sabato 18 gennaio 2014

VOCI E STORIE DAL SILENZIO :L'ultima estate di Cechov nel giardino senza ciliegi

VOCI E STORIE DAL SILENZIO :L'ultima estate di Cechov nel giardino senza ciliegi


Scritto da PIETRO CITATI, Corrieredella Sera | 09 Settembre 2013
La moglie lontana, il figlio mancato, la delusione artistica 




Nel settembre 1898, Anton Cechov si trasferì a Jalta, in Crimea, dove imalati di petto passavano i mesi d'inverno. Qualche tempo più tardi, avrebbeaccettato di morire: ma allora aveva soltanto trentotto anni, la mente piena diracconti e di drammi, il desiderio di una donna che non aveva mai conosciuto, esperava di avere ancora quindici anni di vita. Non aveva voglia di partire daMosca, dove lo trattenevano amici, teatri, ristoranti, biblioteche, librerie,concerti: «Ma — scrisse — ho dovuto andarmene da Mosca perché seguito ancora aintrattenere dei rapporti illegittimi con i bacilli». Sperava nel clima dellaCrimea, che gli consigliavano i medici: sperava che la febbre, i freneticiaccessi di tosse secca, il sapore di sangue nella bocca lo avrebberoabbandonato — sebbene egli non si lamentasse mai della malattia, perchélamentarsi era, per lui, un segno di cattiva educazione. Lì, a Jalta, accettavadi vivere una vita rallentata, contendendo qualche anno o qualche mese allamorte.
I suoi bellissimi occhi blu-marrone erano ancora chiari, netti, precisi, enessuna ombra li macchiava. Spesso, a Jalta, il tempo era bellissimo anched'inverno, quando Mosca e Pietroburgo erano coperte di neve: tutto era limpido,asciutto, caldo: tutto verdeggiava; fiorivano le rose, i garofani, icrisantemi, e certi fiori gialli di cui non sapeva il nome. Un giorno, furapito dall'entusiasmo. Vicino a Jalta, a Kucukòj, vide una casa di quattrostanze, una casinetta tartara, una cucina, una stalla per le mucche, essiccatoiper il tabacco, una sorgente che sgorgava dalle rocce, una bilancia, unacredenza, un armadio, una dozzina di sedie viennesi, una stufa di ferro —mentre il latte era chiuso in brocche immerse nell'acqua fredda. Lì accanto, ilmare era meraviglioso. La villetta gli piacque tanto che la comprò subito, peruna somma bassissima: fece il contratto di acquisto; e pochi giorni dopo ciandò ad abitare, portandosi dietro le materasse, delle lenzuola e un samovàr.Amò sempre Kucukòj, che lasciò in eredità alla moglie. «Bellevue, una taleBellevue da restare senza fiato».
Durante i mesi d'inverno, Cechov viveva a Jalta. Fece costruire una ampia casadi tre piani, con una specie di torre, dalla quale si vedeva il mare. Amavasoprattutto il giardino, dove piantò lui stesso, nel novembre 1899, settantapiante di rose: cinquanta acacie piramidali, molte camelie, gigli, tuberose. Afebbraio, solo tre piante di rose non avevano attecchito. Il salice era verde:l'erbetta era fitta, il mandorlo in fiore; mentre aveva verniciato in tintaverde delle panche di legno. Zappava in giardino per giornate intere: il tempoera splendido: tutto era in fiore; gli uccelli cantavano. «Questa non è unavita — scrisse — ma una cuccagna». Era fierissimo del suo talento digiardiniere: se non fosse stato scrittore, avrebbe fatto certamente ilgiardiniere. Già a metà gennaio, aveva sentito il timido, incerto pigolio degliuccelli, specie dei tordi, che alla fine di marzo avrebbero preso arditamenteil volo per Mosca.


Purtroppo, a Jalta, c'era anche la noia: una immensa nebbia di tedio, pesante egreve come il marmo, che gli abitanti producevano ogni giorno, senza sosta,come se non sapessero fare altro. Cechov sognava le folle colorite e divertentiche gremivano le strade nevose delle grandi città del Nord, le belle donne(«qui non c'è nemmeno una donna»), e i teatri. A Jalta, anche il bel tempofaceva venir noia: d'estate gli alberi erano ingialliti e infelici: lui nonriusciva a scrivere nemmeno un racconto, perché aveva bisogno di respirareun'altra aria, che gli donasse l'esistenza della felicità. «Qui — diceva — èimpossibile lavorare, impossibile e impossibile, assolutamente impossibile». Sisentiva come un albero sradicato, o un uomo al confino.
Alla sorella Marija scrisse, nel novembre 1899, una lunga lettera di timbroquasi kafkiano: «Non sai che noia, che giogo è coricarsi alle nove di sera,coricarsi furioso, con la consapevolezza che non c'è un posto dove andare,nessuno con cui parlare, e che si lavora non si sa per cosa, dato che in ognimodo i tuoi lavori non ti riesce nemmeno di vederli, né di sentirli. Ilpianoforte ed io, ecco dentro casa due oggetti che conducono un'esistenza senzasuono, perplessi sul perché ci abbiano messi qui, visto che nessuno ci suona».Per divertirsi, almeno un pochino, aveva escogitato uno sport personale,comperando una trappola di nuova costruzione, con cui acchiappava i topi.
Che dicevano di lui, gli amici vecchi e nuovi, specialmente i nuovi, che per laprima volta lo avevano incontrato a Jalta? Tutti erano d'accordo; e quasi tuttiavevano torto. Gli amici dicevano che parlare con lui era una cosapiacevolissima: non avevano mai incontrato un essere umano così amabile,gentile e affettuoso. Quando parlava, si nascondeva dietro l'ironia e ladiscrezione, come se lui non esistesse, e esistesse soltanto il piacere, atutti comune, della parola. Le sue lettere erano spiritosissime: tra le piùspiritose che io conosca; persino quando era disperato, divorato dallatubercolosi, senza nessuno, e sapeva che la morte stava lì, a mezzo metro dalui. Gli amici aggiungevano che Cechov era generosissimo: aiutava di continuogli altri, anche quando non aveva denaro: gli altri uno per uno; non le folle,come faceva grandiosamente Tolstoj. Ma, a un certo punto, anche gli amici piùcari facevano una terribile riserva su di lui. Cechov non voleva bene anessuno: era completamente privo di amore e di passione; come diceva Gorkij,trattava «gli uomini con freddezza diabolica, indifferente come la neve e latormenta». La cosa singolare è che Cechov, in giovinezza, aveva detto le stessecose di se stesso, sostenendo di essere vuoto, e privo di quel misteriosoqualcosa che è necessario alla letteratura.


Cechov era distante, talvolta freddo (ma sempre amabile, o amabilissimo).Badava alle superfici: persino a come si vestiva, se andava a trovare Tolstoj.Non abbracciava e baciava nessuno, al contrario degli affettuosissimi scrittorirussi che ho incontrato. Ma nella profondità di quel meraviglioso diamante cheera la sua anima, sentiva un immateriale amore per la vita, anche se a unadomanda della moglie rispose: «La vita è esattamente come una carota. Unacarota è una carota, e non si sa altro». Per Tolstoj, provava una veravenerazione, sebbene Tolstoj gli dicesse che i suoi drammi eranospaventosamente brutti, più brutti delle tragedie e delle commedie diShakespeare. Non aveva un bisogno assoluto della presenza della persona amata:l'amava di più, se talvolta l'amata era lontana migliaia di chilometri e luipoteva soltanto fantasticare di baciarla e abbracciarla tre o quattro mesi piùtardi (ma allora con fortissimo ardore erotico). La donna amata, per lui, erala luna, che non appare ogni giorno all'orizzonte, e ingrandisce erimpiccolisce: questa luna era un amatissimo specchio, che concentrava in sétutti i raggi del sole sconosciuto, o forse assente.
***
Nell'autunno del 1898, Cechov vide Olga Knipper recitare sulle scene del Teatrod'arte di Stanislavskij: due volte, in un testo di Aleksej Tolstoj, e in unaripresa del Gabbiano dello stesso Cechov. «Olga — scrisse —, secondo me, èmeravigliosa: quella voce, quella nobiltà, quella schiettezza — tutto era cosìbello da sentirsi la gola stretta. Se fossi rimasto a Mosca, mi sareiinnamorato di lei». In realtà s'innamorò subito, senza riserve; e disse,pensando certamente a lei: «Quanto più invecchio, tanto più frequente e pienosento in me il battito della vita».
Scrisse per la prima volta ad Olga il 16 giugno 1899: poi il 1° luglio. Eranolettere discrete, miti, dolcissime, spiritose, talvolta buffonesche: semprepiene di amore. «Non fatemi perdere la testa», le diceva: ma la testa era giàperduta. In luglio fecero un viaggio insieme nel Sud: lei gli scrisse, e luirispose: «Cara, straordinaria attrice, meravigliosa donna, sapeste come lavostra lettera mi ha rallegrato. Mi inchino a voi profondamente, cosìprofondamente, ma così profondamente da sfiorare con la fronte il fondo del miopozzo. Mi sono abituato a voi, e ora soffro di nostalgia e non possoassolutamente rassegnarmi all'idea che non vi vedrò fino a primavera... Sepossibile, non dimenticate lo scrittore a riposo, e vostro assiduo ammiratoreAnton Cechov». E poi: «Attrice, scrivete, per amore di tutto quello che c'è disanto, altrimenti intristisco come in prigione, e m'arrovello, m'arrovello».«Mi pare sempre che la porta stia per aprirsi e che entri tu. Ma tu non entri,tu adesso sei alle prove». E infine: «Ti bacio forte, da svenire, dastordirmi».
Olga Knipper era nata nel 1868, otto anni dopo Cechov. Non erano molti: ma latisi aveva rapidamente logorato e invecchiato Cechov, che diceva di sentirsi «suo nonno», anzi il «suo nonnino». Il padre di Olga era un ingegnere di originetedesca: la figlia aveva ricevuto una buona educazione borghese, con lezioni dimusica, di disegno e di lingua straniera. Poi aveva seguito corsi di artedrammatica, e nel 1898 era entrata nel Teatro d'arte di Stanislavskij, di cuidivenne presto la migliore attrice. Era vivace: parlava con curiosità e gioiadi vestiti, cappelli e cucina; avida di vivere e di essere festeggiata, conpranzi e feste e medaglie e fiori. Amava Cechov: ma amava anche il successo, acui Cechov era (quasi) indifferente, e il potere, che Cechov disprezzava.Sposandosi con lui, Olga Knipper sapeva di diventare la più famosa attrice diRussia, e la moglie, come diceva infelicemente, del «Maupassant russo».
Nei primi giorni del dicembre 1900, Cechov decise di partire per Nizza, senzanessuna ragione dichiarata, abbandonando per qualche tempo Olga, la sua «luna».Amava viaggiare, prendere la fuga, andarsene molto lontano dagli sguardi.«Viaggiare da un posto all'altro e rimirare ogni cosa è assai più piacevole chestarsene a casa a scrivere, sia pure per il teatro». Offese e ferì Olga, laquale gli scrisse: «Non posso rassegnarmi a questa separazione. Perché seipartito, mentre dovresti essere vicino a me? Ieri, mentre il treno siallontanava e nello stesso tempo tu ti allontanavi da me, sentii per la primavolta che ci separiamo. Ho camminato a lungo dietro il treno come se non cicredessi ancora, poi mi sono messa a piangere, come non l'avevo fatto da moltianni».
Qualche giorno dopo, il 15 dicembre, Cechov arrivò a Nizza, e scrisse allamoglie una lettera nella quale non sembrava nemmeno supporre di averla ferita.Lì, a Nizza, — disse — era felice per lo scintillio del sole, la finestra dicamera spalancata, e l'anima anch'essa spalancata a tutti i venti del mondo.Ascoltava i cantori e i suonatori ambulanti, si scaldava al sole, e pensava conrimpianto e nostalgia a Olga abbandonata. Poi si spinse fino a Firenze, a Roma,e forse sarebbe andato ancora più lontano se non l'avesse assalito la passioneopposta: la noia di girovagare; imponendogli di tornare a Jalta. Il 22 febbraio1901 era di nuovo a casa.
Dopo questa fuga e queste lacrime, Olga decise imperiosamente di sposareCechov; e lui disse di sì, senza letizia. Non voleva ferirla. Ma il matrimonio,per lui, era così poca cosa — poco più di un gesto —; a lui importava soltantol'amore di Olga e la propria esistenza di «giardiniere». «Faremo tutto quelloche desidererai», disse alla moglie. Io sono in «tuo potere». Così Cechovraggiunse Mosca. Sebbene fosse in potere di Olga, si difese come poteva: conl'ironia, i sotterfugi, e il silenzio. «Ho una paura terribile degli sposalizi— scrisse alla moglie —, delle congratulazioni, dello champagne, che bisognatenere in mano e nello stesso tempo sorridere con aria vaga». Il 25 maggio sisposarono di nascosto, evitando i parenti e gli amici: alla cerimonia c'eranosoltanto quattro persone; Cechov aveva invitato come testimoni due studentisconosciuti. Olga accettò lo strano matrimonio, perché, sebbene fosse unasignora dell'apparenza, amava il marito più di quanto immaginasse.
La luna di miele non assomigliò a nessuna delle lune di miele che il matrimoniocristiano abbia mai conosciuto. A Mosca Cechov salutò, velocissimo, la madre diOlga: poi prese il treno per Novgorod, discese in battello il Volga, risalì ilfiume Bianco e si fermò ad Aksenovo, in un sanatorio. Aveva un piano: comeTolstoj raccomandava, fare una cura di kumýs (una specie di yogurt), lunga duemesi. Ne beveva quattro bottiglie al giorno: il miracoloso kumýs lo feceingrassare di otto libbre («ma non so per cosa, se per il kumýs o per ilmatrimonio»), e quasi cancellò la tosse secca che gli rovinava la vita.
Dopo trenta giorni Cechov si annoiò: in fondo, a lui di guarire importava poco;voleva vivere una vita felice o almeno senza tedio. Abitare nel sanatorio diAksenovo era come vivere in un «battaglione disciplinare». I giornali eranotutti vecchi, «roba dell'anno passato», c'era un pubblico senza interesse,attorno baschiri; e se non fosse stato per la natura, la pesca, e le lettere,sarebbe certo scappato via. Così fece: scappò via: tornò a Jalta, dove, dopoquindici giorni, stava di nuovo male, vendetta del kumýs abbandonato. Ma, alcontrario di quello che qualcuno potrebbe supporre, il matrimonio farsesco e latediosa luna di miele non l'avevano affatto disamorato della moglie. Il 25agosto le scrisse da Jalta: «Tesoruccio mio, son giusto tre mesi oggi che cisiamo sposati. Io sono stato felice, grazie a te, gioia mia, ti bacio molto. Tiabbraccio forte, forte. Il tuo marito e amico per i secoli dei secoli.Anton».Tutto questo era vero: l'unico matrimonio che Cechov potesse conoscere.
Quale sia stata la vita dopo il matrimonio è difficile raccontare: bisognerebbeavere un binocolo doppio, o uno triplo, e fissare contemporaneamentel'insondabile anima di Cechov, e l'oscura anima di Olga. Certo, lui l'amavamoltissimo, e spesso, malgrado la malattia e la solitudine, le sue letterecommuovono per freschezza, dolcezza e ardore. «Anima mia, angelo, cara mia,colombella, ti supplico, credi che io ti amo, ti amo profondamente; nondimenticarmi dunque, scrivi e pensa a me più sovente». «Ho una voglia pazza divedere mia moglie, ho nostalgia di lei e di Mosca, ma non c'è niente da fare.Ti penso e ti ricordo quasi ogni ora». «Ti bacio forte fino all'indecenza».«Credo che se potessi essere disteso solo per metà notte, con il naso sepoltonella tua spalla, cesserei di stare male. Non posso vivere senza di te».
Olga era sempre via: a Mosca, a Pietroburgo, a fare le prove, a recitare, allefeste: esisteva con un'intensità estrema. Cechov sapeva che la separazione erafatale, ma avrebbe voluto che lei implorasse un po' di libertà ai suoi tirannidel Teatro, e scendesse ogni tanto a Jalta, sia pure per pochi giorni. Questacondizione diventò tragica nei mesi dell'inverno 1901-1902, quando lei promisedi venire per le feste di Natale, poi a gennaio, poi a febbraio, e non vennemai, come la «principessa lontana» della leggenda. Questa volta lui si arrabbiòprofondamente. «Sei una tedesca positiva, di carattere — le scrisse il 25gennaio 1902 —, arrivi il lunedì della prima settimana di quaresima e te ne vaiil mercoledì o addirittura il martedì della medesima settimana... Sei la miacroce!... Bisogna minacciarti, altrimenti non verrai affatto, o verrai solo permezz'ora».
Anche Olga aveva nostalgia del marito: la mattina non aveva il coraggio dialzarsi e guardava verso l'altra sponda del letto, dove, qualche volta, eraapparsa la barba bionda e brizzolata di Cechov. Ma lui non c'era: non c'eramai; c'era soltanto il letto non disfatto, il cuscino intatto, e lei siaccusava di essere crudele col suo eterno teatro. Ma, a nessun costo, avrebberinunciato al teatro. Non avrebbe nemmeno rinunciato al suo efferato spiritod'ordine. Voleva che il marito lavorasse sempre per il Teatro d'arte di Mosca:voleva che si cambiasse la cravatta ogni giorno, che si facesse la barba e icapelli, che si tagliasse le unghie, e che ogni giorno, facesse un bagnonell'acqua fredda, che lo avrebbe certo fortificato. Era pestilenziale. Cechovla prendeva in giro, e le obbediva: «Mi sono abituato a te come se fossi unbambino — diceva — e senza di te sto male e ho freddo». Lei rispondeva: «Cometi abbraccerò, con quali occhi ti guarderò ed esaminerò in ogni particolare ilmio meraviglioso marito».
***
Tutto precipitò. In pochi mesi, i lineamenti del meraviglioso marito dalla«barba bionda» s'incupirono. La tubercolosi s'impadronì del suo organismo,senza lasciare nulla d'intatto o d'incolume. Cechov era soltanto un sistematubercolotico: tossiva, sputava sangue, stava male di stomaco, soffriva didiarrea, non aveva fiato. Vestirsi lo faceva ansimare. Il peso di un cappottosulle spalle gli pareva insopportabile. Se faceva quattro passi nel giardino,doveva arrestarsi, senza fiato, con le orecchie ronzanti. Se gli altri loavevano sempre divertito, ora si sentiva disperatamente solo: solo, seduto nelsuo studio, o disteso su un divano, come se fosse già nella tomba. Quando gliamici cercavano di rallegrarlo, stava in silenzio, tossicchiando, conun'espressione tetra, e ascoltava gli altri con un'indifferenza quasiletargica, il bastone tra le ginocchia, lo sguardo perduto nelle lontananze. Scrivevasei righe al giorno con immensa fatica: gli sembrava sommamente inutile farlo,e non riusciva a esprimere i suoi sentimenti. Avrebbe voluto smettere persempre di essere uno scrittore: oppure diceva che tutto quello che avevascritto apparteneva al passato. Non sapeva quello che avrebbe scritto infuturo, e questo lo tormentava moltissimo.
In questa vita cancellata, gli restavano due desideri: avere un figlio, ecomporre qualcosa di lieto. Scrisse gioiosamente alla moglie: «Adesso ho unavoglia terribile che tu metta al mondo un mezzo tedeschino, che diverta eriempia la tua vita... Avrai un bambino che romperà i piatti, e tirerà per lacoda il tuo cagnolino e tu lo guarderai e sarai consolata». Quando il bambinoavrebbe avuto un anno e mezzo, lui sarebbe stato un vecchio curvo, con la barbagrigia e la bocca sdentata. Ma il bambino non venne alla luce.
Quanto al vaudeville, era un antico desiderio: da anni sognava di scriverequalcosa di gaio e di frivolo, una specie di farsa, con una confusione del diavolo.Così compose Il giardino dei ciliegi: ci lavorò con entusiasmo, lo abbandonò elo riprese: fu deluso e si entusiasmò di nuovo: la sua farsa gli sembròqualcosa «di smisurato e di colossale», che gli faceva paura; e alla fine,placato e gioioso, spedì a Mosca la sua commedia il 13 o 14 ottobre 1903.Voleva partire anche lui per Mosca. «Svelta, svelta, chiamami vicino a te, aMosca — scrisse alla moglie. Non ne posso più di vivere senza teatro e senzaletteratura... Non attendo che il tuo ordine di fare la valigia e di partireper Mosca. A Mosca! A Mosca! Questo non è detto da tre sorelle, ma da unmarito». Fu quasi il suo ultimo gioco.
La rappresentazione del Giardino dei ciliegi non gli piacque: secondo lui,Stanislavskij non l'aveva compreso, interpretandolo come un dramma sociale. Epoi aveva fissato la prima della commedia il 17 gennaio 1904, in onore del suoquarantaquattresimo compleanno. Lui detestava i compleanni. La sera del 17gennaio, restò a casa. Fu costretto ad andare a teatro alla fine del terzoatto, quando venne trascinato sulla scena, mentre la sala lo applaudiva indelirio. Ci furono discorsi, enfaticissimi e noiosissimi, di giornalisti,attori, presidenti di circoli letterari, che incensarono per più di un'ora unuomo che detestava i complimenti. Pallido, esangue, Cechov strizzava gli occhisotto la luce cruda della ribalta. Non riusciva a reprimere gli accessi ditosse: non sapeva che fare delle sue mani scheletriche. Dopo l'ultima ovazione,si ritirò, senza aver pronunciato una parola di ringraziamento. Stanislavskijdisse crudelmente: «Si respirava come un tanfo di funerale». Il funerale nonera lontano.
Il 10 giugno 1904, Cechov e la moglie giunsero a Badenweiler, una piccola cittàd'acque non lontana da Basilea. Il tempo era fresco e bellissimo. Dal mattinoalle sette di sera, Cechov restava nel lussureggiante giardino di villaFriederike, seduto, o a metà allungato in una poltrona a sdraio. Il sole nonbruciava, ma accarezzava la pelle. Non scriveva, non leggeva: forse non pensava;come aveva sempre sognato, Cechov era diventato un puro contemplatore, cheguardava il giardino, i fiori splendenti, le montagne coperte di boschi, ipochi tedeschi che percorrevano la strada. Forse avrebbe voluto vivere così,con gli occhi aperti sul vuoto, il pochissimo tempo che gli restava da vivere.
Qualche giorno dopo, annoiato di contemplare il giardino vuoto, Cechov andò inun albergo: stava seduto sul balcone della sua camera, e guardava, per ore, lepersone che andavano e venivano all'ufficio postale. «La salute — scrisse allasorella — torna non ad once, ma a libbre». Verso la fine del mese, Badenweilervenne assalita da un caldo feroce, e Cechov si senti soffocare. Sognò diandarsene: ma dove? Il 1° luglio sembrò star meglio: ma a mezzanotte e mezza sisvegliò e chiese ad Olga di chiamare un medico. Il dottor Schwörer arrivò alledue del mattino. Cechov si rialzò sul guanciale e disse con tranquillità grave:Ich sterbe, «io muoio». Il medico ordinò una bombola di ossigeno. Cechovprotestò: «Ora, tutto è inutile. Prima che portino la bombola, sarò uncadavere». Allora il dottor Schwörer ordinò una bottiglia di champagne. Cechovprese il bicchiere, si volse ad Olga e disse sorridendo: «È molto tempo che nonho bevuto champagne». Vuotò lentamente il bicchiere, e si distese sul fiancosinistro. Qualche istante dopo, smise di respirare.

Eremo Rocca S. Stefano  sabato 18gennaio 2014






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