mia? No. Era tua.”
Bianca scrolla il capo.
“Anzi”, aggiungo, “me l’hai detto in quel periodo che stavi leggendo il mio librino. Pensavo che l’avessi passato tu a Monica e che lei ti avesse fatto la proposta.”
Bianca ci pensa ancora. Poi si scuote come per dire “vabbè, non è importante” e torna a spiegarmi le foto.
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Quando esci di lì, hai bisogno di un po’ di silenzio. Perché lì dentro è una specie di amplificatore.
Per esempio, il lungo corridoio coi tuoi passi che risuonano (insieme a quelli di Bianca, di Monica, dell’archeologa, del botanico, dell’educatrice e dell’agente che accompagna tutti verso l’aula) è probabile che te lo ricorderai per un pezzo. Perché forse quel colore pallido e quelle forme neutre sono stati pensati per sollecitare il grado più basso possibile di stimoli emotivi. E invece hanno l’effetto di azzerare qualunque variabile esterna e qualunque rumore di fondo, e quello che senti, cento volte più forte del normale, senza interferenze, sei tu. Tu, la tua voce e quella di chi ti accompagna. E i saluti di persone che ti si fanno incontro, che ti sorridono e ti danno la mano: sei appena entrato in casa loro.
Lì dentro è un amplificatore.
Mentre sei lì con loro e parli di bellezza, e di città, e di quanto i luoghi c’entrino con quello che sei e col modo in cui ti vedi e ti racconti, e di come se quel luogo muore anche tu non te la passi tanto bene, ascolti il silenzio impressionante dell’aula, vedi gli occhi puntati e realizzi che sul rapporto con un luogo che non esiste più, o sul non vederlo per molto tempo, o addirittura mai più, loro potrebbero scriverci un saggio interminabile. E quando spieghi che secondo te le fratture nei muri sono anche fratture dell’anima, e racconti che c’è della gente a cui da quei muri fratturati (e dunque anche un po’ dalla propria anima) è stato ordinato di allontanarsi, uno alza la mano e ti domanda incredulo: “ma come gli è venuto in mente? Ma lei ce l’ha una spiegazione?”. Ti sta dicendo che lui su quelle fratture ce ne ha da raccontare, e che se quelli che si sono guadagnati il privilegio di stare fuori dalle mura avessero un grammo di giudizio, di quel legame fra la gente e i luoghi si prenderebbero cura, altro che amputarlo d’autorità.
È un amplificatore, lì dentro: perché le cose che porti da fuori entrano in una risonanza tale con le storie di lì, che ti ritornano indietro con un impatto che ti toglie il fiato.
“Fratture”, si chiama l’incontro organizzato per questo lunedì pomeriggio. Bianca ha preparato una bella introduzione su città e di bellezza, io ho un po’ di appunti su luoghi e autobiografia. L’idea era di parlare di come dalle fratture della vita possa scaturire novità e creatività. La vicenda dell’Aquila (che poi, tu guarda alle volte, è l’evento che ha causato anche l’incontro fra me e Bianca) doveva essere lo spunto e la cornice: seguendo le domande delle persone che abbiamo incontrato lì dentro, invece, diventa la protagonista. Un po’ perché quella notte la sveglia imprevista delle 3 e 32 è suonata anche a Roma, anche per loro. E un po’ per la vorace curiosità verso quello che succede nel mondo di fuori.
Ma soprattutto, da tempo avevo un pensiero e qui vi trovo conferma: fra chi abita lì dentro c’è un senso della giustizia tutto speciale. Gli racconti di una sopraffazione, di una angheria, e loro non se ne fanno una ragione. Ti fanno domande, ti incalzano, vogliono capire come sia possibile una follia del genere.
≡≍≡

Avevamo deciso di portare dei libri per la biblioteca del carcere, in ricordo del nostro passaggio. Qualcosa che avesse un legame con la nostra lezione.
Bianca ha avuto due idee strepitose. Ha con sé una copia delle “Lettere dal carcere” di Gramsci, che fa sempre bene, ma soprattutto ha un grande libro fotografico con le immagini della città distrutta e degli stessi luoghi un po’ prima del terremoto. Lo sfogliavo in auto mentre arrivavamo a Roma: “Dio, Bianca, guarda…”, le ho detto, “i portici con lo struscio…”. Lei guidava ed è rimasta con gli occhi puntati in avanti. Ma mica per non distogliere lo sguardo dalla strada. No, non è quello. “Per carità, non farmela vedere!”, mi ha intimato.
Aveva ragione. Quell’immagine faceva proprio male al cuore.
Quando scendiamo dalla macchina tiro fuori da una tasca della valigia un libro pieno di foto sulla Basilica di San Bernardino. È il regalo che ho portato io. Lo sfoglio, me lo guardo. Uhm…
Bianca sta per chiudere il bagagliaio, “aspetta!”, le dico.
Riapro la valigia, frugo fra due maglioni. Tiro fuori un libro che ultimamente porto con me nei miei viaggi.
Un romanzo bizzarro e fantastico, con dei personaggi grotteschi, quasi dei fumetti, che hanno nomi incredibili come Don Sisma, Principino Poppy, Anxiety, Caverna Hammer e tanti altri che non mi ricordo. È ambientato in una città (per tutti “la Città”) dopo un terremoto spaventoso (per tutti “la Grande Scossa”). Un libro pazzesco e divertente: l’ha scritto un autore aquilano, Enrico Macioci. Anche il titolo è strano: “La dissoluzione familiare”. È una storia che è una lente deformante di un evento (un terremoto) che a sua volta è una lente deformante della realtà.
Lancio San Bernardino dentro la valigia, chiudo il bagagliaio e dico a Bianca: “Andiamo.”
Devo ricordarmi di ordinarne un’altra copia appena torno a casa.
Fonte  :http://massimogiuliani.wordpress.com/2012/11/22/intra-moenia/
Eremo Rocca S.Stefano giovedì 22 novembre 2012

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