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mercoledì 9 settembre 2015

Bambini migranti



mercoledì 9 settembre 2015 11:29

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Un milione di profughi stimati per l'Unione Europea nel corso dell'anno corrente. Attraverso le porte del mare o della terra ferma uomini, donne, bambini, adolescenti e vecchi tenteranno di raggiungere i paesi del nord Europa. Per ricongiungersi a parenti e amici o solo per iniziare comunque una nuova vita. Scappavano dalla fame ,dalla miseria, dal bisogno negli anni passati; scappano oggi dalle guerre e da quello che ne consegue. Un milione alle porte d'Europa. Una cifra enorme all'apparenza. Ma non lo è a confronto del numero di profughi accolti dal Libano, dalla Turchia, dai paesi arabi.

Un fenomeno difficile da comprendere per il cittadino normale, spesso utilizzato strumentalmente, affrontato con impreparazione, carico comunque di sofferenza, dolore e morte. Un fenomeno dal quale non riesce ad emergere il cuore del problema: restituire agli individui il diritto (che vengono a cercare, si badi bene, in Europa, la storica terra dei diritti) della dignità della persona, la dignità di esseri umani e come tali unici, insostituibili e irripetibili. L'Europa si rassegni, non è solo emergenza. Anche se da lungo tempo su questo fenomeno si esercita un dibattito più o meno costruttivo da parte dei politici, dei mass media, che tenta di mettere in evidenza problemi e soluzioni.

Il problema nel problema che poche volte viene messo all'attenzione è quello dei minori migranti soli, non accompagnati. C'è in questo senso, in questa emergenza un dramma nel dramma. Bambini e adolescenti che affrontano da soli viaggi pericolosi per fuggire da fame e guerre. Bambini e adolescenti che giunti in Europa letteralmente scompaiono, vittime di sfruttamento di ogni tipo, da quello lavorativo a quello sessuale. Ogni tipo di sfruttamento, abuso e violenza già subiscono nel corso della traversata dalle loro terre all'Europa per sopravvivere, reperire i denari per pagarsi il viaggio e il sostentamento. Arrivati in Europa, paradossalmente, sono esposti ad altrettanti pericoli.

Tra i "piccoli schiavi invisibili" che Save the children segnala in un suo dossier, una buona percentuale, secondo le statistiche, diventa irreperibile. Tra il 2013 e il 22 giugno 2015 sono 160 gli scomparsi. Le stesse statistiche segnalano per l'Europa la sparizione di 3.707 minori sui 14.243 entrati. Fuggono da centri di accoglienza per affidarsi a volte a trafficanti di esseri umani, per entrare nel circuito della microcriminalità, per essere impiegati nell'accattonaggio e nella prostituzione.

In un documento del Ministero del lavoro italiano si legge che nel nostro paese fino al 31 luglio 2015 sono entrati 8.442 minori non accompagnati identificati (ma il numero potrebbe essere notevolmente superiore). Provengono dall'Egitto, Albania, Cambia, Eritrea, Somalia, Nigeria, Senegal, Bangladesh, Mali, Afghanistan. I sedicenni sono il 20 per cento, i diciassettenni il 54 per cento, i maschi il 94 per cento. I minori stranieri entrati nel nostro paese secondo la normativa italiana non possono essere espulsi e hanno diritto ad ogni assistenza fino al compimento del 18esimo anno di età. Sono attualmente assistiti da 914 strutture dislocate per il maggior numero in Sicilia, Lombardia, Lazio, Campania e Puglia.

In sostanza, un mondo all'interno di un altro mondo (quello dell'emigrazione globale) un fenomeno all'interno di un altro fenomeno. Al quale però si guarda con scarsa preparazione, con scarsi interventi e soprattutto con un quadro normativo inadeguato e insufficiente. Quest'ultima esigenza è una delle istanze poste, per esempio, dagli operatori del settore minorile che in questi giorni, di fronte alla richiesta di famiglie italiane di avere in affidamento o in adozione bambini e adolescenti non accompagnati, si trovano con le mani legate. Si tratta di creare allora una rete di protezione per minori migranti e una normativa con una marcia in più. In considerazione anche delle cifre di questo fenomeno. Come si diceva, i minori giunti soli in Italia sono numericamente raddoppiati dal 2012 al 2014 passando dai 5.821 ai 10.536 e nei primi sette mesi di quest'anno sono stati 8.442.

A proposito di normativa è fermo da mesi al Parlamento un disegno di legge a firma di 26 deputati di maggioranza e opposizione che mette a punto nuove regole superando lacune e bizantinismi. Con questa proposta di legge si istituisce un sistema informativo, si promuove l'affidamento familiare, si introduce una procedura unica di identificazione, si adottano misure per favorire l'inserimento scolastico, l'utilizzo di mediatori culturali, la possibilità che a 18 anni il permesso di soggiorno si trasformi in permesso di lavoro. Norma quest'ultima di estremo buon senso per non espellere persone che per anni sono state assistite e formate, dilapidando così le risorse economiche impiegate e il capitale umano che rappresentano. E' anche fermo il Piano Nazionale contro la tratta con attenzione ai minori, nonostante sia passato il 30 giugno 2015, data ultima per l'adozione del provvedimento.

Una rete di protezione, dunque, per combattere efficacemente la vendita di ragazze nell'ambito di matrimoni precoci, a costo variabile anche fino a 50 mila euro; per evitare che minori siano costretti a rubare per ripagare debiti contratti per il viaggio e il sostentamento; per evitare che ragazze con il sogno di modelle ma anche semplicemente di baby sitter o parrucchiere finiscano sul marciapiedi; per mettere regole alla contesa di bambini; per evitare che ragazzi egiziani siano sfruttati nei mercati di frutta e verdura dove caricano dieci pancali su camion per dieci euro ma anche presso autolavaggi, pizzerie per due o tre euro all'ora per dodici ore al giorno. Questo attualmente avviene in Italia.

E per essere ancora più precisi in tema di tratta sono, secondo le stime di Save the children, 1.679 le vittime accertate di tratta con una quota significativa di minori.

Affogati in mare, scene da "pulp", asfissiati nelle stive, muri costruiti in fretta e furia non fermeranno questo fenomeno.

Rivedere la normativa italiana e quella europea (accordo di Dublino per esempio), esercitare azioni poltiche comuni e condivise, fuori dalla retorica dell'accoglienza, possono essere un primo passo per non abdicare, da parte dell'Europa, ad uno dei compiti fondamentali della stessa unione: dare dignità alle persone. Dignità che è probabilmente l'unica strada da percorrere per capire, affrontare e governare il fenomeno dell'immigrazione.

venerdì 30 agosto 2013

LINEA D’OMBRA : La penna e il tamburo

LINEA D’OMBRA : La penna e il tamburo

30 agosto 2013 alle ore 20.34
LINEA D’OMBRA : La penna e il tamburo

Giorgio Mariani   Lapenna e il tamburo Gli Indiani d'America e la letteratura degli Stati Uniti

il manifesto - 18 Aprile 2003

INDIANI RIBELLI AL CIECO DESTINO
Di felicità e di uguaglianza ci parla la gloriosaDichiarazione d'Indipendenza americana, che, però, contemporaneamente annunciala demonizzazione e lo sterminio degli indiani. L'ultimo libro di GiorgioMariani, "La penna e il tamburo", pubblicato da Ombre Corte

di ALESSANDRO PORTELLI

C'è una curiosa e feconda ambiguità nel titolo dell'ultimolibro di Giorgio Mariani, La penna e il tamburo. Gli Indiani d'America e laletteratura degli Stati Uniti (Ombre Corte, € 13: in una collana intitolata"Americane", diretta da Roberto Cagliero e Stefano Rosso - tral'altro, tutti dell'equipe americanistica della rivista "Acoma").Dunque: che cos'è il tamburo lo sappiamo, e sappiamo che c'entra con gliindiani (Tamburi lontani...). Ma la penna? La penna, ovviamente, è unostrumento di comunicazione che, come il tamburo, serve a mandare messaggi. Inquesto senso, la penna è un'alternativa al tamburo, e una sua continuazione conaltri mezzi generati dalla conquista, dalla modernizzazione,dall'acculturazione. Ma riferita agli indiani d'America, la penna evoca anchealtre associazioni: per esempio le penne che dalle mie parti noi bambinistrappavamo alle galline per mettercele in testa e giocare agli indiani (giàallora nessuno voleva fare il cowboy). In questo senso, allora, la pennasuggerisce che anche quando si mettono a scrivere - e con la frequenza einnovativa creatività che Mariani ci fa vedere - gli indiani non dismettono gliabiti tradizionali e, con i nostri mezzi, fanno i conti con l'immagine che noiabbiamo di loro. "La scrittura", dice Simón Ortíz, grande poetaamericano del pueblo di Acoma in Nuovo Messico, non è "un ponteattraversato, ma una parte del sentiero, della strada, del viaggio, su cui giàcammini". Il libro di Giorgio Mariani lo mostra con esemplare chiarezza,accompagnata ma non offuscata da un rigore critico e da un aggiornato dialogocon la storia della critica letteraria e le sue tendenze attuali. Ne vienefuori un libro che è al tempo stesso militante e, nel senso migliore dellaparola, accademico; un contributo non marginale alla nostra comprensione dellacomplessità della cultura degli Stati Uniti.
Il libro è sostanzialmente diviso in due parti. Come spiegaMariani nell'introduzione, la prima mette in luce il modo in cui l'identitàdegli Stati Uniti, non solo letteraria, "si è venuta formandocontrapponendosi a una identità indiana", peraltro "largamenteconcepita dal punto di vista della cultura dominante euroamericana, e legatadunque alle immagini più o meno stereotipate che quest'ultima ha proiettatosulle popolazioni indigene del Nord America". Qui Mariani riprendecriticamente una decisiva intuizione di Toni Morrison. In Giochi nel buio, lagrande scrittrice afroamericana ha dimostrato, infatti, che la "presenzaafricanista" incombe su tutta la letteratura degli Stati Uniti, non soloin quei testi in cui gli afroamericani sono presenti ma anche, forsesoprattutto, dove sono cancellati. Lo stesso vale, aggiunge Mariani, perl'altra fondamentale presenza sul suolo nordamericano, gli indiani (e il fattoche Morrison non ne faccia cenno fa capire quanto divisa, settorializzata, sial'identità americana anche nelle sue punte più alte di coscienza).
Il margine, dunque, diventa centro: gli indiani, i neri, nonsono un'alterità occasionale, un esotismo coloristico o una minaccia incombente,ma una condizione istitutiva del discorso dominante stesso. Un testo americanoin cui non esistono indiani o neri è un testo americano che ha preliminarmentecompiuto il lavoro invisibile di cancellarli. "Non a caso", scriveMariani, la Dichiarazione d'Indipendenza, testo fondante della libertàamericana, "menziona i nativi esclusivamente come quegli `spietatiselvaggi indiani', scatenati dalla corona inglese contro le colonie"; eaggiungerei che la sacra Costituzione degli Stati Uniti d'America menziona indianie neri solo come "all other persons", "tutte le altrepersone", conteggiate per tre quinti nella rappresentanza elettorale deibianchi ma privi essi stessi di voto e cittadinanza. In un discorso recente, invista della guerra all'Iraq, citando per intero il brano della dichiarazioned'Indipendenza (che continua: "gli spietati selvaggi la cui ben notaregola di guerra è un'indiscriminata distruzione di tutte le età, sessi econdizioni"), lo scrittore indiano americano Sherman Alexie diceva:"dunque gli Stati Uniti sono stati fondati, in parte, sulla demonizzazionedei Nativi Americani, ed è dannatamente facile giustificare lo sterminio didemoni, no?" Io aggiungerei: non è curioso che quella gloriosaDichiarazione sia per noi "occidentali" la affermazionedell'uguaglianza e del diritto alla felicità, e sia per gli indiani l'annunciodella loro demonizzazione e sterminio? Della uguaglianza e felicità di chiandiamo parlando.
D'altra parte, un testo americano in cui gli indianicompaiono è un testo americano che ha fatto o sta facendo il lavoro dirappresentarli come una proiezione di sé. Nel rapido ma convincente excursussulla storia della critica americana sulle rappresentazioni letterarie degliindiani, da Roy Harvey Pearce a Richard Slotkin, da D. H. Lawrence a LeslieFiedler, emerge come anche la critica al genocidio mantenga una decisivaambivalenza: da un lato, riconosce la presenza degli indiani e la violenzaesercitata su di loro dal progresso della civiltà euroamericana; ma,dall'altro, li legge solo come oggetto della soggettività dei loro distruttori,come problema per la coscienza di questi ultimi. Il senso di colpa è alimentatodalla proiezione dell'indiano in un passato dal quale è destinato a nonemergere perché la sua estinzione si è già consumata o è inevitabile.
In realtà, come Mariani eloquentemente ci ricorda, gliindiani non erano e non sono estinti, e hanno continuato in tutto il corsodella conquista a parlare ai loro conquistatori, anche a costo di doverlo farenella loro lingua, nei loro termini, con i loro strumenti. Tra le grandi figurea noi sconosciute della storia e della cultura americana, per esempio, dobbiamoannoverare quel William Apess che sta alla storia degli indiani un po'comeFrederick Douglass sta alla storia dei neri. Indiano Pequot (è la tribù che dàil nome alla nave di Moby Dick) convertito al protestantesimo, in tutta laprima metà dell'800 Apess continua a ribadire ai bianchi la loro comune umanitàcon gli indiani, e a ricordare all'America le sue stesse leggi, le sue stessenorme morali e religiose, che viola brutalmente nel modo come tratta gliindiani.
Mariani insiste giustamente sul fatto che Apess (comeFrederick Douglass) e tutte le voci degli indiani d'America nell'800 nonrovesciano meccanicamente il discorso della cultura dominante: se per i bianchigli indiani sono "l'Altro", Apess, Black Hawk, George Copway, SaraWinnemucca rifiutano di riconoscere un'alterità essenziale nei bianchi mainsistono a rivolgersi ad essi come esseri umani simili a sé. Anche per questo,gran parte delle autobiografie indiane che ci sono arrivate - da Black Hawk aBlack Elk (Alce Nero) - sono in realtà dialoghi, fra un narratore indiano e unascoltatore, copista, interprete, traduttore, scrittore bianco. Come ha scrittoArnold Krupat e come sviluppa Mariani, questi testi non ci danno l'autenticitàincontaminata di una cultura ma l'incontro fra due culture, il dialogo, ilconfronto, lo sforzo di spiegarsi e di capirsi.
Questo diventa ancora più vero in tempi più vicini a noi,quando - soprattutto a partire dalla fine degli anni `60 - esplode una speciedi "rinascimento letterario" degli indiani d'America, che producetesti ormai canonici per qualunque storia della letteratura americana, da HouseMade of Dawn di N. S. Momaday a Ceremony di Leslie Marmon Silko, da Winter inthe Blood di James Welch a Indian Killer di Sherman Alexie. Proprio a questoromanzo - un horror urbano intriso di rabbia politica e memoria storica -Mariani dedica un'analisi ravvicinata,mostrando l'intreccio complesso dellecategorie temporali tradizionali e occidentali, "tra universo mitico eframmentazione postmoderna", come recita il titolo del capitolo (e anchequi, un'ambiguità feconda: Indian Killer vuol dire sia killer indiano, siakiller di indiani. E il romanzo si muove in questo spazio, fra dolore per laviolenza subita e furore di violenta vendetta).
Alla fine, il mistero dell'identità del killer restairrisolto. Ma il mistero vero, come scrive Mariani, è un altro: "unaresistenza indigena alla colonizzazione euroamericana che scompagina lestrutture temporali delle 'grandi narrazioni' nazionali degli StatiUniti". E continua a farlo: "In quanto Nativo Americano, conoscointimamente la storia delle menzogne americane in tempo di guerra e di pace. Inparole povere, gli organi esecutivi e legislativi degli Stati Uniti hannoviolato tutti i trattati firmati con tutte le tribù Native, e solo l'interventooccasionale e imprevedibile del ramo giudiziario ha restituito e protettooccasionalmente la sovranità tribale. Perciò, come Nativo Americano, trovoparadossale che gli Stati Uniti vogliano fare la guerra all'Iraq perché viola itrattati... Trovo gravissimo che l'Iraq violi da dieci anni le risoluzionidelle Nazioni Unite, ma sono altrettanto scandalizzato dal fatto che gli StatiUniti hanno il coraggio di prendere una posizione di superiorità morale aproposito di trattati violati".
"E' tutto nel passato, direte voi", canta lamusicista Nativa Americana Buffy Sainte Marie, a proposito di altri trattativiolati, "ma succede ancora, qui ed oggi". Insomma, possiamo dire -con le parole di un personaggio di Indian Killer che sono anche le parole concui Mariani sceglie di chiudere il suo libro: "Non è finita affatto".


Diario, 4 luglio 2003

Racconto degli indiani. La difficoltà di essere nativi
di Francesco Dragosei

Nel suo noto saggio del 1992, Giochi al buio: il bianco e ilnero nella letteratura americana, la scrittrice Toni Morrison rileva comel’ossessiva e oscura presenza dei neri nella letteratura americana abbiacostituito la pietra fondamentale su cui i bianchi hanno edificato ladefinizione di se stessi, oltre che dei propri schiavi neri. Per esempio, lasensibilità americana per la libertà e per i diritti umani sarebbe stataparadossalmente stimolata dallo stato di schiavitù in cui erano tenuti gliafro-american. Partendo da quel libro della Morrison, Giorgio Mariani sipropone con questo suo bel saggio di dimostrare come, assieme a quella delnero, sia stata la figura dell’indiano a essere costantemente al centroprofondo della letteratura e dell’io americano. Presenza fondamentale, ma alcontempo così spesso deformata da potersi quasi parlare di un’invisibilità delNative American agli occhi dell’America bianca. I gradi di invisibilitàvarieranno nel corso della Storia. In una prima fase – al momento dellaconquista del continente – il Native American si vedrà negare l’appartenenza algenere umano, trasformato in creatura demoniaca e abietta, utile a giustificarel’intervento «civilizzatore» dei conquistatori. In una seconda l’indiano avràun riconoscimento di umanità, ma non quello della propria soggettività:continuando a essere considerato un oggetto dell’osservazione dei bianchi.Frutto di tale visione sarà, per esempio, The Indian in American Literature: unclassico scritto da Albert Keiser nel 1933, e che comincerà a gettare unaqualche luce di verità sulla figura del Native American. Altre difficoltà sullavia del riconoscimento dell’indiano sorgeranno dal doversi la sua culturaprettamente orale inserire nella gabbia di scrittura (e altro) della tradizioneletteraria europea. Difficoltà che saranno aggravate – per quanto riguarda iprimi scrittori indiani – dal doversi essi esprimere in una lingua non propria,e, in un secondo momento, dal non ricordare nemmeno più l’idioma originario.Serie di ambiguità che si riassumono nel dilemma di uno scrittore indianodiviso tra «la penna» della cultura di arrivo e «il tamburo» della cultura dipartenza.
Per fortuna, a riequilibrare un po’ la situazione, ci sarà aun dato momento la presenza di un certo numero di nuovi scrittori indiani(dalla Leslie Marmon Silko a Gerald Vizenor, a Sherman Alexie) che cercherannodi restituirci una visione realistica dell’indiano e della sua cultura. Dellaquale però – avverte Mariani – saranno parte talmente importante eimprescindibile i vari gradi di allontanamento da sé (e di assimilazione allacultura statunitense) che sarebbe un nuovo, grave errore non riconoscerli, nonprendere atto di quello che è ormai un complicato, stratificato (taloraambiguo) ibrido culturale. Un errore che, a questo punto, rappresenterebbel’ennesimo atto di disconoscimento dell’indiano. Di accettazione della suainvisibilità.
Recensione di Matteo Sanfilippo sulla rivista telematicaIPERSTORIA

Eremo Rocca S.Stefano venerdì 30 agosto 2013











lunedì 10 giugno 2013

LINEA D’OMBRA :Lavoro minorile


LINEA D’OMBRA :Lavoro minorile


Domani 11  giugno  è la vigilia della Giornata Mondiale contro illavoro minorile, un fenomeno preoccupante, che impedisce a tanti bambini diricevere un'istruzione adeguata e che si traduce in alcuni casi in estremeviolazioni dei loro diritti.

Sul lavoro minorile L’ILO  (1) scrive :

 

Nel mondo circa 200 milioni di minori lavorano, spessoa tempo pieno, e sono privati di un’educazione adeguata, una buona salute e delrispetto dei diritti umani fondamentali. Di questi, circa 126 milioni —ovvero 1 ogni 12 bambini al mondo — sono esposti a forme di lavoroparticolarmente rischiose, che mettono in pericolo il loro benessere fisico,mentale e morale. Inoltre circa otto milioni di minori sono sottoposti allepeggiori forme di lavoro minorile: la schiavitù, il lavoro forzato, losfruttamento nel commercio sessuale, nel traffico di stupefacenti el’arruolamento come bambini soldato in milizie.

Negli ultimi 15 anni il mondo ha preso consapevolezza che il lavoro minorile èun pressante problema economico, sociale e umano. Oggi il fenomeno stadiminuendo in tutto il mondo e, se questa tendenza continuerà, le peggioriforme potrebbero essere eliminate entro i prossimi dieci anni. Questo è ilrisultato diretto di un grande movimento internazionale impegnato contro illavoro minorile. I risultati sono evidenti nel numero di paesi che ratificano la Convenzione n. 182dell’ILO sulle peggiori forme di lavoro minorile. Adottata nel 1999, la Convenzione è stataratificata dalla quasi totalità degli Stati membri.

Analogamente la Convenzionen. 138 dell’ILO sull’età minima, adottata nel 1973, è già stata ratificatadall’80 per cento degli Stati membri. L’ILO è stato uno deiprincipali promotori del movimento mondiale contro il lavoro minorile: il suoProgramma per l’eliminazione del lavoro minorile (IPEC), lanciato nel 1992, èpresente in oltre 80 paesi. Come per altri aspetti riguardanti il lavorodignitoso, l’eliminazione del lavoro minorile è un problema sia di dirittiumani che di progresso; la politica ed i programmi dell’ILO hanno comeobiettivo quello di garantire ai minori l’educazione e la formazione di cuinecessitano per crescere e lavorare da adulti in condizioni dignitose.

(1 ) L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) èl’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere il lavoro dignitoso eproduttivo in condizioni di libertà, uguaglianza, sicurezza e dignità umana peruomini e donne. I suoi principali obiettivi sono: promuovere i diritti deilavoratori, incoraggiare l’occupazione in condizioni dignitose, migliorare laprotezione sociale e rafforzare il dialogo sulle problematiche del lavoro.

L’ILO è l’unica agenzia delle Nazioni Unite con una struttura tripartita: irappresentanti dei governi, degli imprenditori e dei lavoratori determinanocongiuntamente le politiche ed i programmi dell’Organizzazione.

L’ILO è l’organismo internazionale responsabile dell’adozione e dell’attuazionedelle norme internazionali del lavoro. Forte dei suoi 185 Stati membri, l’ILOsi prefigge di assicurare che le norme del lavoro siano rispettate sia neiprincipi che nella pratica.
 
Eremo Rocca S. Stefano lunedì 10 giugno 2013





sabato 16 febbraio 2013

LINEA D’OMBRA : Diritti dell'infanzia, il ruolo dei garanti in Italia


LINEA D’OMBRA  : Diritti dell'infanzia, il ruolo dei garanti in Italia

Il 15 febbraio  all’Istituto degli Innocenti a Firenze  si è tenuto un convegno internazionale con Garanti ed esperti del settore.
Le istituzioni indipendenti per i diritti dell’infanzia hanno un ruolo fondamentale nella relazione fra due mondi agli antipodi: quello delle politiche e dei governi e quello dei bambini, cittadini spesso esclusi dalle scelte che li riguardano e inascoltati. I garanti per l’infanzia nascono per restituire voce ai bisogni dei più piccoli e far si che i loro interessi stiano al centro dei meccanismi di governo.
E' un messaggio forte e esplicito quello lanciato dal rapporto In difesa dei diritti dell’infanzia. Uno studio globale sulle istituzioni indipendenti dei diritti umani per l’infanzia realizzato dal Centro di Ricerca UNICEF di Firenze. Lo studio è al centro del dibattito nel convegno In Difesa dei Diritti dell’Infanzia Il ruolo dei garanti per l’infanzia in Italia:ambiti di intervento e prospettive di sviluppo organizzato dalla Regione Toscana, dal Centro di Ricerca dell’UNICEF, dal Garante Regionale per l’Infanzia e dall’Istituto degli Innocenti, che si è svolto oggi all'istituto.
“La difesa dei diritti dell’infanzia vede impegnato da sempre l’Istituto degli Innocenti, - spiega la presidente Alessandra Maggi. Un impegno che ci lega da più di 25 anni al Centro di ricerca UNICEF, e che ci vede impegnati a supporto delle attività della Regione Toscana e del Garante regionale. Un impegno che individua nelle istituzioni indipendenti, come il Garante, una importante affermazione della necessità di dar voce concreta e reale alla “cittadinanza” di bambini e ragazzi”.
Il Convegno ha riunito i garanti italiani a livello regionale e il garante nazionale, esperti del settore e giuristi e rappresenta un momento di scambio di esperienze per mettere a fuoco le prospettive di sviluppo dei garanti nel nostro paese, a partire da un confronto con la situazione mondiale.
Per il Garante per l'infanzia della Regione Toscana, Grazia Sestini, che ha coordinato i lavori della mattinata, l’approccio del garante è al bambino nella sua totalità: membro di una famiglia e di una comunità, mai solo ma sorretto e accompagnato nella vita secondo il rispetto di quattro principi fondamentali: alla non discriminazione, a godere sempre dell’interesse superiore, alla vita e ad essere ascoltato nel pieno rispetto dell’età e della maturità. Da qui l’importanza della figura del Garante, per sua natura organismo monocratico e indipendente per la tutela dei diritti dei bambini e degli adolescenti, e quindi non subordinato ad alcun potere politico o esecutivo.
Sono sempre in aumento i paesi che istituiscono figure indipendenti per garantire i diritti dei bambini. Come emerge dallo studio UNICEF oltre 200 istituzioni di questo tipo sono state create in 70 paesi nel mondo negli ultimi due decenni.
Nel 1981 la Norvegia è stato il primo paese ad istituire il garante per l’infanzia, ancora prima dell’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite per l’infanzia del 1989. Nel 1986 è stato seguito dal Costa Rica. Da allora la nascita delle istituzioni indipendenti ha subito una forte accelerazione, soprattutto in Europa e in America Latina, mentre in Africa e Asia solo a partire dal 2000. In Medio Oriente e Nord Africa il tema ha ricevuto recentemente grande attenzione.
In Italia la figura dell'Autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza a livello nazionale è stata istituita con la legge 12 luglio 2011 n. 112. Il Garante, nominato dai presidenti di Camera e Senato, dura in carica quattro anni e riveste un ruolo centrale nel promuovere la tutela dei diritti dei minori, vigilare sull'applicazione della Convenzione Onu sui diritti del fanciullo, diffondere la conoscenza e la cultura dei diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, segnalare alle autorità competenti casi di violazione dei diritti dei minori.
Il Garante nazionale è chiamato a collaborare, oltre che con le reti internazionali dei Garanti anche con i garanti per l'infanzia a livello regionale, al momento presenti in 9 regioni e nelle due provincie autonome di Trento e Bolzano. In Toscana il Garante è stato istituito con Legge regionale 1 marzo 2010, n. 26. (fr. cop)

Eremo Rocca S.Stefano Domenica 17 Febbraio 2013

lunedì 21 maggio 2012

LINEA D’OMBRA : Io non tacerò

LINEA D’OMBRA : Io non tacerò

In un momento ancora una volta difficile  per il nostro paese la verità ,la ricerca della verità è essenziale per la vita democratica. Mi piace  allora richiamare l'attensione su questo " Io non tacerò". Non tacere chiedere incessantemente la verità.

A Palermo sbarcò di notte, protetto da uomini armati di mitraglia. Una corsa nella , città deserta, un portone di ferro che si spalanca e poi la caserma che sarebbe diventata la sua nuova casa. «Sono stati i quattro anni e quattro mesi più intensi della mia vita», qui quando ormai Giovanni Falcone e Paolo Borsellino - i suoi figli, i suoi fratelli, i suoi amici - non c'erano più. Era arrivato il 9 novembre del 1983, cento giorni prima avevano fatto saltare in aria il consigliere istruttore Rocco
Chinnici. E lui  Antonino Caponnetto, aveva preso il suo posto. E lui Antonìno Caponnetto, era stato quello che subito dopo aveva messo la sua fìrma su un milione di pagine e sulla prima pagina di una  sentenza-ordìnanza che avrebbe fatto la storia della Sicilia: «Questo è il processo all' organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra ... », Era l'atto di accusa contro i boss che avevano seminato morte e terrore, era l'inizio della primavera di Palermo.

La sua straordinaria avventura siciliana è diventata un libro Io non tacertò (Melampo Editore, pagg. 288, euro 16) curato da Maria Grimaldi dove sono stati raccolti i discorsi, le lezioni, gli scritti del galantuomo che fece nascere il pool antimafia e si fece scudo per difendere "i suoi gìudicì" dagli attacchi più infami che cominciarono proprio quando il maxì processo a Cosa Nostra era ormai alle porte. Discreto, silenzioso, all'apparenza fragile ma dentro duro come l' acciaio, Antonino Caponnetto segnò il confine fra la Palermo  di prima e la Palermo di dopo, testimone del cambiamento di una città che non sarebbe mai più tornata quella di un tempo. Dieci anni di memorie, dal 1992 al 2002, dalla stagione delle bombe fino alla sua morte.

Il suo pensiero è stato riversato in questo volume che è la lunga cronaca di una battaglia dopo la battaglia, un peregrinare per l'Italia dopo le stragi per portare insegnamenti e ricordi nelle piazze e nelle scuole: la mafia e l'antimafia, la pace, l'educazione alla legalità, i diritti dei cittadini e l'informazione. E ogni emozione partiva sempre da là, da Palermo: «lo capitai su mia domanda». La scelta degli uomini da affiancare a Falcone (“Nino, devi recuperare Paolo Borsellino ... mi suggerì Giovanni”), la campagna contro il pool scatenata da Il Giornale di Sicilia e da Il Giornale, le tante "estati dei veleni", i Corvi, gli attentati. Fino al maggio 1992. Fino al luglio 1992. Fino all'uccisione dei suoi due migliori amici palermitani. Si è sempre chiesto Antonino Caponnetto, intuendo quello che i procuratori avrebbero sospettato tanto tempo dopo: «Perché questa doppia strage? Non è una riposta semplice da dare. A un certo momento sembra troppo facile dire: la mafia ne aveva decretato la sentenza a morte. Ne aveva decretato la morte e l'ha eseguita. Sì, questo è vero. Però con tecniche che la mafia non ha mai usato, che fanno pensare quanto meno al coinvolgimento di altri elementi, magari anche esterni».

Dalla Sicilia al lavoro minorile, da certa stampa che «stravolge i fatti» alla P2 ( Leggo la dichiarazione con la quale l'onorevole Silvio Berlusconi sostiene che" essere piduisti non è un titolo di demerito" ... »), dal progetto di «destrutturazione della Costituzione» ancora alla Palermo che era rimasta nel suo cuore.

Le sue ultime parole sono state naturalmente per Giovanni e Paolo, per la "dolcissima Francesca" e gli uomini delle loro scorte: «Sono morti tutti per noi, per gli "ingiusti". Abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente». E infime, il saluto: «E ora vi lascio ... so che il mio percorso è ormai prossimo a concludersi». Antonino Caponnetto è morto qualche settimana dopo, il 6 dicembre de1 2002. Al suo funerale una grande folla. E nemmeno un'''autorità'', neanche un solo uomo di governo a rendere omaggio a "nonno Nino", il consigliere istruttore che onorò Falcone e Borsellino da vivi.

Recensione di Attilio Bolzoni al libro  Io non tacerò  pubblicata su Repubblica del  23 luglio 2010

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, lunedì 21 maggio 2012

martedì 15 maggio 2012

LINEA D’OMBRA : Minori e nuove povertà

LINEA D’OMBRA  : Minori e nuove povertà

Il 22,6% dei bambini italiani, quasi uno su quattro, è a rischio povertà, con uno spread rispetto agli adulti dell' 8,2%, uno dei più alti in Europa. Tra i più colpiti, i bambini con un solo genitore, tra i quali quasi 1 su 3 è a rischio povertà, e i figli delle giovani coppie, dove il rischio povertà colpisce quasi un minore su 2. Sono gli allarmanti dati del nuovo dossier "Il paese di Pollicino" di Save the Children che, per tutto il mese di maggio, lancia la campagna "Ricordiamoci dell'infanzia", con le foto di tre bambini che impersonano il premier Monti e i ministri Fornero e Passera da piccoli. Tra le azioni di sensibilizzazione un grande evento il 25 maggio a Roma, altri eventi in 13 città, un appello al Governo.

Secondo il rapporto gli adulti italiani si sono dimenticati dei bambini. "Altrimenti - sostiene Save the children - il nostro Paese sarebbe già corso ai ripari di fronte ai dati drammatici che ci posizionano ai primi posti della classifica europea sul rischio povertà minorile, e alla loro escalation negli anni": 1 minore su 4 oggi, pari al 22,6% dei bambini che sono nel nostro paese, è a rischio povertà, vive cioè in famiglie con un reddito troppo basso per garantirgli ciò di cui avrebbe bisogno per un sano e pieno sviluppo psichico, fisico, intellettuale e sociale. Un dato che è il più alto degli ultimi 15 anni - con una crescita del 3,3% rispetto al 2006 - e che ha uno spread, un differenziale rispetto agli adulti a rischio povertà, dell'8,2% (gli over diciotto in condizione di forte disagio economico sono infatti il 14,4% della popolazione italiana).

Un dato che schizza a livelli mai registrati finora nel caso di bambini figli di madri sole - per i quali l'incidenza di povertà sale al 28,5% - e nel caso in cui il capofamiglia abbia meno di 35 anni: in questi nuclei 1 figlio su 2 è a rischio povertà. Il Sud e le Isole sono le aree del paese a più alta incidenza di povertà, che raggiunge rispettivamente quasi il 40% (con quasi 2 minori ogni su 5 a rischio povertà) e il 44,7%.

Dal rapporto emergono alcune tendenze che richiedono massima attenzione e tempestività di intervento. In particolare la riduzione in povertà di molti bambini e delle loro famiglie, l'aumento di fenomeni di sfruttamento legati alle condizioni di disagio sociale, emarginazione e solitudine, in cui si trovano molti minori sia stranieri che italiani.
Il Rapporto conferma la preoccupante crescita della povertà minorile. Stime recenti valutano in 17 milioni i bambini in stato di povertà in Europa, con l'Italia al secondo posto per minori poveri.
Tale situazione va ricollegata anche alle condizioni economico-sociali delle mamme e al loro status di occupate o disoccupate. L'Ocse, l'organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ha infatti dimostrato una relazione inversamente proporzionale tra tasso di occupazione femminile e tasso di povertà tra i bambini.

Un'altra fascia di bambini e ragazzi particolarmente vulnerabile è quella dei minori migranti: un gruppo ancora insufficientemente tutelato sin dall'arrivo alle nostre frontiere, dove approdano anche ragazzi provenienti da paesi in guerra, magari ex bambini soldato. Una volta entrati in Italia, la difficoltà di accedere a programmi di integrazione e, successivamente, di avere un permesso di soggiorno, li mette in una condizione di solitudine e debolezza, quindi a rischio di cadere vittime di fenomeni di sfruttamento sia sessuale che lavorativo e di devianza.

Sono quasi 6.500 i minori stranieri non accompagnati, in Italia, secondo i dati del Comitato minori stranieri. Di questi minori, sempre più numerosi (l'Italia è insieme alla Spagna il paese europeo con il più alto numero), una percentuale rilevante è in Italia senza un regolare titolo di soggiorno, nonostante non possano essere espulsi e abbiano dunque diritto al rilascio di un permesso di soggiorno. Inoltre moltissimi di questi minori, si legge nel Rapporto, si allontanano immediatamente dalle comunità di accoglienza in cui vengono inseriti, tornando a vivere in condizioni assolutamente inadeguate: in case o fabbriche abbandonate o per strada. Non vanno a scuola, non accedono all'assistenza sanitaria e sono dunque esposti a varie forme di sfruttamento.

La diffusione della prostituzione minorile è una delle facce della scarsa tutela e solitudine dei minori stranieri, benché il fenomeno coinvolga anche molti minori italiani. All'interno del fenomeno della prostituzione, merita una particolare attenzione quella maschile straniera tanto poco conosciuta quanto diffusa. Per questi ragazzi, spesso, la decisione di prostituirsi non è frutto della coercizione, anche se resta elevato il rischio ed anche i casi di sfruttamento, ed è ricorrente il loro coinvolgimento in attività illegali. La prostituzione minorile italiana invece riguarda, per lo più, bambini e ragazzi che, a causa di condizioni socio-economiche disagiate, trovano, in modo coatto o autonomo, nella prostituzione un supporto economico per sé o per il proprio nucleo familiare.

Paradossalmente ad oggi non conosciamo il numero di bambini e bambine che vivono fuori della famiglia: non sono state istituite anagrafi regionali sul numero di minori in strutture residenziali, come istituti e case-famiglia, e non è operativa la banca dati dei minori dichiarati adottabili e degli aspiranti genitori adottivi. Mancano dati ufficiali sui minori Rom. Non è possibile stimare il numero di minori vittime di tratta, dato che gli unici dati disponibili sono quelli relativi al rilascio dei permessi di soggiorno per protezione sociale e ancora incomplete sono le statistiche sull'abuso a danno di minori.

Il rapporto si conclude infatti con le indicazioni per il nuovo Governo: "Per esempio, ci auguriamo che provveda quanto prima all'istituzione del Garante nazionale indipendente per l'infanzia. Rafforzi e implementi il meccanismo per la raccolta e l'analisi dei dati disaggregati sui minori. Provveda all'adeguata accoglienza dei minori stranieri in Italia regolamentando la materia relativa al rilascio del permesso di soggiorno, al diritto al lavoro, al diritto alla protezione all'arrivo in frontiera. Auspichiamo che sia finalmente approvata una legge sul diritto all'asilo. Che grazie all'azione congiunta di istituzioni e ong di settore, si avviino misure per il supporto ai minori vittime di tratta e di varie forme di sfruttamento, da quello sessuale, a quello lavorativo".

La versione integrale del Rapporto è scaricabile dal link: savethechildren

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì 15 maggio 2012

LINEA D’OMBRA : Bicarbonato

LINEA D’OMBRA  : Bicarbonato

Una buona notizia per tutti noi e una cattiva notizia per la case farmaceutiche arriva direttamente dal sito laleva.org. Il Dr. Mark Pagel della University of Arizona Cancer Center, riceverà 2 milioni di dollari dal National Institutes of Health per studiare l’efficacia della terapia personalizzata con bicarbonato di sodio per il trattamento del cancro al seno.
In realtà, il bicarbonato di sodio è una delle cure più efficaci contro malattie acute come influenza e raffreddore, inoltre, se assunto per via orale e transdermica, ecco che il bicarbonato diventa una prima cura per il trattamento del cancro, malattie renali, diabete e, come detto prima, raffreddore e influenza.
In sostanza, il bicarbonato agirebbe sul grado di acidità del nostro sangue. Il pH del nostro sangue e dei nostri fluidi corporei non rappresenta altro che il nostro stato di salute e il bicarbonato rappresenterebbe un vero e proprio regolatore del pH agendo direttamente sul livello acido-alcalino alla base della salute umana.
La scala del pH è come un termometro del nostro stato di salute a tal punto che valori al di sopra o al di sotto di 7,35-7,45 possono segnalare sintomi di malattie o patologie gravi. Difatti, quando il corpo non riesce più a neutralizzare gli acidi, essi vengono trasferiti nei fluidi extracellulari e nel tessuto connettivo recando danni all’integrità cellulare.
Tanto più il nostro sangue è acido, tanto più manca ossigeno, elemento fondamentale per il funzionamento delle nostre cellule. Per farvi un esempio, un lago colpito da piogge acide, vedrà i suoi pesci morire soffocati per non disponibilità di ossigeno. Per riportare il lago in vita, e per portare ossigeno, bisogna alcalinizzare l’acqua.
Questo esempio è fondamentale in quanto il cancro è sempre legato ad un ambiente acido (mancante di ossigeno). Un altro esempio è riconducibile all’effetto negativo dello smog e dell’inquinamento. Come sappiamo, l’inquinamento diminuisce l’ossigeno e ben conosciamo come l’inquinamento influisce in modo negativo sul nostro stato di salute.
In tutto ciò, per praticare la cura del pH, non bisogna essere medici ma bisogna semplicemente capire qual è il funzionamento della cura e agire di conseguenza.
Quali ripercussioni per le case farmaceutiche? Sicuramente risentirebbero negativamente in quanto diminuirebbero domanda e consumi per medicinali chemioterapici, per la cura del cancro in genere, per la cura delle malattie come diabete e malattie più comuni come influenza e raffreddore. Un bel problema per le case farmaceutiche, un problema risolto per la nostra salute e per il nostro benessere.
[da anticensura.it]

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì 15 maggio 2012

mercoledì 9 maggio 2012

LINEA D’OMBRA : Minori e protezione


LINEA D’OMBRA   :  Minori e protezione

La Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell’adolescenza riconosce ad ogni bambino e adolescente il diritto alla protezione da ogni tipo di abuso, sfruttamento e violenza (cfr.articoli 19, 32 e 34).

La Convenzione richiede l’impegno da parte degli Stati al fine di proteggere il bambino dallo sfruttamento per fini pornografici e dal coinvolgimento in attività sessuali illegali (articolo 34), tematica specificatamente affrontata dal Protocollo Opzionale concernente la vendita dei bambini, la prostituzione dei bambini e la pornografia rappresentante bambini.

Dal Rapporto ONU sulla violenza sui minori del 2006 a cura dell’esperto indipendente delle Nazioni Unite Paulo Sérgio Pinheiro, si stima che tra 500 milioni e un miliardo e mezzo di bambini e adolescenti  subiscono forme di violenza.

Gran parte delle violenze avviene all’interno dell’ambiente familiare, conseguentemente la stima degli abusi e delle violenze rimane un numero oscuro (“Progressi per l’infanzia, report card sulla protezione dell’infanzia 2009”).

Dal terzo Congresso mondiale sullo sfruttamento sessuale dei minori - dopo quelli di Stoccolma e di Yokohama – svoltosi a Rio de Janeiro (2008), è emerso che sono 150 milioni le bambine e circa 75 milioni i minorenni sotto i 18 anni che hanno avuto rapporti sessuali forzati o subito violenze sessuali, con o senza sfruttamento commerciale.


Violenza e abuso sui minori in Italia

In Italia, dai dati del Ministero dell’interno, Direzione Centrale della polizia criminale, risalenti al 2008, è emerso che i minori vittime di abuso sessuale sono 389 per  violenza sessuali, 373 per atti sessuali con minore, 168 per corruzione di minorenne, 127 per prostituzione minorile, 329 per pornografia minorile.

Hanno un'età compresa tra 0 e 14 anni, sono di nazionalità italiana e, nella maggior parte dei casi, conoscono la persona che li molesta, spesso appartenente al nucleo familiare o ad esso vicina.


Nel 2007, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, ha adottato la Convenzione per la salvaguardia dei bambini contro lo sfruttamento e gli abusi sessuali (Convenzione di Lanzarote), con l'obiettivo di armonizzare il  sistema giuridico degli Stati membri. La Convenzione è entrata in vigore il 1 luglio 2010.



Eremo Via vado di sole, L'Aquila  mercoledì 9 maggio 2012


LINEA D’OMBRA : Traffico minori

LINEA D’OMBRA  :  Traffico minori

Un milione di bambini in mano ai trafficanti, la battaglia nel mondo per fermarli
di Monica Ricci Sargentini


Fermare il traffico di minori si può o almeno ci si prova con ogni mezzo. Al termine di una campagna durata tre anni l’Ecpat-International, un network di organizzazioni che combatte contro lo sfruttamento sessuale dei bambini, ha presentato un rapporto a Bangkok, insieme a The Body Shop, in cui ha mostrato, dati alla mano i passi avanti fatti per contrastare un’industria ignobile che ogni anno sfrutta almeno 1,2 di bambini e che genera profitti per miliardi di dollari.  Rispetto al 2009, quando è iniziata la campagna, e dopo la presentazione di 7 milioni di firme alle Nazioni Unite, i risultati sono abbastanza incoraggianti.  Il rapporto Creating Change through Partnership rivela come la scossa mondiale della campagna “Stop al traffico di bambini a scopi sessuali” abbia ispirato i governi di tutto il mondo ad agire contro la tratta di esseri umani.

Dove la campagna è stata presentata direttamente agli Stati, 14 Paesi hanno cambiato la legislazione per proteggere al meglio i bambini dal traffico del sesso, tra questi gli Stati Uniti, la Svizzera, la Romania e la Svezia. Altri quattro governi hanno ratificato il protocollo delle Nazioni Unite sul Traffico: si tratta di India,  Indonesia,  Grecia e Irlanda. Mentre altri quattro hanno  firmato il Protocollo opzionale sulla vendita di bambini, la prostituzione infantile e la pornografia infantile: Pakistan, Lussemburgo, Malta e Nuova Zelanda. In Australia, invece, ci si prepara a considerare un crimine entrare nel Paese allo scopo di praticare il turismo sessuale.  Dal 2009 ad oggi c’è stato un aumento dell’11% del numero dei Paesi che hanno fatto passi significativi in questo senso.

Molto si sta facendo anche per proteggere le piccole vittime dello sfruttamento che spesso finiscono nei guai con la giustizia per aver commesso atti cui sono stati costretti. In Spagna, per esempio, è stata approvata una norma che distingue tra immigrati clandestini e persone entrate a causa del traffico umano.  In alcuni Stati americani  come il Vermont, il Connecticut e il Minnesota un minorenne non può essere incarcerato o incriminato per prostituzione.  L’Ecpat finanzia anche una serie di programmi volti ad aiutare le vittime a rifarsi una vita.

Ma la strada è ancora lunga.  Nel mondo uno Stato su cinque manca di una legislazione apposita per proteggere i cittadini più indifesi anzi, in alcuni casi, li criminalizza e li punisce più di quanto faccia con i trafficanti.  Per migliorare la situazione l’Ecpat consiglia di armonizzare la legislazione nazionale con quella internazionale guardando al protocollo delle Nazioni Unite per il Traffico o al Protocollo opzionale sulla vendita dei bambini.  Di grande aiuto è anche la creazione di un’unità di polizia che si occupa solo di questo problema e di alcuni servizi di supporto come un numero da chiamare per le segnalazioni e dei rifugi dove accogliere le vittime con personale specializzat


Eremo Via vado di sole, L'Aquila, mercoledì 9 maggio 2012

giovedì 8 marzo 2012

LINEA D’OMBRA: In otto minuti abbiamo fatto fuori una bottiglia di vodka

LINEA D’OMBRA: In otto minuti abbiamo fatto fuori una bottiglia di vodka

Per essere dure e cattive . come i maschi, belle e spietate, per non farsi mettere i piedi in testa: le ragazzine italiane, ma anche quelle inglesi, che stanno per sfiorare il sorpasso, bevono come e più degli amici del sabato sera, tracannano birra, scolano limoncello e vodka, e magari alla fine si mescolano nelle risse o spaccano almeno una bottiglia. Le giovani donne sull'orlo dell'alcolismo (il confine è relativo, posto che il corpo femminile è in grado di smaltire l'alcol meno di un quarto di quello di un uomo, che è impossibile conoscere la propria soglia di rischio personale e che la dipendenza si sviluppa nelle donne a una velocità doppia) sono il 7,7 per cento nel Regno Unito contro 1'8, l per cento dei coetanei tra i 15 e i 24 anni (e 200 ragazze ogni settimana vengono fermate dalla polizia britannica per comportamenti illegali causati dalla sbronza).
La parità è (quasi) salva, mentre in Italia, in meno di due decenni, il consumo di birra al femminile è raddoppiato, quello di digestivi e superalcolici sta galoppando e solo il vino diminuisce leggermente, in misura minore rispetto alle tendenze generali. Se è vero che il record europeo resta all'Olanda (8,8 per cento di giovanissime super-bevitrici  l'allarme sta scattando un po' ovunque, e coinvolge fasce diverse per età e condizione. In Italia, a rischio sono le adolescenti e le quarantennio E l'Osservatorio nazionale sull'alcol dell'Istituto superiore della sanità chiede a gran voce che il divieto di vendita di birra, vino e liquori sia innalzato da sedici a diciotto anni.
«il 15,3 della ragazzine  tra gli 11 e i 15 anni ha già consumato alcol  in modo non salutare, cioè al fuori dai pasti o in misura eccessiva-  spiega Emanuele Scafato, il medico che guida l'Osservatorio - per questo cerchiamo di richiamare l'attenzione di governo e amministratori sulle regole di un mercato che rischia di apparire conveniente rispetto ad altri, e produce modalità sempre meno
controllate e controllabili di consumo, come l'abitudine di comprare al supermercato e bere in piazza". La gara a chi si sbronza di più e più in fretta è ben documentata sui social network: "Guardate il video di me e della Dany sabato sera, in otto minuti abbiamo fatto fuori una bottiglia di vodka, e io non ho neppure vomitato. Mitico", diffonde agli amici una liceale di Brescia che si firma ubriaca for ever.
È il binge drinkìng la bulimia da alcol, già sperimentata dal 3,1 per cento delle teenager italiane.
«Oggi sappiamo che fino a vent'anni il cervello può continuare a svilupparsi - dice Scafato -e chiediamo che il divieto di vendita sia spostato verso questa età». A Parma e a Ravenna sono nati centri di accoglienza rivolti specialmente alle donne, che oltre al, rischio metabolico guadagnano, insieme ai bicchieri di troppo, il 7 per cento di possibilità in più di ammalarsi di cancro. «Bevono per dimenticare il futuro», ha scritto nel suo "Ragazzi ubriachi" Flavio Pagano: uno su tre racconta di essersi ubriacato almeno una volta, mentre il 25 per cento delle morti accidentali di  ragazzi tra i 15 e i 29 anni in Europa è riconducibile all' alcol. Ce ne sarebbe abbastanza per stare attente. Invece, si discute sul rapporto che lega alcol e. seduzione: «Bevo una birra o due per essere meno timida quando sono con gli altri», racconta Simona, 15 anni, intervistata per la ricerca di prevenzione ragazzi.it, mentre Lucrezia, più esplicita, racconta: «Tutte le volte che sono stata con qualcuno avevo bevuto». «Se non bevi hai più controllo», dice l'opuscolo rivolto. alle giovanissime dal ministero della Salute. Ma a quindici anni chi vuole averlo davvero?


«Le ragazze non vogliono imitare il modello delle madri. Così facendo però finiscono col cercare di rendersi uguali ai coetanei maschi nei comportamenti peggiori: bere troppo, diventare aggressive verbalmente o fisicamente»: Franco Garelli, docente di Sociologia all'Università di Torino, studioso attento dei comportamenti giovanili, commenta così l'allarme sul consumo delle giovanissime.
Quali sono i gruppi più a rischio?
«Le giovanissime, dai 14 anni in su, che vogliono bruciare le tappe e differenziarsi dal modello materno. Bere troppo è uno dei mezzi più facili, e si crede, a torto, di poterlo controllare, mentre altre sostanze come le vecchie e nuove droghe fanno più paura. Per questo i maschi si drogano di più, mentre la distanza maschi-femmine nel consumo di alcol diventa sempre più piccola».
Come si può prevenire l'eccesso?
«Proponendo modelli di differenza, rafforzando bambine e ragazze nell'idea che essere diverse è un valore e un elemento di forza e di fascino. È comprensibile che una ragazza non voglia essere o apparire debole e subordinata, ma il compito dei genitori è mostrarle che si può essere forti in modo diverso se si è femmine, e che questa differenza è spiazzante, affascinante, mentre l'imitazione al ribasso non lo è».
I divieti sono utili? ,
«Assai poco. Vale di più riuscire a far capire che per essere una donna forte domani è meglio restare se stesse che fare come i compagni».

I numeri
12  anni , l’età media del primo consumo di alcol in Italia
8,6% le ragazze che hanno già provato il binge drinking
6,8% le ragazze considerate a rischio –alcol  tra i 18 e 24 anni  in Italia. In Europa  la media  è 14.6%
9 su 10 consumano alcol il sabato sera in discoteca

Vera Schiavazzi  Alcol pari opportunità. Adesso le donne bevono come i maschi  La repubblica 20 agosto 2011

Eremo  Via vado di sole, L'Aquila, giovedì 8 marzo 2012

venerdì 7 ottobre 2011

LINEA D’OMBRA : Carlo Gnetti, Il bambino con le braccia larghe

LINEA D’OMBRA : Carlo Gnetti, Il bambino con le braccia larghe


LINEA D’OMBRA : Carlo Gnetti, Il bambino con le braccia larghe

Ediesse, 208 pagine, 10,00 euro


Il bambino del titolo si chiamava Paolo. Era il fratello di Carlo Gnetti, l’autore di un racconto struggente che è anche uno straordinario documento sulla psichiatria in Italia negli ultimi cinquant’anni. Paolo era diventato schizofrenico durante l’adolescenza. Prima, sembrava un bambino felice, “normale”. Poi ha cominciato a diventare sempre più strano. Con alcuni alti (ingannevoli e mai duraturi) e molti bassi, il suo stato mentale e fisico si è deteriorato sempre di più. Fino alla morte, a 59 anni, nel 2009. Niente è stato risparmiato al calvario di Paolo e della sua famiglia.

Né l’orrore dei manicomi dove si abusava di farmaci e di elettroshock né la delusione dopo la speranza alimentata dall’antipsichiatria di Franco Basaglia. Dopo qualche anno passato in una comunità e in una casa- famiglia, Paolo è stato di nuovo ricoverato in un ospedale. Non molto diverso dagli orrendi manicomi chiusi nel 1978. Il fratello Carlo, pubblicando anche dei disegni e degli scritti di Paolo (e una relazione messa insieme da una sua psicoterapeuta, dopo quattro anni di art therapy), restitui­sce al fratello la parola che gli era stata tolta da una malattia che fa paura. E che lascia una dolorosa sensazione di impotenza.

Internazionale, numero 907, 22 luglio 2011


Con una scrittura molto intensa e partecipata, questo libro racconta la storia di una famiglia alle prese con la malattia mentale e riassume in modo esemplare il trattamento della psicopatologia, l’impatto devastante degli psicofarmaci, gli effetti della legge 180 anche nella sfera privata, dalla sua prima applicazione ai tempi di Franco Basaglia fino a oggi, passando per tutte le esperienze intermedie (padiglioni aperti, chiusura del manicomio, comunità terapeutica, casa-famiglia, fino alla Residenza sanitaria assistita). Da osservatore direttamente coinvolto l’autore ricostruisce la vicenda personale di suo fratello Paolo – Il bambino con le braccia larghe –, sin dalla pubertà affetto da schizofrenia e morto nell’aprile del 2009 all’età di 59 anni, e nel contempo lascia emergere dallo sfondo il ritratto di un’epoca. Lo fa senza velleità di scrittore, né di scienziato o di sociologo, ma con la rigorosa puntualità del testimone. La scrittura è sobria, scarna e colloquiale, e in virtù di questa sua apparente semplicità diventa prensile e complice in un libro che può essere letto anche come un romanzo di formazione, esistenziale e politica, che il narratore vive dentro una famiglia della borghesia italiana, di cui vengono rievocati rapporti e dinamiche.

Carlo Gnetti scrive senza risparmiarsi. Narra perché non può spiegare un mondo a molti di noi ignoto, di sofferenza e dolore. Prima di viverlo sulla sua pelle neppure lui poteva sapere che «nascere folle, aprire le zolle potesse scatenar tempesta», come ci ha testimoniato in forma lirica la poetessa Alda Merini.

Il giorno in cui mi accorsi che Paolo comminava tenendo le braccia larghe, staccate dal corpo, rimasi più che altro sorpreso. Non capivo se era un nuovo gioco o qualcosa di più misterioso”. All’epoca Paolo aveva nove anni “andava bene a scuola”, era un bambino “rispettato e adulato” dai compagni. Ma quel gesto, quelle braccia larghe, nascondevano qualcosa di più profondo, un “disagio”, come lo definiscono gli psichiatri, che catapulterà Paolo e la sua famiglia nel mondo della cura mentale.


Un percorso raccontato dal fratello di Paolo, il giornalista Carlo Gnetti, nel libro “Il bambino dalle braccia larghe” (ed. Ediesse, 2010), che passerà attraverso tutte le tappe del trattamento della psicopatologia in Italia: dall’impatto devastante degli psicofarmaci e dell’elettroshock, propinati a Paolo negli anni ’60, quando era ancora un adolescente, all’esperienza del manicomio, per arrivare poi all’applicazione della legge Basaglia in tutte le sue fasi (padiglioni aperti, chiusura dei manicomi, comunità terapeutica, case famiglia), fino alla residenza assistita dove Paolo morirà nel 2009 all’età di 59 anni. Un percorso lungo che coinvolge e stravolge la vita dello stesso Carlo Gnetti e che lo porterà a chiedersi perché le condizioni familiari o i messaggi “contrastanti” ricevuti dai genitori, come diagnosticherà una psicanalista, non avevano avuto su di lui e sulle sorelle gli stessi “effetti devastanti” avuti su Paolo e “ qual è il confine tra normalità e follia?”.

Una riflessione sul sistema della cura mentale dal punto di vista dei familiari. Un disagio che riguarda più persone di quante si pensi. Secondi i dati dell’Istituto superiore di sanità (2006), la schizofrenia colpisce il 3-4 per mille degli italiani nel corso della vita. Più in generale sono 500mila i pazienti in ambito psichiatrico che ogni anno entrano in contatto con i servizi pubblici.

“Il libro di Gnetti mostra le fatidiche distorsioni e le potenzialità luminose della riforma Basaglia” spiega Peppe Dell’Acqua, già collaboratore del padre della legge 180 e adesso direttore del dipartimento di salute mentale di Trieste, città dove Basaglia applicò il nuovo approccio alla cura del disagio mentale. “E’ uno specchio dell’Italia: da un lato la cultura consolidata delle possibilità di cura e le associazioni di familiari che in questi anni hanno portato ad una dimensione nuova: le persone oggi si aspettano una presa in carico, una cura di coloro che vivono il disturbo mentale. Dall’altro questa possibilità finisce per rimanere nell’aria perché ci sono state pratiche disattente da parte delle Regioni e delle Asl”.

Come si vive oggi fuori dal manicomio? Quanto è difficile per le famiglie? “Fuori, come va?” per citare il titolo del suo libro del 2003, ristampato adesso da Feltrinelli?

Dappertutto ci sono reti, servizi. Ma in molti luoghi funzionano poco e male. Questo per tre motivi. Primo, le resistenze culturali che non hanno cambiato molto la psichiatria. Secondo, gli interessi. A Roma, dove Paolo Gnetti ha vissuto gran parte della propria vita, la presenza di interessi economici è evidente, ma lo è anche in Sicilia, in Campania, in Lombardia, in Emilia: cliniche private in cui i soldi pubblici vengono spesi per cure improprie. L’ultima cosa che serve alla cura sono i posti letto. Terzo, la politica e un’opinione pubblica disattente. Ogni tanto ci sono gruppi politici o d’opinione che vedono bene le cose ma sono pochi e durano poco.

Nell’ultima parte della sua vita, dopo essere stato estromesso dalla casa famiglia dove viveva, Paolo Gnetti finisce in una struttura privata che dalla descrizione di Carlo non appare molto diversa da un manicomio. C’è un ritorno ai “manicomietti”?

Il “manicomietto” è presto fatto: basta non rispettare le persone e considerare solo la malattia, non le potenzialità. Ma invece i parlare dei “manicomietti”, parliamo delle realtà dove il servizio funziona e non ci sono cliniche private: a Trieste i Centri di salute mentale sono aperti 24 ore su 24, per aree definite di popolazione, uno ogni 60mila abitanti. Abbiamo il budget di salute: i 4mila euro che spenderemmo in un mese per la clinica privata vengono investiti sulla persona: che sta a casa, va a scuola, è seguita da cooperative sociali e per il reinserimento lavorativo. Questo ci permette di avere dei risultati. E’ una questione di cultura e di scelte di campo etiche.

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì 4 ottobre 2011

martedì 13 settembre 2011

LINEA D’OMBRA : Tarantismo ( V ) La notte della Taranta

LINEA D’OMBRA : Tarantismo ( V ) La notte della Taranta

La taranta pizzica ancora, ma adesso il suo morso fa fare salti di gioia. E in Salento si balla senza rimorso. Quest'anno la Notte della Taranta (dal 12 al 27 agosto), il più importante Festival europeo di musica tradizionale, si apre sotto il segno di Ernesto de Martino. Che, esattamente cinquant'anni fa, pubblicò La terra del rimorso (Il Saggiatore, pp. 412, euro 12), il libro che ha segnato la nascita dell'antropologia italiana e ha fatto del tarantismo il simbolo di un Mezzogiorno dell'anima. Stretto fra emigrazione e possessione, religione e superstizione. Memoria remota di un binario morto del progresso. Di un passato arcaico che restava impresso nei corpi sofferenti del popolo contadino. Nei gesti e nelle danze, nelle ossessioni e nelle devozioni di un'umanità lontana dalle grandi direttrici dello sviluppo industriale.

Una perturbante archeologia sociale che sopravviveva negli usi e costumi di quella corte dei miracoli che popolava il profondo Sud fino alla prima metà del Novecento. Dove una storia andata in polvere aveva lasciato il posto ad un'antichità degradata, fatta di sopravvivenze umane e di relitti culturali. Come il tarantismo, la danza della piccola taranta. Antidoto ritmico contro il male oscuro di una terra in transe. Che identificava i suoi dolori antichi e nuovi con il morso di un ragno immaginario, da curare con la pizzica, un ballo sfrenato, circolare che durava giorni e giorni fino allo sfinimento. E alla guarigione. Concessa per grazia di San Paolo, signore e padrone di tutte le tarantole. Fino al nuovo morso, che arrivava puntuale a un anno dal primo. Morso e rimorso. È questo l'inesorabile algoritmo del tarantismo.

Incomincia proprio nella terra di Puglia spaccata dal sole e dalla solitudine, come diceva Salvatore Quasimodo, la discesa di de Martino negli inferi di un Mezzogiorno che è al tempo stesso una ferita meridiana dell'essere e un labirinto personale. Un itinerario che si snoda tra le altezze rarefatte della ragione idealistica e le convulsioni ritmiche delle tarantolate salentine, tra la severità sussiegosa e distante dello storicismo crociano e l'immersione commossa nelle arcaiche profondità del Sud. Sono ragioni prima politiche e poi teoriche - due dimensioni che nella sua opera non si separeranno mai a guidare il cammino del grande intellettuale napoletano oltre le colonne d'Ercole di Eboli, verso il finisterre salentino. Nel tacco dello Stivale il raffinato filosofo cresciuto alla scuola di Benedetto Croce, trova quel che altri grandi antropologi come Claude Lévi-Strauss e Bronislaw Malinowski cercano in terre lontane. Una nuova coscienza dei limiti e delle virtù della propria civiltà. Un modo di guardare sé e la propria società nello specchio di una differenza abissale. Che espone il ricercatore al rischio di veder vacillare le proprie certezze, di rimettere in questione i fondamenti stessi della propria identità, del proprio ruolo.

Esattamente come accade a de Martino mentre ascolta la nenia funebre intonata da una lamentatrice scarmigliata e vestita di nero con suoni, parole e gesti da tragedia greca. Lungi dal considerare il pianto in metrica della donna come una pittoresca sopravvivenza pagana, il grande studioso si interroga piuttosto su se stesso e sul suo mondo, sullo scandalo di una faglia storica così profonda da rendere una sua concittadina, e contemporanea, lontana da lui quanto un'aborigena australiana. Oggetto di ricerca, se non di esperimento. Scheggia di un'altra storia non più nostra, avrebbe detto Pasolini. Un'umanità oppressa, dove la magia aiuta gli uomini a far fronte alla precarietà dell'esistenza e rappresenta una medicina simbolica condivisa, contro quella che de Martino definisce, con termine preso in prestito da Heidegger, la crisi della presenza.

Insomma, tra gli indios americani o fra i contadini italiani, il viaggio antropologico è sempre e comunque un'uscita da sé, un distacco dai limiti angusti del proprio angolo di mondo per cercare, nelle alterità vicine e lontane, un'immagine più compiuta della propria condizione. A questa critica culturale de Martino contribuì anche con la fondazione della leggendaria «collana viola» di Einaudi, concepita insieme a Cesare Pavese, con lo scopo dichiarato di sprovinciaIizzare la cultura italiana, stretta tra crocianesimo, marxismo e pensiero cattolico. Rendendo in questo modo finalmente accessibili autori proibiti come Carl Gustav Jung, Kàroly Kerényi, Mircea Eliade, Marcel Mauss, Émile Durkheim. Ma, quel che più conta, questa critica de Martino la sbattè in faccia all'Italia del miracolo economico, che si cullava nell'illusione delle magnifiche sorti e progressive, nell'escatologia del benessere, nell'incipiente religione del consumo. E che era improvvisamente costretta a contemplare con stupore orrificato le spose di San Paolo - così venivano soprannominate le donne morse dal ragno - che, vestite di bianco, roteavano freneticamente come dervisci sull'asse smarrito della loro esistenza. O saltavano come menadi sulle note ossessive di una tarantella suonata da musicisti sciamani. O si arrampicavano sull'altare di San Paolo a Galatina con l'agilità spiritata di ragni equilibristi. Salmodiando l'invocazione rituale che strappava il cuore degli astanti: «Ahi Santu Paulu meu de le tarante; facitece 'a grazia a tutte quante».

Quello che de Martino mezzo secolo fa rivelava al paese con La terra del rimorso era il lato oscuro dello sviluppo, quella non-storia sofferente che offriva alla trasformazione del paese un doppio tributo: quello di chi emigrava e quello di chi restava. Spaesamento da una parte e povertà dall'altra. Le tarantolate erano storicamente e anagraficamente sorelle di Rocco e i suoi fratelli di Visconti, delle donne dolenti dei capolavori di Rossellini, di Germi, di Castellani. Ma anche della folla stracciata e sognante di Miracolo a Milano.

La Terra del rimorso è un libro di antropologia, ma anche di letteratura. Ed è questo a renderlo, ora come allora, capace di parlare anche al grande pubblico. Con la forza degli argomenti, ma anche con la potenza delle immagini. Insomma è proprio la sua poetica a salvare de Martino dal rischio di rinchiudersi in uno specialismo arido, in una filologia accademica petulante, che dietro la maschera del rigore nasconde la frigidità del cuore e della mente. La sua officina antropologica non ha mai smesso di produrre pensiero. E pratiche sociali. Ispirando nei primi Anni Novanta la politica di giovani amministratori - uno per tutti Sergio Blasi, già sindaco di Melpignano (Lecce) - che, invece di vergognarsi di quell'eredità e di seppellire la tarantola sotto una coltre di cemento, hanno rovesciato il senso di quel passato trasformandolo in un bene culturale e in una chance di futuro. E così la Notte della Taranta, esorcizzato finalmente il rimorso, ha fatto del ragno un simbolo positivo. Un modello di sviluppo che parla e pensa salentino. E la pizzica, che fu l'emblema del ritardo storico del Mezzogiorno, diventa il motore di un distretto culturale e turistico capace di coniugare tradizione e innovazione, identità locale e marketing, ecologia e benessere. Adesso, in un Sud che non vuole diventare Nord, il miracolo economico lo fa la taranta. Da buon socialista, anche Ernesto de Martino ne sarebbe compiaciuto.

MARINO NIOLA Quelle notti della taranta nelle notti del boom Il Venerdì di Repubblica 5 agosto 2011

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì 13 settembre 2011