sabato 14 settembre 2013

VERSI D’ALTRI E ALTRI VERSI . "Senza prima né poi, appena un mentre"

VERSI D’ALTRI E ALTRI VERSI . "Senza prima né poi, appena un mentre"


  
Sulla poesia di Emilio Rentocchini


Cominciamo da due fotografie. Meglio, daun’unica istantanea che si scompone – o si biforca? - in due.
C’è un uomo che cammina per un sentierodi campagna; a vederlo così, il gesto di chi mette avanti la gamba destra, unpasso ancora, deciso, negli abiti chiari, le mani nelle tasche, di fianco lanatura che dà aria e sembra supplisca al volto - tagliato fuoridall’inquadratura - sembra davvero che naturaleo natura siano l’aggettivo e ilnome giusto per chiudere il quadro nella misura di una cornice idillica, senzaombre.   
Ma l’ombra c’è. Basta guardare la stessafoto a figura intera: lì c’è sempre la natura, e l’uomo che cammina, ma nescorgiamo il volto, e dietro quel volto, l’ombra - la sua ombra - gettata comeun soprabito dietro le spalle che lo accompagna come per dare una vibrazione didisequilibrio a quel passo che il flash dell’ istantanea tenta di sottrarre allaprecarietà.
Chi abbia per le mani una copia di Segrè, l’elegante volumetto di poesiestampato nel 1998 dalla Libreria Incontri di Sassuolo, ha bene impresso nellamente quel passo, e la cadenza con cui Emilio Rentocchini fin dalla copertinaci convoca nel mondo della sua poesia.
Il suo infatti non sembra il passocordiale di chi ti viene incontro, ma piuttosto quello ritroso e schivo di chisi allontana, lasciando però una scia che chiede con discrezione di essereseguita.
Questa impressione di allontanamento èforse data, nel libro, dalla disposizione - o come si diceva prima,scomposizione - della foto (a proposito, l’autore, il fotografo Diego Cuoghi, èanche l’artefice del raffinato progetto grafico del libro), in maniera tale chel'’ingrandimento, campeggiando in copertina, rigetta, come un enjambement, lafoto intera nello spazio più riposto del controfrontespizio, di fattoproiettandola in una distanza evocativa, prolungandola come un’eco ancorapercepibile di parole a distesa.
Chiediamo scusa al lettore se abbiamoaperto il discorso su un poeta con una divagazione apparentemente cosìimmotivata a riguardo di una foto di copertina. A nostra scusante vorremmoavvertire, qui ed ora, che per una strana casualità (ma sarà davvero casuale?Sciascia ci ha insegnato che nella casualità è da ricercarsi l’unico ordinepossibile) l’osservazione di quella fotografia, il suo scomporsi in due, e ineffetti proprio la sua esibita dualità, ci sembrano istruttive per avvicinarel’opera di un poeta che scrive due volte i suoi testi, in italiano e neldialetto di Sassuolo. Restiamo ancora un poco sulla soglia per aggiungereun’altra cosa che ci preme molto: noi non intendiamo contribuire ai dibattiti,le querelles, le petizioni a favore o contro, per non dire le discussioniteologicamente raffinatissime sull’ontologia della poesia dialettale, tral’altro crediamo che Emilio Rentocchini al di là di tutto tra i cosiddetti neo - dialettali ci starebbe assai apigione. Neanche ci interesserebbe parlare della sua poesia se si trattassesoltanto di prenderla e collocarla come fosse una bandierina nell’affollatacartina geopolitica della poesia italiana contemporanea. Lasciamo ad altriquesta ed infinite altre “eunucomachie” (direbbe il Foscolo; e penso a una sualettera –attualissima, dovrebbero impararla a memoria tutti i direttori diriviste letterarie - al Pellico) . A noi piace in questa sede ricordare esoprattutto mettere in pratica con i nostri poveri mezzi un dupliceinsegnamento: quello pavesiano, per cui i libri sono strumenti privilegiati perarrivare al cuore di un uomo; ad esso aggiungendovi le parole che abbiamoascoltato proprio dalla voce di Rentocchini: “L’arte è libertà”.
Adesso parliamo pure di ottave. Sì perché le poesie di Emilionascono tutte da questo stampo: l’ottava, lo spazio limitato eppuresorprendentemente infinito in cui abbiamo preso gusto a seguire le gesta diTancredi e Orlando,, la fuga di Erminia tra i pastori, la morte di Clorinda, ilcastello dell’incantatore Atlante, che appare e scompare nel suo smaltoevanescente.
Giovanni Giudici nel suo elzeviro apparsosul «Corriere» del 4 giugno 1999, ha scritto che «con le sue otèvi di boiardesca, ariostesca e tassesca memoria (...)Rentocchini ci offre nella sua ricca tematica un dono di poesia antica e nuova:il coraggio della malinconia; la vanità delle imprese umane in al casèin /sense d’la tèra (nelcasino sensato della terra); uno sguardo impietosamente aperto sul gran finaledi Vuoto e di Buio».
Si potrebbero fare molte riflessionisull’uso di questo metro da parte del poeta, ma in fondo la riflessione piùesaustiva conviene cercarla proprio in un’ottava del libro: si tratta per laprecisione di un’epistola in versi, naturalmente in forma di ottava, offertaall’italianista Gian Paolo Biasin:
     

Ma l’è acsè fina ch’l’anper gnanch na vòus,

Come ch’la fòssacherta vlèina dèinter,
Ma grèsta d’ariae do paròli in cròus
Seinsa prèmma nepo’, apèina un mèinter
Lasè apòsta apasèr quèsi d’ascòus
Adrè al pensèrch’pensèr l’è uguèl a sèinter,
E quèll ch’à pasain l’òrba as fa lusèint
Piò as dèsfa inl’aria e piò t’al sèint arèint.
     
Ma è così pura che non pare neanche unavoce,
Come se fosse carta velina dentro,
Una crosta d’aria e due parole in croce
Senza prima né poi, appena un mentre
Lasciato apposta passare quasi dinascosto
Dietro al pensiero che pensare è uguale asentire,
E ciò che passa nel buio diventaluccicante
Più si disfa nell’aria e più lo sentiaccanto.
   
Ha scritto Paolo Fabrizio Jacuzzi cheRentocchini «è il poeta di un unico libro: un poema del pensiero che digeriscela materia e produce la musica straziata e straziante delle viscere» (Decalogo per Rentocchini, in «Origini»,pag. 75) . In effetti l’ossatura di Ottave(Garzanti, Milano, ottobre 2001) è già tutta manifesta nel libroprecedente, Segrè, basti considerarel’indice: tre sezioni (di complessive 95 ottave), di cui la prima intitolataappunto Otèvi, la seconda sezioneeponima (leggiamo in nota all’ottava 19 che Segrè è il nome di «un’antica villadiroccata»), la terza, intitolata Dop (Dopo)composta da appena tre ottave. L‘emersione lenta del volto del poeta nellefotografie di Segrè sembra pertantoavere riscontro nella lavorazione altrettanto lenta e minuziosa delle ottave;di una « lingua che non cresce mica, che si consuma» (Segrè, ottava 1) . D’altronde abbiamo sentito Emilio affermare diaver sempre scritto in un anno, mediamente, non più di una decina di poesie.
La poesia per Rentocchini è un «mentre»(cfr. supra), ma dietro, perafferrare questo «mentre», c’è un lavoro formale di eleganza straordinaria, maituttavia barocca. La forma non diventa mai «concetto», «Argudeza», ilmetaforismo e le ricche risorse stilistiche del poeta mai trasgredisconol’istinto e il gusto di una misura, di una contenutezza in cui consiste appuntola sua squisita formalità.
Sembra facile a dirlo, ma viene dapensare a un bel paradosso di Pablo Picasso, il quale spesso ricordava di averimpiegato tutta la sua vita per imparare a disegnare «come i bambini», conquella naturalezza, con quella semplicità. Nemica di ogni spontaneismo, lapoesia di Rentocchini ha il carisma della semplicità, e siccome la semplicità(ma potremmo dire la Grazia)si sconta in qualche modo, le sue Ottave cisembrano, a guardarle con attenzione, come un edificio perfetto,dall’architettura sapiente, ma segnato da crepe e fenditure che loattraversano, ne minacciano l’equilibrio: colpa di quei «buchi» di cui ci diceil poeta nell’ ottava 3 di Segrè: «l’erba chersuda ingenua in tòtt i righ: intòtt i bus la vètta dmand un sigh» (l’erbacresciuta ingenua in tutte le fessure: in ogni buco la vita come un urlo») ? Diquesta semplicità raggiunta seguendo il percorso, la geometria folle di crepe efenditure, sono spia non pochi elementi stilistici, a partire dalle ricorrentiiterazioni (faresfarsi faresfarsifaresfarsi, Otevi, 9) e gliaccumuli (bimbo bimbo bimbettobambinello, Otevi 33) che intersecandosi con le iterazioni creano uncontinuum fonosillabico, un ritmo da carillon, un clima musicale in cui ilvortice apparente degli avvenimenti sembra pietrificarsi in monotonia musicale.In questo telaio di suoni che si incrociano e si elidono acquista rilevanteimportanza la frequenza delle allitterazioni: (Parole in fila fili Fino alla fine, Otevi 16), che più che un giocofonico fine a sé sembrano significare lo sforzo della lingua di legare le cosea un senso, a un terreno comune, per fronteggiare il «sapore di assenza» (Otevi, 15) il pericolo dell’astrazionedi cui è veicolo la logica di un io –raziocinante, cavalcantianamentesbigottito dal proprio «dritto sapere» (Otevi,14), a cui si contrappongono l’eternità e la pazienza delle cose, deglioggetti, della natura: «stendardi di preghiera» (si pensi ad un magistralesaggio di Giacomo De Benedetti sulla poesia di Mallarmè, in Poesia italiana del Novecento, Garzanti,Milano, 1993, pagg. 11 - 32), unica voce ancora viva, gli oggetti, capaci diesprimere sofferenza e tensione verso l’alto (si veda l’ottava 2: L’alba ai lenzuoli distesi graffiati dalvento, di Segrè).  Le peculiarità stilistiche fino a quievidenziate, applicate alla struttura circolare dell’ottava, sembrano postulareuna tensione metafisica che spinge verso l’alto il cerchio ripetitivo - come ilritmo delle stagioni spesso chiamate per nome dal poeta - dell’ordito metrico.Si può dire meglio, attingendo alla sapienza di Giovanni Giudici, che questapoesia di Rentocchini è paragonabile a «un lungo, bisbigliato soliloquio doveparole lillipuziane si affollano imprigionando nei loro fili e spilli unGulliver homo loquens, quasi lorozimbello» (cit.) . A tutto ciò si aggiunga il peso rilevante di un’altra figuraretorica, l’apostrofe, la più dantesca delle figure retoriche, capace diavocare nel cerchio magico della poesia, per dirla con Auerbach, lacomprensione e la compartecipazione emotiva del lettore. E’ il casodell’ottava: Luna d’inverno, buco in unnero di carta (Segrè, 34), ma anche di: Ciccio,io vorrei che qui, tra le solite linee (Otevi, 22), calco del famososonetto dantesco: Guido i’ vorrei……
A proposito di modelli letterari, sarebbesuperfluo citare per il lettore più avvertito i tanti calchi, prestiti,rifacimenti, modelli, a cui il colto Rentocchini attinge con libertà erispetto: da Dante e Cavalcanti appena citati, al Montale degli Ossi brevi, al Pascoli capace (come ciha insegnato Walter Binni, La Poetica del Decadentismo, Sansoni, Firenze, 1996, pagg. 95 - 115) di ingrandire lecose minuscole e di rimpiccolire ciò che è grande, senza dimenticare la suareligione dei morti (di cui ci offre una antologia di motivi l’ottava 3 di Segrè), al Saba dell’ «aere natio» e del« cantuccio a me fatto, alla mia vita/pensosa e schiva» (Trieste, in Canzoniere, Einaudi,Torino, 1961, pag79), la cui memoria poetica sembra accompagnare Rentocchininel suo solitario randonnèe per leaure e i paesaggi purgatoriali di Sassuolo. E infine, a fare da sostrato, datessuto a tutte queste suggestioni così originalmente elaborate da Rentocchinie consumate nella sua lingua poetica, quel sentimento lunare, un po’ folle,tipicamente emiliano (tanto che nel corso dei secoli lo hanno condiviso Tassonie Ariosto, il Fellini lettore di Tonino Guerra e di Cavazzoni, e Zavattini) dibucare il cielo, come fosse un fondale di cartone dietro al quale alita ilNulla (viene da pensare al Nulla leopardiano, ma più dolce, caprioleggiante,infantile) .
Un capitolo a parte meriterebbero i nomie i soprannomi che ritornano come preghiere familiari nelle poesie. I nomi diluoghi come Montegibbio, Capriana, il fiume Secchia, la Marazzi, o di persone,strambe e lunari come il barbiere - violinista Valcerchi che «ha fatto letame/ ma con un amore per ogni do venuto bene/ che credo abbia campato perqualcosa» (Segrè, 36) . I nomi sono soprattutto appigli concreti contro ilrischio di perdere il contatto con la semplicità così ardua ed evanescentedell’esistenza: dici un nome, e il mondo compare ancora integro nella suaprecaria bellezza: meglio ancora se lo reinventi storpiandolo come faceva ilnonno –che forse è stato per Rentocchini la prima vera incarnazione dellapoesia - si veda Segrè, 3:
   
Adelmo ch’al giva sèimper Munsòbbi
Per Munsèbbi, sirèli per tirànti,
Sèra la cerinèsca, sèinsa un dobbi
Ch’as gèssa saracinèsca; davanti
Al vèdr opàch dl’usdèl, so tòtt in gòbbi,
An psiva piò parlèr, l’era in mudànti
E dre a serchèr al sòul coi òc smaltè,
D’in dove na paròla giosta: istè.
 
Adelmo che diceva sempre Montegiubbio
Per Montegibbio, sirelle per bretelle,
Chiudi la cerinesca, senza un dubbio
Che si dicesse saracinesca; davanti
Al vetro opaco dell’ospedale, giù tuttoingobbito,
Non poteva più parlare, era in mutande
E cercava il sole con occhi smaltati,
Dai quali una parola giusta: estate.
  
Tornando adesso alla forma dell’ottava,l‘impressione è che questo metro lavorato da Rentocchini nella maniera e congli accorgimenti che abbiamo illustrato, sia solo apparentemente chiuso nelproprio esibito rigore formale, ma in realtà aperto a brividi e vertigini chemettono in discussione ogni equilibrio, non solo formale: è come se l’ars, la tecnica, all’acme del suovirtuosismo, subisse per contrappasso una metamorfosi che la trasforma nelcorpo ferito della poesia, e solo da queste piaghe, da questo dolore rappresoin forma di parole in rima nel dialetto materno, riacquistasse la propria voceautentica, la semplicità nativa, dolce e violenta, di chi dice tutto in ungrido.
Il dialetto sassolese in questo senso,come ha riconosciuto il poeta, è l’indispensabile «strumento di escavazione, ilpiù acuminato anzi»: dà i nomi alle cose, le ricrea, le fa rinascere, prima dilasciarle di nuovo vitali, nuovamente nutritive, ma sempre fragili eminacciate, sul precipizio di una ennesima rinascita, che ha la pronuncia di unitaliano «compromesso» dalla contiguità della pronuncia sassolese. E’ ildialetto - con il suo acuminato vocalismo tonico a cui fanno da cassa armonica,prolungandone la durata e modulandone il suono, le corone di aspriconsonantismi, le molteplici parole tronche che si allungano e accorciano comeil grido di richiamo di un uccello - ad imbattersi nella ventura di scoprire ilmondo, di prenderlo a tradimento nella sua consistenza, nella sua autenticafisicità di silenzio.
Il silenzio, per l’appunto, unicopossibile approdo della parola poetica. E torniamo un’ultima volta alla foto dicopertina, il cui linguaggio fisico, gestuale, la sua impressione di movimentorichiama invece la stasi. Il silenzio, ha scritto Rentocchini, somiglia alpensiero, condividendone la fragilità, la nudità, gli abbagli, spesso lasolitudine. Quell’impressione di stasi e di solitudine nel cui silenzio siconsuma il pensiero ha un corrispettivo coerente nelle pagine di Segrè, laddove anche gli esergopiuttosto che limitarsi ad una funzione di paratesto sembrano condividere lastessa necessità di attraversare un paesaggio - fisico e mentale - riguadagnatoscrivendo.
Tra tutti gli esergo che nel librocollaborano alla scrittura poetica ne scegliamo uno in particolare, una frase diMaria Callas: «La musica continui a pulsare anche attraverso le pause», che sistaglia in cima alla pagina riempita dall’ottava 15. Ci sembra particolarmentesignificativa, poiché ad essa segue il testo poetico nella sua «diglossiacostitutiva» (A. Bertoni, prefazione a Segrè,cit., pagg. 7 - 12) lingua -dialetto, ma tra il testo dialettale e la sua «variante» in lingua (ladefinizione, illuminante, è di Giudici, cit. ) c’è una bianca spaziatura chepiù di introdurre una pausazione, sembra assolvere a una funzione metricaimparentabile a quella che svolge nella strofe canonica di canzone la «diesi»,quel verso cioè che in assenza del supporto musicale, facendo ruotare la strofesu sé stessa, ne ottiene una modulazione che è il principio della concordia discors del componimento,della sua musica tutta rappresa nel contorcersi della parola, nel tornare suisuoi passi, nel farsi eco di sé.
Perché le due lingue - le due anime - diquesta poesia si chiudano perfettamente, e diventino l’una il ripensamento dell’altra,combaciando ed aderendo una sull’altra, è necessario questo alimentodiscordante offerto dal silenzio, dal bianco intervallo della spaziatura (quasiuna terza lingua, se vogliamo). E’ anche così che la parola, cogliendo atradimento il pensiero, sciogliendone il «dritto sapere» in una pietà che si famusica e paesaggio, senza perdere per questo consapevolezza, ma anziacquistandone una dimensione più pacata e famigliare, scivola quasiipnoticamente nel sogno, nel sonno, nel luogo dove ogni verità è contemporaneamenteintegra e nuda, come la lingua prossima e remota dei defunti, come quella dellapoesia:
   
   
Na sènn... al sènn…n’insènni… al sèggn ch’an sèmm
Srè so per sèimpr in al scutmài d’aièr
E che an gh’ègàbia ch’l’àbia un ùnich nèmm,
Ch’l’è d’aria undi cantòun, e col pensèr
Va bè striflè, vabè svanì, a gnèmm
Al lèberdescurdèrs di persunèr…
Fintant ch’alsèggn dl’insènni, al sènn, sta sènn
Ch’l’as dèsda aldè, l’an s’indurmèinta el pènn.
     
Una sonnolenza… il sonno… un sogno… ilsegno che non siamo
Racchiusi per sempre nel soprannome diieri
E che non c’è gabbia che abbia un uniconome,
Che è d’aria uno degli angoli, e colpensiero
Vabbè schiacciato, vabbè stordito,giungiamo
Al libero dimenticare dei prigionieri...
Fintantochè il segno del sogno, il sonno,questa sonnolenza
Che si ridesta al giorno, nonriaddormenta le nostre penne.
 (Otevi, 42)
  
E in questa zona di confine ci fermiamo.
    
Adriano Napoli, dicembre 2001. http://www.poiein.it/autori/R/rentocchini.htm
Eremo Rocca S.Stefano sabato 14 settembre2013






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