lunedì 10 ottobre 2011

SILLABARI : Apocalise .Chi ci salverà davvero dalla fine del mondo?

SILLABARI : Apocalise .Chi ci salverà davvero dalla fine del mondo?

Di Michela Nacci 15 Agosto 2008

L’essere umano è finito, delimitato da una scadenza che è possibile rinviare anche di molto, ma che rimane certa e inevitabile: si è soliti dire che sia l’unica certezza che possediamo. Forse è per questo motivo che hanno presso di noi tanta fortuna le prefigurazioni, le predizioni, le attese di una fine più ampia: la fine del mondo, la fine della della storia, la fine dei tempi.

Ian McEwan, scrittore britannico che amiamo soprattutto per le sue prime prove e che ha prodotto quel gioiello che è "Bambini nel tempo", in questo breve saggio riflette su un tema che in quanto autore di storie lo tocca molto da vicino: la fine delle storie. Ogni storia infatti ha una fine, oltre che un inizio. Così come l’inizio è difficile (ed è spesso proprio quello ad attrarre il lettore), così ogni storia si deve concludere, deve avere una fine adeguata al suo svolgimento: e la fine non è meno ardua dell’avvio. McEwan lega l’attrazione che sull’essere umano esercita la fine proprio con il fatto che egli è mortale: sapere che un organismo che sembra non dover avere un termine – come la Terra – non vivrà in modo indefinito ma anzi conoscerà una fine (lenta oppure veloce, preannunciata da mille segni oppure improvvisa) fa risuonare in lui una nota che conosce bene, che teme ma alla quale è assuefatto anche se non vuole portarla a consapevolezza. Forse è per questo che, nella storia, si sono dati molti annunci di fine: una delle più celebri e più vicine a noi è l’Apocalisse di Giovanni.

McEwan collega gli avvertimenti su un arresto drammatico nel corso delle cose anche a un altro elemento costante nel tempo e che accompagna l’umanità da quando abbiamo notizie su di essa: la religione. Sarebbe la fede in un Dio infinitamente superiore all’essere umano, con il corollario dell’intolleranza per la fede in divinità diverse da quello, a spingere a vaticinare, immaginare, presentire una fine dei tempi. Non è chiarissimo il perché: si suggerisce nel testo che sia per una purificazione del mondo desiderata con intensità. Ma la religione non invita a purificare il mondo a partire dalla purificazione di se stessi? E poi, il millenarismo è tipico anche di sistemi di credenze che non coincidono con la religione: l’hitlerismo era millenaristico, credeva non solo in un obiettivo finale della storia, ma anche nel necessario sterminio di chi si frapponeva al raggiungimento di quel traguardo. Anche il marxismo era millenaristico: anche in questo caso il socialismo rappresenta una fine della storia e chiama a una lotta anche violenta contro i nemici (in questo caso di classe). La politica ha talvolta assunto su di sé le caratteristiche della fede fanatica e della intolleranza.

Ci chiediamo però se l’atteggiamento apocalittico debba essere considerato come il corredo necessario di ogni credenza religiosa: McEwan ha infatti buon gioco nel mostrare che quanto più le credenze sono staccate dalle religioni classiche e fanno parte di quel fenomeno che è stato denominato New Age, tanto più crescono l’attesa del compimento e della fine, di una salvezza non singola ma universale che è raggiungibile solo attraverso una catastrofe.


Del resto, solo una parte del cristianesimo è segnata dalla profezia e dall’attesa dell’apocalisse, anche se la fine della storia terrestre e l’inizio della storia celeste resta un orizzonte sempre presente. Ci piacerebbe capire meglio quanto l’atteggiamento apocalittico sia legato con la fede in quanto tale: non è possibile pensare la fine del mondo, della storia, di tutto il genere umano, delle specie viventi, o dei tempi, anche a partire da sistemi di pensiero laici? In fondo, le sette a cui fa riferimento McEwan, che compiono suicidi in massa perché pensano di trovarsi nel momento esatto di una catastrofe annunciata, spesso credono in una divinità sincretistica e molto vaga, e non in un Dio unico ben definito. E l’atteggiamento apocalittico più caratteristico della nostra epoca non è forse (vedi recensioni delle settimane precedenti) quello che dice: il mondo finirà per una catastrofe ecologica, per la sovrapopolazione, per carenza di risorse, per una guerra distruttiva, per il nucleare che sfugge di mano a qualcuno, perché la specie umana non ha saputo conservare il suo bene più prezioso, cioè il suo habitat naturale?

Ci sembra questa l’immagine della fine più presente oggi: l’idea che finiremo sommersi dai nostri rifiuti, dalle città sempre più informi, dai gas di scarico, dai consumi, dagli oggetti, dalla nostra noncuranza e avidità, a seconda dei sistemi di preferenze dei vari profeti di sventura. E’ presente, in queste credenze sull’apocalisse che ci aspetta, un giudizio estremamente negativo su due elementi: l’umanità, i suoi capi, il suo modo di comportarsi, e il presente, il modo in cui oggi l’umanità si organizza, vive, compie scelte. Bisogna sottolineare che tali credenze sono una costante nella storia: si presentanto e si ripresentano a distanza di tempo, variabili negli argomenti specifici ma identiche nella forma. Ad esempio, gli anni fra le due guerre mondiali furono un’epoca – a partire dal Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler (1918-1922) – di grande presenza del tema della fine della civiltà, anche in quel caso in modo indipendente dalla religione professata dai vari autori che parlavano di fine.

Forse abbiamo bisogno, in alcuni momenti, di immaginare un evento che ci riporti bruscamente alla precarietà, alla limitatezza delle nostre vite, che ci scuota dall’abitudine e ci faccia riflettere sul futuro delle complesse società a cui abbiamo dato luogo, di quel castello di carte che si chiama civiltà. Come se con il sottolinearne l’aleatoriatà fossimo chiamati a guardare le cose con occhi nuovi, a prenderci cura di noi stessi e del nostro mondo. Come se immaginare un (il) pericolo estremo avesse il potere di portarci o riportarci alla saggezza. Per questo l’atteggiamento apocalittico ci appare da leggere prevalentemente in relazione alle ideologie, alle politiche, al giudizio sul presente, al senso della storia, al rapporto fra presente o passato. Preferiamo considerare gli atteggiamenti apocalittici come un segno piuttosto che come una fede: il segno di quello che gli uomini di una certa epoca pensano, giudicano, temono, sperano, in relazione alla civiltà (o non-civiltà) nella quale credono di vivere.

Ian McEwan, Blues della fine del mondo, Torino, Einaudi, 2008, pp. 49, euro 9.

http://www.loccidentale.it/articolo/qualcuno+ci+salver%C3%A0+dalla+fine+del+mondo%3F.0056232

Eremo Via vado di sole ,L'Aquila, lunedì 10 ottobre 2011

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