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sabato 16 giugno 2012

MEDITERRANEO : Lascia la Siria Paolo Dall’Oglio gesuita , fondatore della comunità monastica di Deir Mar Musa,

MEDITERRANEO  :   Lascia la Siria  Paolo Dall’Oglio gesuita , fondatore della comunità monastica di Deir Mar Musa,

Il gesuita Paolo Dall’Oglio, fondatore della comunità monastica di Deir Mar Musa, lascia la Siria dopo oltre trent’anni.
Mar Musa o, per esteso, Deir Mar Musa al-Habashi (ﺪﻴﺮ ﻤﺎﺮ ﻤﻭﺴﻰ ﺍﻠﺤﺒﺸﻲ, Daīr Mār Mūsa al-Ḥabaši, letteralmente Monastero di San Mosè l'Abissino) è una comunità monastica cattolica di rito siriaco, sita nei pressi della cittadina di Nabk, a circa 80 kilometri a nord di Damasco, in Siria.
 Lo aveva comunicato già ieri mattina alla nostra redazione (dal 2007 padre Dall’Oglio cura una Già minacciato di espulsione dal governo siriano nel mese di novembre il gesuita era riuscito a restare nel Paese a patto di mantenere un «basso profilo», evitando dichiarazioni pubbliche contrarie al regime. Un impegno che Dall’Oglio ha mantenuto, pur non interrompendo la sua attività a favore della pace e la sua denuncia delle violenze perpetrate nel Paese. Significativa, in questo senso, la lettera aperta che il religioso aveva inviato lo scorso 23 maggio a Kofi Annan, inviato speciale dell’Onu in Siria.
La decisione di lasciare la Siria è stata ora presa in obbedienza alle autorità ecclesiastiche del Paese. Così, ad accompagnare il gesuita alla frontiera con il Libano, sabato prossimo, non saranno funzionari governativi, ma il nunzio apostolico a Damasco.
Il monastero di Deir Mar Musa è stato rifondato nel 1982 dal gesuita italiano padre Paolo Dall'Oglio, con il nome di comunità al-Khalil (l'amico di Dio, in arabo), per ospitare aderenti sia di confessione cattolica sia di confessione ortodossa. È dedicato principalmente al dialogo interreligioso con il mondo musulmano. La sorte della comunità è messa in forse dalla repressione messa in atto dal governo siriano per far fronte alla proteste popolari del 2011, che ha portato all'espulsione dal paese del fondatore.
«Questa decisione - spiega padre Dall’Oglio, che abbiamo raggiunto telefonicamente poco dopo il colloquio in nunziatura - è legata soprattutto alla mia lettera indirizzata all’ex Segretario generale dell’Onu, di cui mi assumo tranquillamente la responsabilità. Non c’è niente che mi meravigli: sono avvilito, ma non meravigliato. È un altro capitolo di una storia di pressioni e le autorità ecclesiastiche sono l’esecutore, anche se ufficialmente sono espulso per loro decisione».
Cosa farà adesso? La mia intenzione è di andare in Libano, poi in Kurdistan – dove abbiamo aperto una nuova comunità – e trascorrere poi in Italia i mesi di luglio e agosto. Poi si vedrà, ma sono comunque tutte idee che naturalmente devo sottoporre al mio superiore e che sono legate all’evoluzione della situazione complessiva in Medio Oriente.
Con quale stato d’animo lascia la comunità che ha fondato nel 1982? È una pagina che si chiude. Da tempo desideravo lasciare a qualcun altro la responsabilità del monastero di Deir Mar Musa, con tutto ciò che questo significa anche in termini di questioni pratiche e amministrative, per dedicarmi a un lavoro a più ampio raggio. Certo sono deluso, speravo di poter essere un attore utile al processo di dialogo e riconciliazione di cui la Siria ha estremo bisogno. Continuerò però con questo obiettivo dall’esterno.
Come hanno reagito gli altri componenti della comunità di Mar Musa? I confratelli e le consorelle del monastero sono coraggiosi, tranquilli, forti.
Questo il testo della lettera
Ecc.mo Signor Kofi Annan, Segretario Generale emerito dell’Onu,

Pace e bene. Con questa pubblica comunicazione vorrei esprimerle innanzi tutto gratitudine per aver accettato questo incarico delicatissimo per la salvezza della Siria e per la pace regionale. Ci aggrappiamo alla sua iniziativa come dei naufraghi a una zattera! Lei è riuscito a superare lo scoglio dell’opposizione russa a qualunque proposta che comportasse un autentico cambiamento democratico. In prospettiva, la Siria può e deve costituire un elemento di bilanciamento delle problematiche regionali e non un cancro corrosivo. Mi sembra che una maggioranza di siriani ragioni in termini di equilibrio multipolare e non in quelli d’una nuova guerra fredda. Il popolo siriano è tradizionalmente antimperialista, ma molto di più è a favore della creazione d’un polo arabo che ne rappresenti il diffuso desiderio di emancipazione e autodeterminazione. Un sentimento questo che implica l’aspirazione a vera democrazia e riconosciuta dignità delle componenti culturali e religiose di questa società e degli individui umani che la compongono.

La dinamica regionale è marcata oggi da una difficoltà reale di convivenza tra popolazioni sciite e sunnite e di concorrenza tra esse. Ciò provoca anche grave disagio alle altre minoranze, innanzitutto quelle cristiane. La primavera araba, caratterizzata inizialmente dalla richiesta, specie giovanile, dei diritti e delle libertà, rischia la deriva confessionale violenta specie quando l’irresponsabilità internazionale favorisce la radicalizzazione del conflitto.

Signor Annan, lei sa meglio di chiunque altro che il terrorismo internazionale islamista è uno dei mille rivoli dell’«illegalità-opacità»  globale (mercato di droga, armi, organi, individui umani, finanza, materie prime …). La palude interconnessa dei diversi «servizi segreti» è contigua alla galassia della malavita anche caratterizzata ideologicamente e/o religiosamente.  Meraviglia che pochissimi giorni siano bastati ad altissimi rappresentanti dell'Onu per accettare la tesi della matrice «qaedista» degli attentati «suicidi» in Siria. Una volta accettata mondialmente la tesi liberticida che in loco c’è solo un problema d’ordine pubblico, non rimane che aspettarsi il ritiro dei suoi caschi blu disarmati per lasciare alla repressione tutto lo spazio necessario a conseguire il «male minore». Che la potenza nucleare e confessionale israeliana abbia interesse in una guerra civile a bassa intensità e lunga durata è solo un corollario al teorema. Si aggiunga che «gli arabi» non sono culturalmente maturi per la democrazia «reale» e il gioco è fatto! Resta in alternativa l’opzione della frantumazione su base confessionale del Paese, magari ritagliando ai caschi blu un ruolo anti strage per evitare disdicevoli eccessi bosniaci.

A causa delle esperienze non sempre felici degli osservatori Onu, l’ottimismo resta condizionato all’emergenza d’una concreta volontà negoziale nel  Consiglio di Sicurezza e all’interno del paese e a una larga assistenza da parte della società civile internazionale a quella locale. Tremila caschi blu e non trecento sono necessari a garantire il rispetto del cessate il fuoco e la protezione della popolazione civile dalla repressione per consentire una ripresa della vita sociale e economica. È urgente chiedere l’abolizione delle sanzioni non personalizzate che puniscono le parti più deboli e innocenti della popolazione.

C’è inoltre bisogno di trentamila «accompagnatori» nonviolenti della società civile globale che vengano ad aiutare sul terreno l’avvio capillare della vita democratica. Si tratta di favorire un’organizzazione statale basata sul principio di sussidiarietà e del consenso, eventualmente favorendo quella struttura federale più corrispondente alle principali particolarità geografiche (la federazione è l’esatto contrario della spartizione!). Solo dando fiducia all’autodeterminazione delle popolazioni sul piano locale si potrà riportare l’ordine e combattere ogni forma di terrorismo senza ricadere nella repressione generalizzata e settaria.

È opportuno e urgente creare delle commissioni locali di riconciliazione, protette dai caschi blu e in coordinazione con le agenzie Onu specializzate, anche in vista della ricerca dei detenuti, rapiti e scomparsi delle diverse parti in conflitto. Sarà anche necessario porre al più presto la questione della riabilitazione civile dei giovani coinvolti in organizzazioni terroriste e malavitose.

Lei ha ripetuto che per riappacificare occorre un processo politico negoziale. Ma si può immaginare questo senza un vero cambiamento nella struttura del potere, specie in una situazione come questa dove il governo è una facciata e anche il regime al potere obbedisce a un oscuro gruppo di supergerarchi? Bisogna salvare lo stato, certo. Esso è di proprietà del popolo. Ma prima è necessario liberarlo.

La sua iniziativa, caro Signor Annan, segna una tappa rivoluzionaria nel percorso dell’esercizio della responsabilità internazionale nella soluzione dei conflitti locali. La presenza disarmata dell’Onu oggi in Siria è una profezia gandhiana che vale ben oltre la crisi puntuale che si vuole così risolvere. La priorità sia allora quella di proteggere la libertà d’opinione e d’espressione della società civile siriana senza la quale è impossibile perseguire gli altri obiettivi essenziali alla pacificazione nazionale.
Con stima e gratitudine.
23/05/2012

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, sabato 16 giugno 2012

venerdì 13 aprile 2012

MEDITERRANEO : Italianesi di Saverio La Ruina

MEDITERRANEO  :   Italianesi  di Saverio La Ruina

“Ma mamma io, per dirti il vero, l’italiano non so cosa sia, e pure se attraverso il mondo non conosco la geografia”. Di queste parole Francesco De Gregori vestiva L’abbigliamento di un fuochista, di queste parole suona uno strano sentimento di patria a tradimento, ignota e mai conquistata, patria di sangue diluita nei viaggi e nelle occasioni, ascoltando Saverio La Ruina di Scena Verticale che porta in scena il suo nuovo monologo, da sé scritto e apprezzatissimo all’ultimo Premio Riccione 2011, dal titolo Italianesi.

Una tragedia dimenticata, in fondo a tutto questo, quella di soldati e civili italiani rimasti prigionieri in campi di concentramento in Albania, vittime della dittatura instaurata subito dopo la Seconda Guerra Mondiale; quando furono rimpatriati, molti anni dopo, le donne e i bambini figli di italiani furono internati nei campi e lì dimenticati per quaranta lunghi anni. Il protagonista di questa storia è lì che nasce e vive, sottratto alla sua patria e col sogno della sua altra patria lontana, dov’è tornato suo padre che desidera conoscere. Non c’è bisogno di scriverlo sulla scheda (ma c’è), quanto sia ispirato a storie vere. Quel che colpisce però è l’uso del plurale, là dove solito è l’uso al singolare: storie vere, la pluralità compone un disegno molto più preciso perché fa pensare ai nomi collettivi come popolo, gente, tutti quegli appellativi che ridotti nel singolare non ce la fanno comunque, a non contenere una moltitudine. Questa è la forza che La Ruina è in grado di innescare: nelle sue parole vive una voce che ne amplifica mille altre, sopite dal tempo e dalla dimenticanza.

Un lieve difetto fisico, quasi impercettibile zoppia alla gamba destra, e l’amore per lo sport (ancora, collettivo); poi i capelli sistemati alla meglio ma liberi da una pettinatura astringente, il maglioncino a V rosso sulla camicia bianca, la cravatta stretta stretta, i suoi gesti e le espressioni del volto dicono ancora una volta, dopo Dissonorata, dopo La Borto, che Saverio La Ruina è uno degli attori più bravi che l’Italia possa vantare (e mai se ne vanta…), una sorta di macchina attoriale che dona alla materia ogni cosa di lui, che nobilita, rende viva la poesia della scena: vederlo in certi momenti stimola quella meraviglia, come seguendo la famosa farfalla fuggita di Marcel Marceau. Gli elementi sulla scena sono davvero pochi, ma l’uso è sapiente: l’accentramento dello sguardo su quella sedia che si volge ora da un lato ora dall’altro, il rettangolo di luce che disegna una geometria precisa nel nero attorno (le luci sono di Dario De Luca), dietro un fondale di nebbia appena percepibile la musica trapunta dal vivo di Roberto Cherillo, le ombre sulle pareti laterali dell’uomo e della sedia che si allontanano e si avvicinano, entrambe ingigantite, quel tono sommesso che è suo segno distintivo e sempre di estremo calore intimo.

Le intenzioni di La Ruina si legano a un racconto di dislocazione, di sradicamento continuo e impenitente; il protagonista è straniero ovunque, vittima di un eterno ritorno a un’origine che non lo riconosce (“l’italiano” in Albania, “l’albanese” in Italia), una sorta di emigrante di vocazione, figlio indesiderato anche fosse in adozione, un “immigrante”, viene voglia di definirlo, mai davvero nel luogo dove si trova. La Ruina ha una qualità innata di costruire drammaturgie dove immagina mondi concreti e visibili, ma non per questo poveri di quella poesia popolare, che in questo caso è un’affermazione di italianità dal più in basso possibile. Nella resa finale qualcosa va forse ancora limato, l’ultima parte è un po’ dispersiva e rischia uno sfilacciamento proprio nel momento in cui si richiederebbe massima tensione alla limpidezza, alla concretezza, ma quando la sedia retrocede verso il fondo e retrocede anche lo spazio di luce, ci si accorge come riesca – nonostante sofferta, minata, deflorata – a tornare alla fine la libertà: una luce presa a fatica, l’Italia patria per molti ancora urgentissima terra di conquista, la conquista di sé e della propria presenza – tutta umana – nel mondo che troveranno.

Simone Nebbia  http://www.teatroecritica.net/2011/12/italianesi-di-saverio-la-ruina-storie-vere-degli-%E2%80%9Cimmigranti%E2%80%9D/

Eremo Via vado di sole, L’Aquila, venerdì 13 aprile 2012

lunedì 9 gennaio 2012

MEDITERRANEO : Incrocio di destini nel Mediterraneo

MEDITERRANEO    :  Incrocio di destini nel Mediterraneo
Il romanzo di Margaret Mazzantini


Il Mediterraneo (Mare nostrum dei Romani e della retorica fascista) appare sempre più piccolo. È solo l’uso di barconi sgangherati che rende lunghissima, travagliata, pericolosa una traversata dall’Africa a Pantelleria, a Malta o alla Sicilia, che con mezzi adeguati si potrebbe compiere in un giorno o due. Questa è la rotta che africani del nord, e non solo del nord, percorrono in questi anni per cercare in Europa rifugio e possibilità di vita e di lavoro. La traversata, breve nelle illusioni dei profughi, diventa per loro enorme in un viaggio sotto il sole o le intemperie, ammucchiati inumanamente e senza viveri. Spesso i barconi, privi del carburante necessario, vanno giorni e giorni alla deriva; spesso affondano insieme con gli infelici viaggiatori.
Questi viaggi della speranza e della disperazione sono una presenza continua nell’ultimo libro di Margaret Mazzantini, Mare al mattino (Einaudi, pp. 128, € 12). Lo schema del libro è semplice. Ci sono due protagonisti: Farid e Vito, e a ognuno è dedicato un capitolo; il terzo conclude entrambe le vicende. L’ambiente è la Libia, patria di Farid, che è di origine beduina; mentre in Libia la madre di Vito ha vissuto a lungo, arabizzandosi, insieme con i genitori italiani incoraggiati dal regime a trasferirsi nell’allora colonia, e costretti dopo decenni dalla dittatura libica a tornare in Italia.
Attraverso le vicende di Farid e di Vito, ma soprattutto attraverso i ricordi delle loro famiglie, veniamo a contatto con la storia della Libia e dei suoi rapporti con l’Italia: dalla guerra italo-turca del 1911-1912, che ne fece una colonia italiana, alla scoperta dei pozzi petroliferi e al colpo di stato di Gheddafi (1969), infine alla morte del dittatore, quest’anno.
I viaggi nelle due direzioni, di Farid verso l’Italia, di Vito quando tornerà in Libia, sono colmi di nostalgia, forse il sentimento dominante nel libro.
Ma la grande storia serve soprattutto a sistemare nel tempo vicende narrate con frequenti flashback. E la storia è prevalentemente storia di tragedie, di epidemie e di crudeltà, cui gli umili possono partecipare solo come vittime. Lo sguardo della scrittrice si sofferma soprattutto, e con grande finezza, sui problemi di ambientazione e sui sogni dei personaggi, anche sulle loro decisioni spesso dolorose, come l’abbandono della Libia da parte di Farid e della madre. Il viaggio in barcone di Farid, la sua morte per disidratazione, mentre la madre gli accarezza la fronte e sogna un futuro che non ci sarà, sono indimenticabili. Il problema centrale per la scrittrice è l’estraneità, degli africani in Europa, degli italiani in Libia. L’idea, che può essere un auspicio, è che, mentre gli accadimenti politici possono scatenare avversioni e odi, la nostra umanità ci spinge, meglio che a tollerarci, a considerarci con curiosità, con una comprensione che può anche diventare affetto.
Questo libro è una novità nel percorso della Mazzantini. Il suo stile si è prosciugato mettendo in rilievo l’essenziale; le frasi, brevi o brevissime, spesso aforistiche, hanno un grande potenziale emotivo. Ognuna ci colpisce, e va ben meditata e assimilata. La narrazione, fotografando visioni di forte impatto simbolico, ci lascia immagini inconsuete e non dimenticabili. Meno apprezzabile a mio parere l’eccesso di comparazioni, che però vedo lodato dai recensori. Certo, la scrittrice riesce a cogliere implicazioni e simboli. Primi fra tutti, i simbolismi del mare, in cui i bambini del racconto trovano il senso della natura dominatrice e della vita portata, per gioco, sino a sfiorare la morte (che poi invece Farid incontrerà, ma non per gioco). E Vito, adulto, rifiuta di mangiare pesci, perché pensa che essi possono anche essersi nutriti dei cadaveri dei troppi fuggitivi affogati. Il mare, questo mare che sta diventando così piccolo, può anche diventare una liquida tomba.
Cesare Segre14 dicembre 2011 (modifica il 15 dicembre 2011)

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, lunedì 9 gennaio 2012

giovedì 8 dicembre 2011

MEDITERRANEO : Massacro di Srebrenica

MEDITERRANEO  :  Massacro di Srebrenica


"A dieci anni dalla fine della guerra in Bosnia ed Erzegovina, le donne di Srebrenica sono ancora in attesa che gli uomini che assassinarono i loro figli e mariti siano consegnati alla giustizia. Molte attendono che i corpi dei loro cari siano loro restituiti per una sepoltura e che la venga riconosciuta la loro sofferenza" - dichiara la sezione italiana di Amnesty Internaztional. Sebbene alcuni responsabili siano stati processati dal Tribunale per l'ex Jugoslavia e negli ultimi mesi diversi indiziati si siano consegnati volontariamente, dieci imputati - tra cui l'ex leader serbo-bosniaco Radovan Karadzic e gli ex generali serbo-bosniaci Ratko Mladic e Zdravko Tolimir sono ancora liberi, con ogni probabilità nella Republika Srpska o in Serbia.

L'11 luglio 1995, le forze serbo-bosniache avanzarono verso l'enclave di Srebrenica, nella "zona di sicurezza" istituita dalle Nazioni Unite in cui avevano trovato riparo decine di migliaia di musulmano-bosniaci. Dopo la caduta di Srebrenica nelle mani dei serbo-bosniaci, migliaia di adulti e ragazzi vennero divisi dal resto della popolazione e deliberatamente e arbitrariamente assassinati. Questa uccisione di massa, sistematica e organizzata di migliaia di persone è stata definita la più grande atrocità commessa in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale ed è stata riconosciuta come atto di genocidio dal Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia. "Ad oggi, non una singola persona incriminata dal Tribunale per l'ex Jugoslavia è stata arrestata dalle autorità della Republika Srpska e alcuni degli indiziati godrebbero della loro protezione" - denuncia Amnesty Italia. "La mancanza di cooperazione delle autorità serbo-bosniache col Tribunale per l'ex Jugoslavia continua a costituire un ostacolo fondamentale per la giustizia". Amnesty International ha preparato per il decennale un rapporto su Srebrenica ed inoltre ha predisposto una petizione online per chiedere alle autorità che i responsabili del massacro di Srebrenica siano portati davanti alla giustizia.

La richiesta di giustizia per i crimini commessi e le prospettive per la regione balcanica è stata al centro del dibattito del parlamento europeo di Strasburgo. La discussione su Srebrenica e il futuro dei Balcani è stata preceduta dalla presentazione degli emendamenti e dalle mozioni comuni dei gruppi parlamentari per la Risoluzione su Srebrenica, che dovrebbe essere approvata alla vigilia del decennale del massacro. "L'11 luglio ricorre il decennale della caduta di Srebrenica. Oggi, nei Balcani, vogliamo vedere giustizia, riconciliazione, una forte collaborazione con il Tribunale dell'Aja, la cattura di Ratko Mladic e Radovan Karadzic" - ha dichiarato il commissario europeo all'allargamento, Olli Rehn, tracciando un bilancio. Concludendo la discussione, Olli Rehn ha sottolineato che "è nostro dovere ricordare che nella regione non ci sarà una pace stabile senza una forte collaborazione con il Tribunale dell'Aja, così come è assolutamente chiaro che il futuro dei Balcani occidentali è nella famiglia europea".

Numerose anche le iniziative della società civile. Attiviste delle Donne in Nero da tutta la Serbia visiteranno il luogo del crimine per esprimere solidarietà alle famiglie delle vittime ed in Italia hanno indetto una manifestazione per domani a Roma. La Comunità della Bosnia ed Herzegovina in Italia invita per l'11 luglio ad un minuto di silenzio nel ricordo delle circa 10 mila vittime musulmane che furono uccise e inumate in fosse comuni dagli aggressori serbi. Nei giorni scorsi il Premio internazionale Alexander Langer 2005 è stato attribuito a Irfanka Pasagic, nativa di Srebrenica, che ha fondato il centro "Tuzlanska Amica", un progetto di "adozione a distanza" che in questi anni è riuscito a dare una famiglia a oltre 800 bambine e bambini, e ora anche una casa agli orfani entrati nella maggiore età.

Per l'anniversario dell'eccidio di Srebrenica, l'Osservatorio sui Balcani, che da anni segue le vicende delle popolazioni della regione balcanica, ha preparato un dossier "A dieci anni da Srebrenica ", che approfondisce la vicenda e la situazione attuale. Si tratta di un'inchiesta, che riporta numerose voci, sullo stato della città simbolo della pulizia etnica e della violenza razzista in Europa, per cercare di capire la Bosnia Erzegovina oggi, dieci anni dopo Dayton. E sempre l'Osservatorio sui Balcani, un una speciale rubrica, segnala tutte le iniziative nazionali e internazionali per ricordare l'eccidio. L'Osservatorio ha inoltre redatto un libro di approfondimento su " Srebrenica fine secolo"con saggi di Rada Ivekovic, Michele Nardelli, Svetlana Broz, Andrea Rossini ed altri.

La tensione latente nell'area di Srebrenica è comunque ancora alta: nei giorni scorsi la polizia ha ritrovato 35 kg di esplosivo vicino al Memoriale di Potocari. Il noto giornalista e scrittore Tim Judah analizza le conseguenze della rivelazione del video degli "Scorpioni" sulla popolazione e le forze politiche serbe. Dopo che il quotidiano serbo Danas ha trovato il prete serbo-ortodosse il quale - in un video trasmesso presso il Tribunale dell'Aja - benediceva i paramilitari dell'unità "Scorpioni" poi impegnati a massacrare sei giovani bosniaco-musulmani si sono sollevate gravi accuse contro la Chiesa serbo-ortodossa per aver sostenuto l'uccisione e la messa in fuga dei musulmani bosniaci. [GB]

Fonte  : http://www.unimondo.org/Notizie/Srebrenica-a-dieci-anni-dall-eccidio-non-c-e-giu

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, giovedì 8 dicembre 2011

martedì 25 ottobre 2011

MEDITERRANEO : Libia creazione artificiale del colonialismo italiano

MEDITERRANEO : Libia creazione artificiale del colonialismo italiano

Il colonnello Muammar Gheddafi non fu soltanto il satrapo orientale, vestito di una uniforme operistica che si pavoneggiava a Roma ostentando il ritratto di Omar El Mukhtar, martire della resistenza anti-italiana, sul bavero della giacca. Prima di seppellirlo conviene ricordare che il tiranno era pur sempre un leader nazionale e che perseguì progetti diversi, quasi sempre folli, ma non privi di una loro perversa genialità.

Il primo Gheddafi imparò la politica sulle pagine del Mein Kampf di Gamal Abdel Nasser, pubblicato e diffuso nel mondo arabo sotto il titolo di «Filosofia della Rivoluzione». Scelse la carriera militare perché le forze armate potevano essere, come nel caso del leader egiziano, la piattaforma da cui balzare alla conquista del potere. Riunì intorno a sé un gruppo di giovani ufficiali perché così aveva fatto Nasser nel 1952. Volle che il primo atto della rivolta fosse la cacciata del re perché Idris, ai suoi occhi, era la versione libica dell’egiziano Farouk. Scelse per sé il grado di colonnello, dopo la vittoria, perché nessun altro rango militare gli sarebbe apparso più desiderabile di quello dell’adorato Nasser. Fu nazionalista e panarabista perché quelli erano i due cardini dell’ideologia con cui Nasser voleva promuovere la rinascita politica e morale del mondo arabo. Dovette comprendere rapidamente, tuttavia, che l’identità nazionale libica era molto più labile delle identità nazionali dell’Egitto, del Marocco, dell’Algeria e della Tunisia.

La Libia era una creazione artificiale del colonialismo italiano, uno Stato composto da due territori (la Tripolitania e la Cirenaica) che avevano avuto storie diverse, popolato da tribù che avevano interessi contrastanti, abitato da circa due milioni di persone (tanti erano i libici quando Gheddafi conquistò il potere), sparse su un enorme territorio prevalentemente desertico. Demograficamente povera, economicamente sottosviluppata e priva di un forte passato nazionale, la Libia di Gheddafi era tuttavia, potenzialmente, un paese ricco, e tale sarebbe diventato a mano a mano che le grandi compagnie petrolifere scoprivano nuovi giacimenti di petrolio e di gas. A differenza di altri leader nazionali dei paesi emergenti, il colonnello ebbe quindi sempre a sua disposizione i mezzi finanziari necessari al perseguimento dei suoi obiettivi; ed è probabile che tanta abbondanza lo abbia sollecitato a concepire sogni smisurati e stravaganti. La storia della sua politica è anche la storia del suo denaro e del modo in cui venne impiegato.

La sua prima mossa fu quella di utilizzare il periodo coloniale italiano per risvegliare un sentimento nazionale non ancora esistente. La sua seconda mossa fu il panarabismo, vale a dire la formula adottata dalle fusioni che Nasser aveva già tentato con la Siria. Ebbe qualche apparente successo, ma nessuno dei matrimoni celebrati da Gheddafi (con l’Egitto, con la Tunisia, con il Marocco) venne consumato. Mentre il panarabismo restava soltanto una generosa utopia, Gheddafi andava alla ricerca di altri luoghi e di altri impieghi per il suo denaro. Decise che avrebbe combattuto l’imperialismo delle potenze neo-coloniali soprattutto per procura, vale a dire sostenendo e finanziando tutti i «movimenti di liberazione», dalle Filippine all’Irlanda, indipendentemente dalla loro fisionomia politica e dalla loro connotazione etnico-religiosa. E poiché il pozzo del denaro era senza fondo, Gheddafi dava prova contemporaneamente di una sorprendente bulimia militare e riempiva i suoi arsenali di aerei, carri armati, navi militari, sommergibili, missili, cannoni e armi leggere. Sembra che un giornalista straniero gli abbia chiesto: «Ma come può l’esercito libico di 30.000 uomini, diciamo pure di 60.000 se lei ne raddoppia la dimensione come pianificato, far funzionare 3.000 carri armati di provenienza sovietica?». Se fosse stato sincero, Gheddafi avrebbe risposto che diffidava delle forze armate e preferiva formazioni di militanti fedeli, create dopo la rivoluzione.

I suoi interessi e le sue ambizioni, nel frattempo, si spostavano dal mondo arabo all’Africa. Dopo avere sfrontatamente comperato con un diluvio di denaro la presidenza dell’Unione africana, cominciò a definire se stesso, senza un’ombra d’ironia, «re dell’Africa», anzi «re dei re dell’Africa», la carica che in passato era stata del «Negus Negast», imperatore d’Etiopia. In patria invece sosteneva di non avere cariche istituzionali e di essere semplicemente il «fratello leader», «guida verso l’era delle masse», «capo della rivoluzione». Per educare il suo popolo e rinnovare lo Stato scrisse un «libro verde» in cui erano esposti i princìpi politici ed economici della Terza Teoria Universale, una sorta di ultima profezia che avrebbe definitivamente seppellito quelle del capitalismo e del comunismo. Queste diverse incarnazioni, puntellate dai suoi generosi finanziamenti, lo avevano trasformato fisicamente.

Il giovane tenente del 1969, sobriamente vestito in una uniforme militare di taglio inglese, era diventato un nababbo orientale, avvolto in burnus sgargianti, spettinato, irsuto, mal rasato, regalmente capriccioso, protetto da un drappello di formose e robuste moschettiere. Le sue successive incarnazioni hanno procurato a Gheddafi uno stuolo di nemici. La Francia lo detestava per le sue interferenze nel Ciad e per l’attentato contro un aereo francese, la Gran Bretagna per l’uccisione di una poliziotta colpita da uno sgherro libico di fronte all’ambasciata di Libia a Londra, gli Stati Uniti per il contenzioso sul golfo della Sirte e l’attentato in una discoteca di Berlino, la gran Bretagna e gli Stati Uniti insieme per l’attentato contro un aereo della Pan American nel cielo scozzese di Lockerbie, i leader arabi per le sue intollerabili irruzioni negli affari interni dei loro Paesi, la Fratellanza musulmana per il modo in cui aveva perseguito, incarcerato e ucciso gli islamisti libici, la Svizzera per le misure di rappresaglia decise dal colonnello dopo l’arresto di Hannibal in un albergo di Ginevra, la Bulgaria per la lunga detenzione di alcune infermiere accusate di un reato inesistente. Aveva anche qualche amico, tra cui alcuni Stati africani e quei Paesi che, come il Venezuela di Hugo Chavez, lo consideravano una provvidenziale spina nel fianco dell’Occidente imperialista.

Ma il suo scudo più efficace fu il peso degli interessi petroliferi nell’economia dei Paesi che lo odiavano. La svolta ebbe luogo quando lo stesso Gheddafi, assediato dalle sanzioni e consigliato forse dal figlio Sef El Islam, decise che la rinuncia al nucleare gli avrebbe permesso di rompere l’assedio. Comincia così una fase in cui il colonnello non cambia stile e non abbandona le sue stramberie, ma esce dall’isolamento e mette a segno qualche successo come la liberazione di uno degli attentatori di Lockerbie, detenuto in un carcere scozzese. Sembra che le sue colpe siano state dimenticate e che i suoi potenziali nemici siano disposti ad accogliere festosamente (qualcuno troppo festosamente) il ritorno all’ovile della pecora nera. Molti sperano di averlo ammansito e contano di fare con il suo Paese affari importanti.

Tutto cambia ancora una volta quando il suicidio di un giovane tunisino fa saltare il coperchio della pentola in cui bolle e ribolle la rabbia dei giovani arabi. La rivolta libica scoppia a Bengasi, vale a dire in quella parte del Paese dove esiste una vecchia fronda che Gheddafi non è mai riuscito a estirpare. Ma la protesta non sarebbe bastata a detronizzare il Raìs se alcuni dei suoi vecchi nemici non avessero deciso di sostenere i ribelli riducendo considerevolmente la forza della repressione. Qualcuno lo ha fatto per saldare vecchi conti, recitare la parte del paladino della democrazia araba, prenotare per sé una fetta considerevole della ricchezza petrolifera della Libia. E qualcuno, come l’Italia, lo ha fatto per non essere estromesso dalla partita finale. Se avesse potuto difendersi in un’aula di tribunale, Gheddafi avrebbe forse chiamato sul banco dei testimoni molti soci d’affari. Ma della sua umiliante fine politica e umana, se avesse conservato un briciolo di intelligenza, avrebbe potuto rimproverare soltanto se stesso.

Sergio Romano Il volto di un satrapo 21 ottobre 2011 Il Corriere della sera

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì 26 ottobre 2011

MEDITERRANEO : Questioni libanesi

MEDITERRANEO : Questioni libanesi

La Libia del dopo Gheddafi affronta il primo non indifferente ostacolo. Il corpo del dittatore, congelato in una cella frigorifera, diventa il simbolo della battaglia politica che scuote il Consiglio nazionale transitorio (Cnt): c'è chi vorrebbe seppellirlo a Sirte in una tomba anonima, altri propongono di tumularlo a Misurata, la città martire assediata per mesi dai lealisti, la tribù di Gheddafi vorrebbe portarselo via, secondo le consolidate usanze beduine. Il Colonnello è già un cadavere ingombrante che sta scatenando reazioni contrastanti mentre scorrono sui siti Internet le immagini di un'esecuzione barbarica, profondamente diversa dalle versioni ufficiali accreditate a Tripoli.

Il tragico epilogo di Gheddafi fa affiorare, come forse era prevedibile, una Libia spaccata in due. Il Consiglio nazionale transitorio si prepara ad annunciare la completa liberazione del Paese, il passo che dovrebbe precedere le dimissioni del Governo provvisorio. Ma l'aspetto più inquietante è che l'annuncio avverrà a Bengasi, la capitale della Cirenaica che ormai si contrappone a Tripoli seguendo antiche divisioni che nessuna monarchia o dittatura hanno mai ricomposto.

Il dopo Gheddafi dovrebbe dare l'eccitazione ma anche la vertigine di una pagina bianca tutta da scrivere: l'inizio di trattative per formare un nuovo Governo, poi un'assemblea costituente ed elezioni, forse, entro un anno. Quello che stanno facendo in queste ore nella confinante Tunisia, domani alle urne per la costituente, dovrebbero ripeterlo i libici. Ma in questa atmosfera confusa e pesante, già incupita dopo l'euforia seguita all'uccisione del Qaid, sembra un'impresa quasi impossibile.

Seri dubbi ci sarebbero stati anche in una situazione meno tesa e per una semplice ragione: con Gheddafi è sparito lo Stato libico, un Paese che aveva tenuto in pugno per 42 anni.

In Libia non ci sono mai state elezioni ma neppure istituzioni, quelle che esistevano erano soltanto dei simulacri, un fantasma denominato Jamaihiriya, la repubblica delle masse. Che cosa fosse nessuno lo ha mai capito ma la gestione, anche quella burocratica, si riduceva al 'divide et impera' di Gheddafi che dominava distribuendo prebende e punizioni.

L'incertezza è massima perché insieme allo Stato si deve rifondare pure una nazione. La guerra è iniziata con l'intervento Nato in appoggio ai rivoltosi di Bengasi. Il Cnt nato in Cirenaica ha rappresentato in questi mesi la storica suddivisione della Libia: furono prima la colonizzazione italiana e poi la monarchia di re Idris, sostenuto dagli inglesi, a unire nel 1951 Tripoli e Bengasi. Queste contrapposizioni regionali sono affiorate con evidenza ed è stata pure avanzata l'ipotesi di uno Stato federale. Ma in questo caso sono forti i timori di disgregazione: la soluzione federale implica una spartizione del petrolio, difficile da accettare perché la maggior parte delle riserve è in Cirenaica.

L'altra incognita è quella etnica e tribale. Tripoli è stata conquistata anche dai berberi e questi non hanno intenzione di deporre le armi fino a quando non avranno il riconoscimento dei loro diritti. Pesano ovviamente pure le rivalità tribali. Le tribù sono 140, quelle che contano non più di una decina ma le vecchie fedeltà di clan resistono nonostante l'emancipazione dalle strutture tradizionali.

Poi c'è la questione islamica. Alla testa del Consiglio militare nella capitale c'è Abdel Hakim Belhaj: sono stati i suoi uomini che hanno conquistato Tripoli. È un 45enne con un passato nella Jihad e in rapporti con Al Qaida che ha conosciuto le duri carceri libiche. Nella nebulosa islamica, sostenuta dai finanziamenti dalle monarchie del Golfo, ci sono personaggi alla Belhaji, descritto come un pragmatico, ma anche altri meno inclini al compromesso. Una cosa è certa: la democrazia libica ancora prima di farla bisogna avere la forza di immaginarla. Questo è un Paese che deve riconciliarsi con se stesso e con i principi di umanità e legalità che negli ultimi decenni non ha mai conosciuto.

Il tragico epilogo lascia un Paese spaccato in due di Alberto Negri in Sole 24 ore 22/10/2011

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì 26 ottobre 2011

mercoledì 21 settembre 2011

MEDITERRANEO : Festivaletteratura, Ala al-Aswani e le paure dell'Egitto che cambia

MEDITERRANEO : Festivaletteratura, Ala al-Aswani e le paure dell'Egitto che cambia

MANTOVA - Chi ha amato l'“Egitto plurale” di Ala al- Aswani tutto raccolto nel suo Palazzo Yacoubian, con gli eleganti borghesi impoveriti, i nuovi ricchi arroganti, i giovani tentati dall'integralismo, le donne usate e violate, gli intellettuali coraggiosi e sfortunati, ritrova una voce amica e inconfondibile anche in questo suo ultimo libro, “La rivoluzione egiziana” (Feltrinelli) che viene presentato oggi al Festivaletteratura di Mantova. Storica voce di opposizione al regime di Mubarak, il cinquantaquatrenne narratore traccia un affresco del suo paese, con la mano del ritrattista che usa il trapano della sua satira di dentista- scrittore, di cui va molto fiero.

Al-Aswani: lei è stato travolto dal 25 gennaio 2011 a Piazza Tahir che è diventata come la Comune di Parigi.

«In Egitto c’era molta frustrazione, poche voci pensavano che ci sarebbe stata la thawra, la rivoluzione. Io ero tra queste. Due giorni prima stavo firmando alcune copie del mio libro e ho detto: “il cambiamento è vicino”. Non immaginavo così vicino… Diciotto giorni in strada sono stati l’esperienza unica di questa rivoluzione: che si avvicina per molti aspetti alla Comune: in piazza c’era gran parte della realtà sociale egiziana. Mentre l’autorità del regime crollava, è stata l’autorità del popolo a prendere il suo posto».

La thawra l’ha prevista ed attesa… Ma perché gli egiziani non si sono ribellati prima?

«Per la stessa ragione per cui gli spagnoli hanno avuto Franco per quaranta anni e l’Unione Sovietica il comunismo per settanta anni La ragione è semplice: quando la morsa dell’oppressione è forte, ci vuole tempo per rappresentare il proprio desiderio di libertà».

Quali sono le questioni aperte del processo rivoluzionario e i rischi di una controrivoluzione sempre in agguato per evitare che il regime travolto tenti di ricostruirsi con altre forme?

«La rivoluzione ha avuto due momenti: quando Mubarak si è dimesso, la manifestazione pacifica ha dimostrato di poter sconfiggere una delle macchine oppressive più evolute al mondo. Ha avuto successo perché ha ottenuto ciò che voleva. Il secondo momento è quando Mubarak è stato portato davanti al giudice e ha detto: “yes, sir”. Si è aperta una pagina importante: non era più nostro padre, il simbolo della nazione, ma un semplice funzionario pubblico che poteva essere giudicato. Ora preoccupa che chi ha vinto non abbia preso il potere, affidato all’esercito in una fase di transizione. E positivo perché l’Egitto è stato protetto dai crimini del dopo rivoluzione, ma è anche negativo. L’esercito non è rivoluzionario e oggi bisogna combattere contro la controrivoluzione per avere elezioni e democrazia. L’esercito tende a riformare, ma le riforme non sono rivoluzione. La thawra è l’eliminazione del regime in modo totale. Le riforme sono alternative al regime, per poterlo salvare. Se applichi riforme durante la rivoluzione dai la possibilità alla controrivoluzione di intaccare i valori rivoluzionari».

Corruzione, sistema repressivo, assenza di uno stato di diritto, raccomandazioni, nepotismo, mediocrità fuga dei cervelli:quali sono i guasti più gravi e più difficili da correggere del regime di Mubarak?

«E’ tutto da riparare. Non posso immaginare l’Egitto in una situazione più catastrofica rispetto ad oggi. Se paragoniamo le potenzialità del mio Paese alle performances che abbiamo imparato a conoscere, capiamo che tipo di criminale fosse Mubarak».

L’emigrante a New York il cuoco a Roma , lei descrive con empatia gli egiziani della diaspora Un popolo costretto a fuggire dal proprio paese per costruirsi il proprio futuro non solo di individui, ma di cittadini.

«Un solo dato: tra diplomati, laureati e specializzati 824mila egiziani –una popolazione simile a quella di uno stato del Golfo – sono all’estero. Compresi tremila scienziati che si occupano di settori importanti come l’ingegneria nucleare, la genetica, l’intelligenza artificiale. Con un regime tirannico ed oppressivo i talenti d’Egitto, la nostra creatività. sono stati sprecati, il loro potenziale disperso».

Il regime non è riuscito a controllare Internet, mezzo docile e sfuggente, non è riuscito a comprenderne il linguaggio, le regole,le capacità aggreganti. Eppure non è stata solo la rivoluzione dei giovani: lei scrive che è come se la rivoluzione avesse fatto rinascere un egiziano di tipo nuovo, migliore. Quell’umanità dolente del suo “”Palazzo Yacoubian”, attanagliata dalla disperazione, piegata dall’umiliazionne si è riversata in Piazza Tahir?

«In Egitto c’è un numero di blogger che è superiore a quello di ogni paese arabo, ma certo non venivano tutti da lì i venti milioni che sono scesi in piazza. E in piazza mi è sembrato di vedere tutti i personaggi dei miei romanzi. Abbiamo assistito ad un fenomeno straordinario, quello di avere migliaia di donne rimaste a dormire per strada senza che nessuno le violentasse. La gente ha lasciato i propri effetti personali in piazza, nella profonda consapevolezza che nessuno glieli avrebbe rubati. La rivoluzione è come una vera storia d’amore. Tira fuori il meglio dalle persone. E’come se non avesse solo liberato gli egiziani, ma ne avesse curato anche i difetti sociali».

Lo scrittore non organico, l’intellettuale critico e scomodo che ha anticipato gli avvenimenti… E ora, dopo la thawra con i suoi tentennamenti e riflussi, quale ruolo pensa di avere nel nuovo Egitto.

«Non credo che la letteratura sia uno strumento di cambiamento politico. Sono un'attivista della democrazia, ho scritto articoli in suo nome, li avrei scritti anche se non fossi stato un romanziere. Ma è la politica che cambia le situazioni. Come intellettuale continuerò ad essere molto critico, continuerò a criticare. Non più contro Mubarak, è l’esercito che mi preoccupa».


Lei ha sempre rivendicato il diritto dell'intellettuale a occuparsi di politica. Non si può separare la letteratura dalla politica?

«Mi chiedo: è possibile separare la politica dalla vita? Se la risposta è negativa, allora la letteratura è la vita scritta sulla carta, ciò che si separa dalla letteratura si separa dalla vita».

Renato Minore Il Messaggero Venerdì 09 Settembre 2011

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, mercoledì 21 settembre 2011

mercoledì 24 agosto 2011

MEDITERRANEO : Due guerre in Libia


MEDITERRANEO : Due guerre in Libia

La fine del regime di Gheddafi segna l'inizio della vera lotta per il potere in Libia. La liquidazione del despota era il punto di fusione delle molte anime della ribellione. Ora si tratta di stabilire chi e cosa succederà al duce libico. Operazione non rapida e certamente sanguinosa: pur privato delle leve del potere, Gheddafi non sembra disposto a sgombrare il campo senza incendiarlo, ricorrendo ovunque possibile all' arma estrema della guerriglia.

Il regime non può più governare la Libia, ma non rinuncia a distruggerla. Dalle macerie della dit-

tatura fiorirà uno Stato unitario, più o meno assimilabile a una democrazia, con un leader eletto e riconosciuto da tutti i cittadini libici (pur se non sappiamo chi e quanti sono, in assenza di un censimento). Oppure sarà guerra civile permanente? O il pendolo della storia si fermerà in qualche punto intermedio fra i due estremi? '


Di sicuro, per ora, c'è che il vecchio regime sta sbriciolandosi e che milioni di libici festeggiano, liberi finalmente di immaginare una vita migliore. E mentre si dedicano a stroncare le sacche di resistenza degli ultrà gheddafisti o dei disperati che non sanno a chi arrendersi senza rischiare la pelle gli insorti già pensano a determinare i nuovi rapporti di forza. Chi fra loro comanderà, su quali territori e risorse secondo quali regole o equilibri?

In attesa che la polvere delle opposte propagande-, si depositi per aprire lo sguardo sull' orizzonte futuro, qualche illuminazione possiamo forse trarla dal modo in cui l'edificio gheddafiano si sta schiantando.

C'è un tratto comune nella fine di ogni tiranno: la perdita del senso della realtà. Come altri dittatori ac¬cecati dal potere, anche Gheddafi si era costruito un universo irreale. Quasi a immaginarsi eterno e invincibile. L'eco di tale paranoia risuona negli appelli lanciati durante la battaglia di Tripoli, a invocare una ad una brigate fantasma, tribù ormai convertite alla causa della vittoria, milizie popolari di questo o quel quartiere, che un tempo sarebbero scattate in massa all' appello del qaid, inconcussa guida della rivoluzione, ma che ora aspettavano solo la fine del massacro.


Gheddafi era da tempo un cadavere politico. La ra pidità dell' avanzata finale su Tripoli, in cui non è peraltro difficile scorgere la mano professionale dell' intelligence e di forze speciali occidentali, conferma che il regime era marcio. Le sue architravi erano tarmate e usurate. In retrospettiva, i sei lunghi mesi di guerra - non i pochi giorni pronosticati in Occidente sull'entusiasmo dell'insurrezione di Bengasi -sono non tanto il prodotto della resistenza di Gheddafi, quanto delle divisioni tra chi ambiva ad abbatterlo per prenderne il posto .

Abbiamo assistito finora a due guerre parallele.

Una calda e sanguinosa, tra i ribelli della Cirenaica e i loro alleati in Tripolitania e nel Fezzan, che con il sostegno. delle potenze occidentali puntavano a finirla con il regime per aprire una nuova pagina nella storia della Libia. L'altra prevalentemente fredda e sotterranea, ma talvolta violenta (vedi il misterioso assassinio del generale Younes) , fra le assai eterogenee componenti della coalizione anti-gheddafiana: islamisti e laici, conservatori e progressisti, esponenti tribali o di gruppi etnici particolarmente oppressi dal regime, berberi in testa. Unico fattore comune, la più o meno antica matrice gheddafista dei capi del Consiglio nazionale di transizione.

In questo senso, il crepuscolo del colonnello può essere descritto come la progressiva e sempre più rapida diserzione dei suoi accoliti. Quasi un prolungato, strisciante colpo di Stato - avviato ben prima della rivolta di Bengasi - di chi si rendeva conto di non aver più nulla da guadagnare dal regime e perciò lo abbandonava. Perdendo foglia dopo foglia, la pianta del regime si è spogliata fino a esibire la radice ormai esausta: il colonnello e i suoi figli.

Il pericolo non è solo che da quella pianta morente emanino ancora veleni mortali, sotto forma di guerriglia, attentati, colpi di mano dei nostalgici del vecchio regime, a Tripoli come nella Sirtica o nel Fezzan. È soprattutto che la coalizione prodotta dalla necessità di eliminare Gheddafi si scopra troppo incoerente, che gli interessi particolari - tribali, etnici, regionali - prevalgano sulla necessità di costruire finalmente istituzioni libere nella Libia riunita. Un avvitamento di tipo iracheno, se non somalo. D'altronde, le performance del gruppo di Bengasi non sono incoraggianti quanto a capacità politiche e di gestione. Né si deve dimenticare che l'assalto finale a Tripoli è venuto principalmente dall'Ovest e dalle montagne a prevalenza berbera, con il fronte orientale bloccato a Brega. Non sarà facile ricucire le antiche rivalità e le diffidenze fra tripolitani e cirenaici , o fra arabi, berberi e neri (questi ultimi assai compromessi col regime).

La speranza è che la fine della dittatura sia anche l'inizio della pacificazione fra le genti libiche e della costruzione di uno Stato unitario che non esiste, se mai è esistito. Per fortuna, la storia ha spesso più fantasia di chi prova a interpretarla. Le potenze europee ed atlantiche non possono comunque sottrarsi alle responsabilità che hanno voluto assumersi nel conflitto libico. Scesi in campo per un'improbabile "guerra umanitaria" - di fatto per cambiare il regime -la tentazione degli occidentali è di cantare vittoria, spartirsi le spoglie energetiche e tornare a occuparsi dei fatti propri. In tal caso la sconfitta è assicurata. Sconfitta dei libici che sperano in un futuro di pace, benessere e libertà. Ma anche di noi italiani ed altri europei che li avremo, come d'abitudine, usati e traditi.

Lucio Caracciolo Le due guerre di Libia. La Repubblica 23 agosto 2011

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, mercoledì 24 agosto 2011

sabato 20 agosto 2011

MEDITERRANEO : Islam e politica


MEDITERRANEO : Islam e politica

Scrive Khaled Fouad Allam : “Sono appena tornato da un vìaggio nei Paesi arabi, e posso affermare che in quelle capitali regna oggi un'atmosfera inquietante; sembra che le rivoluzioni stiano arenandosi. La parola araba thawra significa sia "rivoluzione" che "rivolta"; ma ciò che è accaduto è stato certo più di una rivolta, perché regimi come la Tunisia e l'Egitto sono stati deposti dalla piazza. Nel caso tunisino ho potuto osservare. come la situazione sia cambiata nell'arco di un mese, e come l'incertezza connoti le situazioni politiche che si sono create. Ciò che scrissi su queste pagine qualche mese fa - vale a dire che probabilmente il mondo arabo sta transitando verso una forma di islamonazionalismo - trova oggi conferma sia in Egitto che in Tunisia: da un lato i partiti e i movimenti religiosi stanno cercando di darsi un volto istituzionale attraverso elezioni che si svolgeranno nei prossimi mesi, dall'altro i movimenti laici si trovano a dover difendersi di fronte all'avanzata di questi gruppi. Certo, nel caso tunisino ci sono oltre 90 partiti politici in lizza - nazionalisti, repubblicani, comunisti, religiosi - ma questa adesione alla democrazia prefigura in realtà una cruenta battaglia che si svolgerà sul terreno e nelle istituzioni; perché nel mondo arabo la questione dei rapporti fra religione e politica non è ancora risolta, al contrario il fenomeno religioso vuole fare, attraverso la dinamica istituzionale, il suo ingresso nell'arena politica. Ciò sta provocando ovviamente fratture all'interno dei movimenti religiosi islamici.

E il clima che regna attualmente è dei più preoccupanti. Di recente ad esempio, in Tunisia, un grande islamologo, l'ottantenne Mohamed Talbi (cui fu attribuito tra l'altro il premio Agnelli in Italia) è oggetto di diffamazione, e di pubbliche incitazioni alla sua eliminazione fisica. Questi fenomeni tenderanno purtroppo a moltiplicarsi nei prossimi mesi, essenzialmente per due motivi essenziali: in primo luogo, i gruppi laici non sono abbastanza strutturati; in secondo luogo, l'attuale situazione avrebbe bisogno di un sostegno da parte dell'Europa. Perché si realizzi una transizione democratica devono poter emergere tutte le forze politiche che sono autenticamente democratiche e che hanno come punti di forza la libertà di pensiero e i diritti dell'uomo.

Nel caso egiziano la situazione è ancor più complessa: perché, a differenza dei Paesi del Maghreb, il Medio Oriente si distingue per la presenza delle minoranze, cristiane e non solo. Porre la sharia come fonte esclusiva della norma nella Costituzione egiziana significa impedire alla democrazia di essere tale: perché la democrazia nasce per dare visibilità ai rapporti di forza che si instaurano fra maggioranza e minoranza. Il pericolo è dunque che una rivoluzione possa veicolarne un'altra, ma di tipo conservatore. Del resto, sin dagli anni Trenta il movimento della Fratellanza Musulmana aveva affermato di voler conquistare il potere: o attraverso la rivoluzione, o attraverso la democrazia. E la storia degli ultimi mesi ha offerto loro questo duplice canale: prima la rivoluzione, poi il passaggio alla democrazia che di mese in mese si ridurrà sempre più. Vent' anni fa alcuni fondamentalisti affermarono che non si doveva modernizzare l'islam ma islamizzare la modernità. Oggi stanno affermando che non bisogna democratizzare l'islam ma islamizzare la democrazia; ma si tratta di . controsenso, perché il nucleo della democrazia risiede nel non ammettere particolarizzazioni.

Le rivoluzioni arabe ci stanno insegnando che la democrazia certo conquistata, ma richiede l'autonomia tra politica e religione. Nel mondo islamico molti la pensano così: purtroppo o sono isolati, o dimenticati o poco sostenuti. Recentemente a Tunisi Emma Bonino, vicepresidente del Senato, insieme a Marco Panne ha evidenziato questo tema essenziale; ma bisognerebbe che tutta l'Europa comprendesse quale sia la posta in gioco. Perché anche a Tunisi, che dista appena un'ora di volo da Roma si sta giocando oggi parte del desti del mondo.

(di Khaled Fouad Allam Legami pericolosi islam –politica .Ancora isolati quanti vogliono la separazione tra religione e potere Il Sole 24 Ore 14 agosto 2011 )

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, sabato 20 agosto 2011

domenica 3 luglio 2011

MEDITERRANEO : La guerra di Libia tra soldi e petrolio

MEDITERRANEO : La guerra di Libia tra soldi e petrolio

Scrive il generale Fabio Mini : “LA PRIMA vittima di ogni guerra è la verità. E' un assioma. In questa guerra laverità è caduta subito, senza onore. Ma siccòme ogni guerra moderna si deve confrontare con

una migliorata sensibilità della pubblica opinione, la verità uccisa non è più la protagonista del proprio funerale. Il feretro è accompagnato da una folla di disincantati cittadini che hanno altre fonti e non credono a quanto viene propinato dalla politica e dalla propaganda.

L'azione militare in Libia non è soltanto umanitaria : è un tentativo di riscrivere la mappa degli interessi energetìcì in Nord Africa. Lo sviluppo può essere una stabilità con nuovi equilibri (ed equilibristi) o una balcanizzazione dell' area. Franciae Gran Bretagna hanno approfittato dei moti popolari e delle provocazioni di Gheddafi pensando di trarre vantaggi da entrambe le conclusioni. Gli Stati Uniti tentennano perché non capiscono l'Africa e l'Italia si è giocata qualsiasi chance puntando sul cavallo sbagliato e poi dichiarandolo bolso. Gheddafi è dunque l'obiettivo.

Non è vero che avremmo volentieri fatto a meno di intervenire o che non potessimo negare le basi. Siamo in una coalizione per nostra volontà e avremmo potuto eccepire sull'uso delle nostre basi per operazioni noocondottedallaNato.Non èvero che è opportuno passare il comando alla N ato perché ga rantisce unità o il coordinamento e perché cì.esonera dalla verifica della rispondenza delle operazioni militari al mandato Onu. Il comando delle operazioni alla Nato rischia di provocarne la frattura interna e di sancirne il ruolo di fornitore di servizi bellici a pagamento.

Il coordinamento auspicato non è il comando e la Nato non garantisce il rispetto dei mandati (vedi Afghanistan), anzi ten¬de a cronicizzare le operazioni. Inoltre, è incredibile che si sia detto che ci riprenderemo il comando delle basi: se lo abbiamo ceduto ad altri abbiamo fatto una indebita cessione di sovra¬'nità. Così come non è credibile che i nostri aerei non debbano sparare per proteggere i civili libici e sopprimere le minacce.

Infine, non si può credere a chi rimpiange Gheddafi perchè ci dava petrolio e soldi e ci proteggeva dall'invasione scalza. Il colonnello gestiva soldi, petrolio e traffici di migranti per il suo . interesse, esattamente come aveva gestito il terrorismo. Oltre a chi comanda e a chi dovrà guidare la Libia del dopo-Ghedda¬fi bisogna anche inventarsi qualcosa di più credibile per giusti¬ficare sia la guerra sia la complicità con i tiranni”

E a questo proposito scrive Giorgio Bocca : ancora una volta il rais dai ca­pelli tinti e dalle amazzoni prosperose ci ha stupiti La guerra di cui il protagonista è incomprensibile, la più inimmaginabile guerra del mondo: senza confini e nazione, con le prime linee che sono anche retrovie, con i campi di battaglia indefinibili nel carosel­lo di armati che vi circolano come in una giostra pazza. Da fuori una guerra incom­prensibile: le piazze di Tripoli, la capitale, si riempiono ora di ribelli ìnneggìanti alla libertà ora di sostenitori del rais pronti a decimare gli insorti con mitragliatrici e cannoni Non si capisce se le battaglie che si accendono nel deserto siano di copertu­ra o di attacco, sembrano piuttosto fiam­mate che si accendono e divorano ciò che incontrano senza una strategia precisa.

Il rais è da mezzo secolo il sultano del­la Libia, ma non si è ancora fatto un eser­cito nazionale, arruola dei mercenari afri­cani o europei o asiatici. Una guerra in cui tutto è comperabile, carri armati co­me aviatori, missili come rivoltelle. Non sai mai se una località è assediata o base di attacco, se è per resistere o per conqui­stare, e se le manifestazioni confuse che appaiono sulle televisioni sono di amore o di condanna Le immense piazze di Tripo­li possono riempirsi di folle di fedeli come di rivoltosi. E intanto alla tragedia e alla confusione libica si sovrappongono quelle degli immigrati che vi lavorano o dei fug­gitivi da regimi feroci che vi sono arrivati per scampare, e invece di un ospizio han­no trovato una trappola infernale di car­cere, fame e fucilazioni. È confuso anche il contesto internazionale, il mondo osser­va la tragedia e vi partecipa, ma di preci­so non sa ancora come. Con che diritto il presidente degli Stati Uniti ordina al pre­sidente di uno Stato indipendente, cioè la Libia, di andarsene, di cessare ogni resi­stenza? In nome dell'impero americano, dell'umana civiltà o dei rapporti di pote¬re? In passato attorno a una guerra come quella libica si creavano subito schiera¬menti opposti, come nella guerra di Spa¬gna: filofascisti e filocomunisti. Qui anche nelle oasi libere dove ognuno può dichia¬rarsi per chi vuole i più stanno a guardare e non hanno ancora capito dove sia la parte giusta o il vincitore.


Il rais è un nomade del deserto inaf¬ferrabile, ogni giorno cambia avversari e invettive, ce ne sono per tutti: per gli ita¬liani colonialisti, per gli americani impe¬rialisti, per gli islamisti del terrore che quando ha potuto ha fatto fucilare, salvo diventare lui stesso un sanguinario. Nel¬le .Qiazze italiane, sempre ronte a schie¬rarsi pro o contro nel nome di progressi¬smi o di conservatorismi, per la guerra di Libia pochissimi sono in grado di di¬chiararsi. Del resto, non è questo il sulta¬no che vive in una tenda e si veste come uno spaventapasseri?

Stati uniti ed europa corrono un grave rischio: quello di una mancanza di strategia comune

Scrive Antonio Puri Purini su Corriere della sera del 19 marzo 2011 “La vicenda Libia ha anche dimostrato i margini ristretti in cui operano gli Stati Uniti e ha reso l'Europa ancora più piccola, se non misera, di quanto non fosse. Gli Stati Uniti sono partiti da un'iniziale posizione durissima contro Gheddafi, salvo però bloccarsi davanti alla prospettiva di un complicato intervento armato (no-fly zone, embargo navale, impiego di truppe). La prudenza di Obama ha rasentato la passività: avrebbe voluto liberarsi di Gheddafi ma senza ripetere gli errori di Bush ed evitando che la Libia potesse trasformarsi in una faccenda americana. L'Europa, che avrebbe potuto aiutarlo a tracciare un percorso comune euro-americano, si è ben guardata dall'inviare segnali credibili e contrapposti a Gheddafi (messa in guardia) ed all'opposizione (aiuti di sostanza). Le divisioni dell'Unìone Europea sulla Libia la dicono lunga su quanto sia prematuro l'appello ad un'Europa capace di parlare con una sola voce (tantomeno con qùella taciturna barones¬sa Ashton) sulla politica estera. D'altra parte, sembrava che tutto fosse fatto e che, an-

" che senza interventi esterni, il colonnello sarebbe stato•obbligato a lasciare il proprio Paese: il Consiglio di Sicurezza aveva dato il via (prematuramente) all'attivazione del Tribunale penale internazionale, Gheddafi era stato invitato a farsi da parte, il Consìglio Europeo gli aveva tolto ogni legittimità internazionale, il Regno Unito lo aveva definito un reietto. "

Nel frattempo, la situazione politico-militare in Libia si è modificata a svantaggio dei rivoltosi. L'ipotesi originaria di creare una zona d'interdizione aerea (la no fly zone appunto) appariva superata dagli sviluppi sul terreno. Ora sembra che le operazioni militari ( voli aerei) siano ricondoti ad una unico comando quello della Nato

Ed ora che cosa si fa? L'impotenza dell'Eu­ropa rimane un dato di fatto, proprio men­tre gli Stati Uniti avrebbero più bisogno del suo sostegno. L'applicazione della risoluzio­ne del Consiglio di Sicurezza pone l'Unione Europea di fronte alle proprie responsabili­tà. L'improvvisa accelerazione delle ultime ore ricorda agli europei che l'ispirazione può essere una necessità, che l'unità rac­chiude la stessa ragion d'essere del proget­to unitario europeo, che a volte il realismo ed il cinismo politico deve cedere il passo a motivazioni ideali ed etiche. Questo riguar­da anche l'Italia. Non siamo stati gli unici a fare la corte alla Libia ma abbiamo esagera­to nel farne il perno della nostra politica mediterranea nell'illusione di risolvere, una volta per tutte, l'immigrazione clande­Jìtina. Ma con quanta consapevolezza dei nostri autentici interessi? Secondo il buon senso, avremmo dovuto sottrarci ai ricatti . di Gheddafi, alle opacità di tante operazio­ni economiche, al mito della dipendenza· energetica dalla Libia. Le insistenze fran­co-britanniche sull'intervento militare non erano il sintomo di una bieca quanto inesi­stente congiura (menzionata dal presiden­te della Regione Lombardia Formigoni al Corriere della Sera) per scalzare gli interes­si economici dell1talia dalla Libia. Una volta tanto, riflettevano una ripugnanza con- . tro un individuo spregevole assecondato ol­tre il ragionevole dai Paesi occidentali con­vintisi finalmente che i valori dell'Europa sarebbero stati irrisi per decenni qualora l'Europa stessa fosse rimasta inattiva. Per fortuna, l'epitaffio di questa vicenda non è sfato rappresentato dal «non disturbo Gheddafi» pronunciato dal presidente del Consiglio nei primi giorni della sollevazio­ne popolare. Questo è innanzitutto il mo­mento di tappare la bocca al colonnello. Verrà poi il momento di un messaggio com­patto di apertura etica, politica, economica nei confronti della Libia basato sulla parte­cipazione e sul coinvolgimento di cui l'Ita­lìa potrà essere parte responsabile.

Eremo Via vado di sole , L'Aquila,
domenica 3 luglio 2011