martedì 10 settembre 2013

CONTRAPPUNTO : Homotechnologicus

CONTRAPPUNTO  : Homotechnologicus

Giuseppe O. Longo nasce a Forlì il 2 marzo 1941 e vive aTrieste dal 1955. Nel 1964 ha conseguito la laurea in Ingegneria Elettronica e,quattro anni dopo, la laurea in Matematica. Nel 1969 ha ottenuto la liberadocenza in Cibernetica e Teoria dell’informazione, disciplina che ha introdottoin Italia e di cui ricopre la Cattedra dal 1975, presso la Facoltà d’Ingegneriadell’Università di Trieste. L’attività di ricerca, molto intensa, spazia dallateoria delle reti ai codici algebrici fino alla teoria dell’informazione.Attualmente Longo si occupa soprattutto di epistemologia, di intelligenzaartificiale e dei risvolti sociali del progresso tecnologico, in particolare diroboetica. Proprio su queste tematiche ha pubblicato i saggi: Il nuovo Golem:come il computer cambia la nostra cultura, (Laterza, Bari, 1998), Homotechnologicus (Meltemi, Roma, 2001) e Il Simbionte: prove di umanità futura(Meltemi, Roma, 2003). All’attività scientifica affianca anche quella narrativae drammaturgica. Ha scritto per diverse riviste letterarie tra cui Il banco dilettura e Linea d’ombra. Ha pubblicato tre romanzi tra cui L’acrobata (Einaudi,Torino, 1994), otto raccolte di racconti e una raccolta di drammi, Il cervellonudo (Nicolodi, Rovereto, 2004). Nel 2008 ha pubblicato il saggio Il senso e lanarrazione (Springer Italia). L’innesto uomo-macchina è una realtà in continuatrasformazione ed è proprio questo cambiamento che Giuseppe O. Longo descrivenei suoi scritti, dove l’intento esplicito consiste nel presentare il drammadel trapasso coevolutivo che stiamo vivendo. Su tale transizione e suglieffetti ad essa collegati verte l’intervista che segue.

In HomoTechnologicus, nell’Introduzione, Lei scrive: “vorrei in questo librorappresentare o almeno presentare il dramma del trapasso coevolutivo che stiamovivendo e che riguarda tutti noi e ciascuno di noi”. Secondo il Suo pensierotale dramma è stato generato dall’intensità con cui la tecnologia irrompe nellanostra vita o dall’uomo stesso, capace di costruire “macchine” tanto complessee nel contempo incapace di controllarle e governarle?
Se non ci fosse l’uomo la tecnologia di per sé non potrebbeirrompere sulla scena. Ma è anche vero che quando si dice “uomo” si fariferimento a un soggetto collettivo di cui è difficile individuare la volontàdeliberata. Oggi l’innovazione tecnologica è l’effetto non di scelte precise disingoli individui, bensì di un aggregato di spinte, necessità, tentativi,proposte ecc. proveniente da una molteplicità di soggetti e difficile dasbrogliare. In questo aggregato alle considerazioni puramente tecniche simescolano necessità sociali, culturali, esigenze economiche, fattibilitàecologiche ecc. La difficoltà di individuare le cause precise del progressotecnico può dare l’impressione che la tecnologia abbia una forza propulsivapropria, assimilabile a una sorta di volontà autonoma. Tanto più chel’innovazione tecnologica manifesta una sorta di anello di retroazionepositiva, nel senso che più tecnologia c’è più è facile l’avvento di altratecnologia. Di fatto uomo e tecnologia sono legati a doppio filo, da unarelazione circolare in cui è difficile individuare la causa e l’effetto delprocesso dinamico. Questo è il motivo per cui si può e si deve parlare di “coevoluzione”e non semplicemente di “evoluzione”. La presenza di questi anelli diretroazione, di queste circolarità causali, è caratteristica dei sistemicomplessi ed è stata individuata in tempi non troppo lontani. Infatti inpassato il rapporto causa-effetto era considerato unilineare e unidirezionale.

Lo sconvolgimento della vita dell’uomo e delle sueabitudini, provocato dall’irruzione della tecnologia nel “mondo della vita”,conferisce a Suo avviso, una sorta di autonomia alla macchina?
L’autonomia della macchina è una nostra proiezionepsicologica: abbiamo l’esigenza di rapportarci a soggettività ricche, con cuidialogare. Così rendiamo autonomi non solo gli altri umani (e questo èragionevole, plausibile e scontato, nonostante nessuno possa entrare nellatesta di un altro), ma anche gli animali (e questo è ancora plausibile, benchécontestato da alcuni) e addirittura gli oggetti (questa è una forma di animismoche applichiamo per esempio alle automobili). La grande complessità delle“macchine della mente” (computer, internet ecc) e la loro natura appuntomentale (il fatto che elaborino informazioni) fornisce una spinta ulteriore inquesta direzione: è più facile attribuire un’anima, una mente autonoma a uncomputer che a un macinapepe elettrico. Il culmine di questo processo diproiezione si ha appunto nei confronti delle macchine che presentano uncomportamento che, se fosse manifestato da un umano, sarebbe definitointelligente. Non bisogna mai dimenticare questo animismo quando si parla di“intelligenza artificiale”. Diverso è il discorso per quanto riguarda i“robot”, macchine in cui un corpo artificiale si coniuga con una menteartificiale: queste macchine hanno una certa capacità di apprendere e quindianche una certa autonomia, nel senso che di fronte a situazioni ambigue sono ingrado di prendere decisioni non soltanto in base al programma, ma anche in basealla loro esperienza. È vero che la loro esperienza è filtrata e orientata dalprogramma, ma s’intravede comunque una certa capacità decisionale. Alcuniprevedono che i robot del futuro anche prossimo avranno capacità decisionali eautonomia crescenti, e questo può provocare una certa ansia. Avremmo cioècostruito macchine di cui non saremmo più padroni. Inoltre a un certo puntol’autonomia dei robot potrebbe spingersi al punto di consentir loro dicostruirsi (sempre più perfezionati) a prescindere dalla nostra volontà. Alloraessi sarebbero affatto indipendenti. Questo è un tema caro alla fantascienza,ma già oggi alcuni specialisti studiano questi scenari.



Ritornando al “dramma”, sempre in Homo Technologicus, Leiscrive che “il dramma ha  perprotagonisti l’uomo e le sue macchine e mette in scena i loro complicati emutevoli rapporti”. In Machina Dolens don Vicente Gurrìa e le sue macchinecondividono, seppur stando lontani, uno stato di follia e di reclusione. Talestato di follia è stato da Lei immaginato come l’effetto che la creazione ditali macchine ha avuto sul loro creatore o viceversa come conseguenza del fattoche le macchine stesse  sono nate da unpadre folle?
Nel racconto ho immaginato don Vicente nelle vesti diapprendista stregone: ha costruito, senza volerlo, macchine capaci di soffriree la loro sofferenza l’ha reso folle. Ma certo la sua ipotesi è fondata: soloun folle potrebbe costruire macchine dotate di quella sensibilità estrema, e illoro dolore rende palese, e intensifica, la follia latente nel costruttore.Quindi, come spesso accade, sono vere entrambe le cose, sono legate da uncircolo di retroazione: un folle crea macchine che lo rendono ancora più folle(e in questa follia dilatata egli potrebbe costruire macchine ancora piùinquietanti e sofferenti... e così via). Ho scritto sopra “senza volerlo”:questo punto è delicato. Tutta la tecnoscienza costruisce apparati edispositivi in vista di un certo scopo. Ma ogni dispositivo gettato nellacomplessità del mondo interagisce in modi complessi e imprevedibili con tuttoil resto dell’esistente. Questi effetti imprevisti e spesso indesiderati, chedi solito il tecnoscienziato non è in grado di prevedere, sono potenzialmentepericolosi, ma anche creativi: aprono nuove strade e nuove possibilità, mapossono anche provocare disastri. È la lotteria dell’evoluzione tecnologica (eculturale).

La figura dell’automa esercita un notevole fascino sugliuomini, come Lei stesso ribadisce più volte in Homo Technologicus. Parliamoancora una volta di un prodotto creato dall’uomo, una macchina, questa voltaperò con fattezze umane. Secondo il Suo pensiero tanto fascino deriva dallaperfezione di cui noi umani siamo sprovvisti o da un ennesimo egocentrismoumano che vede in tali automi il riflesso della propria perfezione e delproprio ingegno?
La cosa è un tantino più complicata. Nel 1970, quando irobot umanoidi (o antropomorfi, cioè con fattezze umane) non erano certoperfezionati quanto oggi, l’esperto giapponese Masahiro Mori coniò, sullatraccia del “perturbante” (Unheimlich) freudiano, la locuzione “valle delperturbante” (in inglese Uncanny Valley) per descrivere l’andamento dellereazioni emotive degli umani nei confronti dei robot. Secondo Mori, via via chel’aspetto e il comportamento di un robot si avvicinano a quelli dell’uomo, ilnostro atteggiamento diventa sempre più positivo, ma a un certo punto si ha un bruscocapovolgimento e subentra una forte repulsione. Aumentando ancora lasomiglianza, tuttavia, si supera la “valle del perturbante” e la simpatia e lafiducia tornano a salire. Il “perturbante” fa riferimento a ciò che diinquietante, estraneo, o addirittura pericoloso, può nascondersi nel cuorestesso della nostra identità. Perturbante è ciò che è familiare e insiemespaesante, che somiglia al domestico ma cela in sé qualcosa di indecifrabile eminaccioso. Perturbante è il doppio, il sosia, l’ambiguo, l’ammiccante: ciò chesuscita diffidenza per la sua somiglianza quasi perfetta, che allude all’Altroma anche a noi. Quindi non suscita solo fascino, l’androide, ma ancherepulsione e inquietudine.

Lei definisce il corpo come la più importante interfacciaomeostatica attraverso la quale comunicare. Parafrasando Marshall McLuhan, aSuo avviso, il corpo è più mezzo o più messaggio?
Il corpo è un mezzo ma anche un messaggio. Del resto McLuhanafferma giustamente che “il mezzo è il messaggio”, intendendo che il mezzocondiziona, filtra e modula il messaggio tanto in profondità da restituirlo bendiverso da quello che gli è stato affidato per la trasmissione. Che il corposia un mezzo (di comunicazione, ma anche di azione e di percezione) èabbastanza evidente, ma se si riflette sulla vastissima gamma dei segnali cheesso emana in continuazione per il solo fatto di esserci, di atteggiarsi e dimuoversi, non si può negare che esso sia anche un potentissimo e articolatomessaggio (multimediale, per usare un termine di moda). La sola presenza di uncorpo (persona) può condizionare profondamente la comunicazione che si svolgein un certo contesto.

Nel racconto L’aveva rosagrigio, Lei pone in antitesi duepersonaggi, Sebastian e la sua vicina. L’uno legato ancora ai vecchi mezzi dicomunicazione, l’altra entusiasta dei nuovi dispositivi, come lo è appunto  l’“impianto telefonico mascellare”. Quelloche descrive in questo racconto è uno scenario rivolto a un futuro, non si sase vicino o lontano. Lei pensa che in tale futuro l’uomo medio saràrappresentato più dalla vicina o più da Sebastian? E se la tecnologia arrivassead un punto di stasi? O ancora, se a un punto di stasi nei confronti dellatecnologia arrivassero gli uomini, acquisendo nei suoi confronti una sorta dirigetto, proprio come Sebastian?
Estrapolando dalle tendenze attuali non c’è dubbio che ilfuturo appartiene alla vicina entusiasta della tecnologia trionfante. Eppure latecnologia potrebbe in effetti arrivare a un punto di stasi: per mancanza didenaro da investire nell’innovazione, per qualche catastrofe esterna cheminacci la fine della civiltà (o dell’umanità) così come la conosciamo oggi,oppure, come ipotizza Lei, per un rifiuto crescente e via via più esteso daparte degli umani. Ne Il Simbionte ho dedicato un capitolo allo studio dellasofferenza provocata dall’invasione tecnologia del corpo-mente umano,sostenendo che le strutture ancestrali e le facoltà primarie ereditate per viabiologica si oppongono all’invasione della tecnologia. Questa opposizioneprovoca disadattamento e sofferenza. L’uomo (e l’umanità intera) soffre diquesta invasione, ma si adatta per i vantaggi che ne ricava. Un giorno sipotrebbe diffondere la sensazione “luddista” che i vantaggi non compensano piùgli inconvenienti e ciò potrebbe portare a una rivolta antitecnologica.

La tripartizione delle macchine in macchine del corpo,macchine della mente, macchine del corpo – mente, che Lei affronta in HomoTechnologicus, è un’evoluzione della macchina da considerarsi, ancora una volta,unicamente legata all’evoluzione dell’uomo? O è possibile ravvisare in essaun’evoluzione “autonoma” della macchina, nel senso in cui quest’ultima,progettata in un determinato modo, rivela poi nel suo uso pratico “capacità”che il suo stesso “creatore” non avrebbe saputo e potuto prevedere?
Fino ad oggi l’evoluzione delle macchine è stata legata aquella dell’uomo, ma a doppio filo: l’evoluzione dell’uomo e quella dellemacchine si sono intrecciate in modo tale che se è vero che l’uomo fa lemacchine è altrettanto vero che le macchine concorrono all’evoluzionedell’uomo. Questo è il succo del concetto di Homo Technologicus. Le macchinepotrebbero cominciare ad evolversi in modo più autonomo? E verso qualitraguardi si evolverebbero?
Qui possiamo soltanto fare congetture e disegnare scenari.Un tema centrale a questo proposito è quello del libero arbitrio, temaformidabile e controverso, che alcuni risolvono sbrigativamente negando lalibertà non solo ai fenomeni naturali, ma anche all'uomo sulla base di unferoce determinismo alla Laplace; altri, all'opposto, negano la libertàriconducendola alla casualità. Se il libero arbitrio non appartiene agli umani,come potrebbe appartenere alle macchine? A questo riguardo, si può sostenereche solo le creature dotate di coscienza posseggono il libero arbitrio e sonoin grado di agire in modo etico. Non è certo un caso che siano in corsoricerche per dotare i robot (perché è in sostanza di queste macchine che stoparlando) di una coscienza artificiale, CA, la cui definizione operativapotrebbe essere: un sistema artificiale è dotato di CA se si comporta in modiche, negli umani, richiedono coscienza (è una definizione analoga a quelladell'intelligenza artificiale, IA). Insomma, i robot potranno mai diventare soggetti(e oggetti) etici? Poiché, almeno allo stadio attuale, i robot sono manufatticostruiti da noi con finalità pratiche specifiche, ciò dipende dai mezzi di cuili dotiamo per il raggiungimento di quei fini: per esempio potrebbe essereutile una certa dose di autonomia, libertà e inventiva. Anche nel caso in cuiquest'autonomia sia limitata, non si può escludere che - per esempio inambienti separati dall'habitat umano che postulino l'attivazione di capacitàdecisionali per evitare la distruzione delle macchine - qualche fenomenoevolutivo (una mutazione fissata da una selezione confermativa) portiall'acquisizione di un'autonomia che potrebbe accompagnarsi al sorgeredell'istanza di auto-conservazione, della coscienza e quindi di un'etica basatasulla libertà. I robot potrebbero acquisire il libero arbitrio non solo per unaderiva evolutiva in ambiente abbastanza separato, ma anche per una deviazionealeatoria dal progetto originale oppure in seguito a un vero e proprio erroredi programmazione. Oppure la deviazione, il clinamen, potrebbe essere dovuto aun incidente provocato da cause esterne e potrebbe sfociare in una sorta di"follia" robotica, fonte di creatività. Si potrebbe insommaipotizzare un "robot schizofrenico" (nel cui organo cognitivo esemi-cosciente si scontrassero ingiunzioni primarie contrastanti, cheportassero all'insorgere di un doppio vincolo nel senso di Gregory Bateson):questo robot folle potrebbe manifestare libertà (e inventiva), ma sarebbe unalibertà da vigilare attentamente.
C’è anche da riflettere sulle conseguenze dell'intreccio tracomplessità ed evoluzione temporale: dato un tempo abbastanza lungo, leinterazioni tra sistemi complessi (i robot e l'ambiente in cui"vivono") possono dar luogo a effetti inattesi, sorprendenti e magariindesiderati (le alterazioni accidentali del codice etico cablato, lemutazioni, la conseguente incontrollabilità e libertà; il paradosso dellaconoscenza che ci consente di compiere azioni e di costruire manufatti dalleconseguenze sconosciute e inconoscibili). A questo proposito si pone ilproblema della responsabilità delle conseguenze indesiderate, che è facileattribuire quando il rapporto causa-effetto è immediato, ma che diventa semprepiù arduo quando l'intervallo temporale si allunga e si diluisce quindi lacogenza della causalità (per cui anche le buone intenzioni possono alla lungaprodurre effetti devastanti).
C'è da osservare che il punto di vista che ho adottato inquesta risposta è antropocentrico. La preoccupazione è dunque in primo luogoquella di salvaguardare gli umani e, in secondo luogo, di avere nei robotservitori utili. Se poi l'utilità richiedesse una raffinatezza che portassealla presenza di libertà e di coscienza, si potrebbe accettare anche questacomplicazione, purché se ne potessero esaminare le possibili conseguenze.
È da questo punto di vista sensibile agli interessiumani  che trova piena giustificazionel’adozione del “principio di precauzione” nel campo della robotica. Ma èproprio l'adozione del punto di vista antropocentrico che ci fa perdere divista una possibilità remota ma non insignificante: che i robot diventinomigliori di noi (in senso generico ma abbastanza trasparente). Questaeventualità sarebbe forse ancora più inquietate e, di fronte a creature miglioridi noi, proveremmo forse l'impulso antietico di distruggerle per invidia,dimostrando ancora una volta la nostra malvagità.
Sempre dal punto di vista antropocentrico, ci si puòchiedere se un'evoluzione più o meno autonoma dei robot possa portarli a un'eticaanaloga a quella umana. La risposta che darei è negativa: anche se l'evoluzionedei robot avvenisse in un ambiente separato e favorevole all'instaurarsi di unprincipio di auto-conservazione, resta il fatto che gli incidenti di percorso,le contingenze e la casualità avrebbero l'effetto complessivo di costruireun'altra storia e un altro esito. Inoltre, e mi sembra un'osservazione digrande portata, la potenziale immortalità del robot rispetto all'accertatamortalità dell'uomo costituirebbe una differenza di fondo difficile dasuperare. Infine vorrei osservare che come l'intelligenza artificiale ci haproposto un paradigma cognitivo che, pur costruito dall'uomo, è piuttostodiverso dal nostro e ha quindi infranto una sorta di monopolio esercitato implicitamenteda sempre dalla nostra intelligenza, così una possibile etica artificialepotrebbe infrangere il monopolio, finora dato per scontato, della nostra etica,qualunque sia la definizione che ne vogliamo dare. Queste alternative,cognitiva ed etica, potrebbero aiutarci a far luce sulla nostra intelligenza esulla nostra natura etica.

Homo Technologicus è ciò che Lei definisce in Il Simbionteuna nuova unità evolutiva, una sorta di simbionte in continua trasformazione.Sembra che questa nuova unità evolutiva sia destinata a ricoprire un ruolocentrale per molto tempo, data la grande avanzata dello sviluppo tecnologico.Ritiene possibile, nonostante l’impetuoso progresso tecnologico, che anche HomoTechnologicus sia destinato a sparire, proprio come i suoi predecessori?
Qui è importante stabilire il soggetto delle nostreproposizioni: se Homo Technolgicus è un individuo, esso sparisce per mortenaturale, se è una specie, esso si trasforma in continuazione. Trasformarsivuol dire sparire? È lo stesso problema che si ha nel caso biologico, e si puòapplicare lo stesso tipo di ragionamenti. Si può forse dire che, dato un tempolunghissimo (e prescindendo da catastrofi simili a quelle che hanno causato lascomparsa dei dinosauri), se si confronta Homo Technologicus dell’inizio conquello della fine del periodo le differenze possono essere enormi: si può direche il primo è scomparso, oppure che si è trasformato in altro? Credo che siaun problema filosofico antico, ma possiamo risolverlo con piglio pragmatico dicendoche HT si trasforma in altro, mantenendo certe caratteristiche di base, tra lequali appunto la capacità di trasformarsi.

La tecnologia, secondo il suo parere, è parte integrantedell’uomo? O la si può considerare come un fenomeno a sé di cui l’uomo entra afar parte? In altre parole: Lei ritiene che la tecnologia debba essere perforza di cose subordinata all’uomo, o, date ormai le grandi possibilità cheoffre, è l’uomo che è incapace di viverne senza?
La tecnologia fa parte integrante dell’uomo. Gli strumenticon cui conosciamo il mondo e agiamo su di esso escono dal nostro corpo-mente,ma ne sono un prolungamento: non possiamo separare l’uomo dai suoi strumenti.Affermare che il nostro corpo finisce dove finisce la sua superficie, la suaepidermide è sostanzialmente sbagliato. Il rapporto è sempre involutivo, questoconcetto è al centro della definizione di simbionte: non c’è uomo senzatecnologia così come non c’è tecnologia senza l’uomo. Forse la seconda parte diquesta asserzione è più trasparente della prima, ma non è più vera.

A proposito del crollo delle barriere spazio – temporali, lapossibilità di parlare con uomo o una donna che vive dall’altro lato delpianeta, rappresenta per lei una significativa conquista o un “discutibile”modo di intrattenere relazioni con chi non ci ha mai neanche “stretto la mano”?Qual è la sua posizione attuale sul problema?
Mantengo la stessa posizione: ogni tecnologia è un filtro,che ci consente di fare meglio certe cose o di fare cose che prima nonfacevamo, ma ci impedisce anche di fare cose che prima facevamo. Senza latecnologia della comunicazione non potevamo parlare o corrispondere conqualcuno che stesse molto lontano, se non con grande lentezza, ma questalentezza ci permetteva forse di calibrare meglio i contenuti, il tono e ilcalore delle nostra comunicazioni (per lettera, per esempio). C’è un altroaspetto: oggi possiamo comunicare con chiunque sia collegato alla rete, aprescindere dal luogo dove si trovi, e ciò ha profondamente modificato la nostranozione di spazio e di continguità. Ma, per converso, non parliamo più con chici è vicino. Basta osservare che cosa accade in treno: alla calda e caoticaconversazione di un tempo tra vicini occasionali si è sostituito quasi deltutto un fitto intreccio di conversazioni telefoniche con persone lontane.Insomma non ci sono pasti gratuiti: quando abbiamo un vantaggio, di solito ciòcomporta un inconveniente.

    Foto tratte dalcatalogo     della mostra     Corpo - Automi – Robot     edito da Mazzotta

Eremo Rocca S.Stefano martedì 10 settembre 2013











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