venerdì 27 gennaio 2012

27 gennaio, Giorno della Memoria

27 gennaio, Giorno della Memoria


"Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario", Primo Levi.
Nel dare alle stampe, nel 1987, il suo libro Les assassins de la mémoire,(1) lo storico francese Pierre Vidal-Naquet osservava nella Prefazione: “Questo libretto è nato da una constatazione: da circa due anni l’impresa ‘revisionista’ (2) - intendo quella che nega le camere a gas hitleriane e lo sterminio dei malati di mente, degli ebrei e degli zingari, e di appartenenti a popoli considerati radicalmente inferiori, in particolare gli slavi - ha assunto un’ampiezza inquietante. Una setta, minuscola ma tenace, consacra tutti i suoi sforzi e usa ogni mezzo (volantini, storielle, fumetti, studi sedicenti scientifici e critici, riviste specializzate) al fine di distruggere, non la verità, che è indistruttibile, ma la presa di coscienza della verità”.
Duole riconoscere che, nonostante i progressi registrati sulla conoscenza della Shoah - divenuti particolarmente significativi, per quantità e qualità, soprattutto negli ultimi cinque lustri -, la mala pianta del “revisionismo” di tipo “negazionista” non solo non è stata estirpata dal contesto internazionale, ma continua a vivere periodicamente di tanto inattese quanto effimere fioriture. La riprova, ultima in ordine di tempo, la si è avuta di recente da noi, (3) allorché non è mancato chi ha pensato di riproporre le tesi ormai stantie del saggista Robert Faurisson,(4) che però questa volta hanno avuto una significativa ricaduta: quella di spostare decisamente il dibattito, come mai era accaduto prima, dal piano storico e culturale a quello giuridico e legalitario. Ne è testimonianza la richiesta avanzata da esponenti del mondo della politica e della cultura, i quali, in modo trasversale agli schieramenti di appartenenza, hanno richiesto che, anche in Italia, sulla scorta di quanto già avviene in altri Paesi europei (Germania, Austria, Francia), i “negazionisti” siano perseguiti per legge.
La questione è indubbiamente spinosa: infatti, se preoccupante è la pervicacia con la quale i “negazionisti” persistono nel fuorviare le nuove generazioni da quella “presa di coscienza” cui accennava Vidal-Naquel, esiziale è il quadro di riferimento entro il quale tale opera di intorbidamento delle coscienze oggi si inserisce. L’azione dei “negazionisti”, infatti, mentre da una parte si svolge in un mondo scosso da pulsioni xenofobe e razzistiche - che, intrecciandosi con gli effetti prodotti dall’attuale crisi economica e sociale, hanno creato in varie zone del mondo una miscela esplosiva di straordinaria pericolosità -, dall’altra si inquadra in quell’uso allargato della più moderna tecnologia (si veda ad esempio il web), che consente alle idee “negazioniste”, rimaste fino ad oggi appannaggio di una minuscola irrilevante “setta”, di raggiungere ed influenzare un pubblico sempre più vasto.
Di qui la necessità che la vigilanza democratica sia oggi concentrata, in particolare, su quelle dinamiche riguardanti l’“uso pubblico” della storia, sui cui pericoli, circa un ventennio fa, ci aveva messo in guardia Jacques Le Goff, per il quale “impadronirsi della memoria e dell’oblio è una delle massime preoccupazioni delle classi, dei gruppi, degli individui che hanno dominato e dominano le società storiche. Gli oblii, i silenzi della storia, sono rivelatori di questi meccanismi della memoria collettiva”. (5)

E tuttavia, per quanto necessitati a tener conto sia degli effetti perniciosi prodotti dagli “oblii” e dai “silenzi” della storia, sia - come abbiamo detto - dalle ricorrenti manipolazioni e/o dal pervicace stravolgimento della verità -, rimaniamo dell’avviso che il problema del “negazionismo” debba essere in primo luogo affrontato e risolto, più che in sede giudiziaria, in sede di confronto culturale, sulla scorta di proposte nuove e sempre più incisive. Su questo punto conveniamo, ad esempio, con quanto di recente ha avuto modo di asserire Marcello Flores, che, a margine della recente polemica sollevata - come si è detto - dal “negazionismo” nostrano, in una lettera inviata a “la Repubblica” ha osservato: “Risolvere un problema culturale e sociale certamente rilevante con la pratica giudiziaria e la minaccia di reclusione non può che favorire la passività nell’individuare risposte culturali e sociali efficaci”. (6)
Se dunque ci si riconosce nella tesi secondo la quale il pericolo con il quale ci si deve oggi confrontare è innanzitutto rappresentato dalla “passività” - indefettibile generatrice di inerzia spirituale e di abitudini più o meno conformistiche -, allora non si può non riconoscere che il modo migliore per dare “senso” alla memoria - a cominciare dal giorno della sua celebrazione ufficiale, il 27 gennaio di ogni anno - sia quello, ad esempio, di tornare a riflettere con rinnovata lena sul tema cruciale della Shoah, attenti soprattutto ad evitare i rischi connessi al solo ritualismo, anticamera prima o poi di una prevedibile rimozione.


Ridare impulso alla ricerca storica

Tornare però a riflettere in forme sempre rinnovate sulla Shoah vuol dire anche, al tempo stesso, essere disposti a rimettere in discussione gli esiti stessi di talune ricerche, memori di quanto Vidal-Naquet ci ricordava, allorché, nella Prefazione alla sua già citata opera, così aveva osservato: “il modo di selezione della storia funziona diversamente dal modo di selezione della memoria e dell’oblio”.
Ebbene, dal momento che storia e memoria sono state sempre in conflitto tra di loro, oggi ci sembra che la priorità sia costituita proprio da una loro possibile ricomposizione. E questo, per l’incalzare di almeno per tre ordini di motivi.
Il primo, la necessità, di colmare il vuoto che si va creando a seguito della scomparsa dei testimoni. (7) Tale circostanza, inevitabile, sta infatti condizionando le nuove generazioni, le quali, non potendo più beneficiare del racconto orale, sono costrette ad avvicinarsi all’esperienza della Shoah in maniera sempre più irrelata. La stessa ritualità, cui nel futuro prossimo sarà affidato il compito di tutelare e rinnovare presso di loro il ricordo, sarà inevita- bilmente soggetta a quell’azione corrosiva del tempo, i cui esiti devastanti, come suggerisce l’esperienza, lasciano ben pochi margini alla speranza.
Il secondo motivo investe il bisogno di conservare i documenti in nostro possesso e di tutelarli attraverso la ricerca di supporti materiali durevoli, adatti insomma a fissare e trasmettere, sui tempi lunghi, i contenuti relativi a quella come ad altre memorie. L’esorbitante mole di materiali di cui oggi disponiamo ci pone di fronte a un duplice problema: da una parte quello della catalogazione, dall’altra quello della conservazione. Un grido d’allarme sull’usura di tali materiali è stato lanciato da Tullio Gregory, il quale, per denunciare la pericolosità di un processo ormai in pieno corso, ha osservato: “Uno dei tanti paradossi che sottendono le nostre società, e del quale ci si rende ogni giorno più consapevoli, è costituito dalla compresenza di due dinamiche in opposta tensione: da un lato lo smisurato aumento di documenti prodotti dalle strutture culturali, economiche, industriali, istituzionali, dall’altro il rapido processo di decomposizione e di perdita dei documenti stessi. Forse il simbolo più appropriato di questo paradosso è rappresentato dai fax: mezzo di comunicazione che in questi ultimi anni ha avuto una diffusione rapidissima, capillare, spesso domestica, il fax diviene rapidamente illeggibile per la natura volatile dell’impressione”.(8)
Il terzo motivo infine interessa gli aspetti più direttamente connessi alla “pedagogia”, o alle “pedagogie”, della Shoah, dal momento che - come ha bene evidenziato Georges Bensoussan nella Premessa al suo libro L’eredità di Auschwitz - “la logorrea non esclude l’amnesia, esattamente come la commemorazione può divenire, un giorno, parola morta”. (9) Meno convincente, semmai, date le premesse, è la conclusione cui lo studioso francese perviene, allorché, allontanata da sé ogni remora di ordine metodologico, alla fine del suo ragionamento sostiene senza più tentennamenti: “La memoria è selettiva, per questo favorisce l’abbaglio. La Storia è più prosaica e disincantata. Il cammino che conduce dalla memoria alla storia rispecchia il processo di secolarizzazione proprio della modernità politica. Perciò, la nostra arma non è la memoria, che costruisce, demolisce, dimentica o edulcora, ma la sola Storia”.


L’annosa questione: storia/memoria

La questione è a tal punto controversa, che una studiosa come Aleida Assmann ha al contrario sostenuto: “Il passato, dal quale col passare del tempo ci allontaniamo sempre più, non è appannaggio solo degli storici di professione ma esercita anche un’influenza sul presente in forma di diritti e doveri contrapposti: oltre alle sintesi totalizzanti della storia al singolare esistono oggi memorie diverse, in parte tra loro contraddittorie, che rivendicano il loro diritto al riconoscimento sociale”.(10)
Come si vede, dei punti sopra indicati, è soprattutto l’ultimo a risultare il più urgente. Esso richiede un intervento che ci aiuti, almeno nel medio periodo, a superare i limiti impliciti tanto nella memoria quanto nella storia, verificando le possibilità operative connesse ad un loro possibile superamento. Allo stato degli atti, infatti, non si può certo disconoscere il valore centrale della storia, la quale, fondandosi sulla oggettivazione dei fatti e mutuando la sua struttura di pensiero dal logos greco, dà luogo ad una narrazione che, concepita nel senso della matematica e dell’organizzazione, è fatta più per esaltare la veridicità del “documento” che per coinvolgere con il pathos del suo messaggio. D’altra parte non si può certo sottovalutare l’importanza della memoria, la quale, fondandosi su ragioni private, di natura tanto soggettiva quanto collettiva, tende però ad assumere i toni inevitabilmente poetizzanti ed affabulatori del “mito” (dal greco muthos=racconto).
Superare l’impasse significa risolvere le conseguenze che ne derivano. La prima riguarda la questione della forma: mentre la prosa con la quale si esprime la storia non può che essere asettica, disincarnata, a bassa densità di coinvolgimento, quella con la quale si esprime la memoria, al contrario, non può che essere personale, fortemente partecipe, in sommo grado coinvolgente.
La seconda questione investe il contenuto: mentre la storia ricorre alle categorie di spazio e di tempo per ribadire l’irreversibilità dei fatti (un fatto accaduto, proprio in quanto “accaduto”, non può accadere di nuovo), la memoria ha la sua ragion d’essere proprio nella reversibilità, l’unica in grado di consentirle di assurgere alla dimensione della ubiquità, nel senso di essere spazialmente universale, temporalmente illimitata, esistenzialisticamente valida per ogni luogo e per ogni tempo.
Chi del resto si era espresso per un superamento del tradizionale contrasto tra storia e memoria, dichiarandosi per la loro complementarità, è stato Tzvetan Todorov, il quale in Noi e l’altro, dopo aver attentamente disaminato l’intera questione, concludeva: “Se vogliamo conoscere dall’interno le esperienze di soggetti di ideologie opposte, faremo bene ad ascoltare il racconto del miliziano e quello del partigiano. Se vogliamo conoscere il valore di queste posizioni, le conseguenze pratiche di entrambe, il rapporto tra parole e fatti, faremo meglio a rivolgerci ai lavori degli storici. Se vogliamo conoscere il destino dei deportati di Kolyma, non abbiamo che da scegliere tra l’analisi storica di Conquest e la testimonianza di Evguénia Guinzbourg, non più che se noi scegliamo tra Raul Hilberg e Primo Levi: verità di adeguatezza e verità di rivelazione si completano”.(11)
Questa posizione, oltre ad essere in massimo grado equilibrata, ha anche il pregio di fornire una risposta a taluni “inquietanti paradossi”, emblematici del nostro tempo, che Bensoussan aveva indicato nella sua già citata opera con le seguenti allarmate parole: “dal 1945, l’insegnamento della Shoah e dei crimini nazisti non è mai stato fatto tanto bene quanto oggi. E mai, come oggi, la banalizzazione della xenofobia, del razzismo e dell’antisemitismo ha fatto tanti progressi. Mai, nelle scuole, si è parlato tanto bene del delirio nazista. Mai un’estrema destra che sostiene tranquillamente l’ineguaglianza delle razze umane ha raccolto così tanti voti. Inoltre, mai come ora, si mette in guardia contro il veleno intellettuale e spirituale rappresentato dall’antisemitismo”.
Se dunque oggi la malattia è quella denunciata da Bensoussan, posizione sulla quale non si può che convenire, il rimedio non può  certo essere quello di recente proposto da Cynthia Ozick. La scrittrice ebrea-americana, estremamente polemica per le posizioni critiche assunte dall’Europa nei confronti delle “politiche” di Israele negli ultimi decenni,(12) ha addirittura proposto - crediamo in modo provocatorio - di abolire tout court il “Giorno della Memoria”.
A nostro modo di vedere, proprio in quanto consapevoli che i pericoli in precedenza denunciati potrebbero aver ormai raggiunto, se non addirittura superato, il livello di guardia, oggi si tratta non già abolire, ma semmai di incentivare le pratiche della memoria della Shoah, la cui funzione primaria, come aveva già osservato Primo Levi in Se questo è un uomo, dovrebbe essere quella di consentire una costante verifica “di alcuni aspetti dell’animo umano”, seppure i più degradati e perversi. Solo in tal modo sarà davvero possibile procedere a quella integrazione tra storia e memoria che, auspicata da Todorov, potrebbe essere in grado di corrispondere alla doppia esigenza da una parte di sottrarre il genocidio ai rischi dell’occasionalità e della contingenza, dall’altra di difenderlo dai veleni di quel distorto “uso pubblico” della storia, di cui la mala pianta del “negazionismo” costituisce l’esempio più eclatante.

Nuovi filoni

Della necessità di una direzione nuova, che abbia come orizzonte quello di rendere veramente complementari “verità di adeguatezza” e “verità di rivelazione”, sembrano essere consapevoli taluni storci e letterati, di cui vale la pena di riferire.
Tra gli storici, ad esempio, si è di recente segnalato lo studioso israeliano Daniel Blatman il quale - collocandosi per certi versi sulla scia già tracciata dalla discussa opera di Daniel Goldhagen (13)  - ha aperto, con il suo libro Le marce della morte. L’olocausto dimenticato dell’ultimo esodo dai lager, un importante campo di ricerca, foriero di sicuri ulteriori sviluppi. (14) L’opera, davvero pionieristica, sembra foriera di ulteriori positivi sviluppi, dal momento che oggi stanno diventando accessibili agli studiosi gli archivi dei paesi ex comunisti dell’Europa orientale. Tale apertura potrà essere d’ausilio a quanti, come indicato da Marina Catturuzza, vorranno, e potranno, finalmente “porre in termini molto più concreti la problematica del ‘luogo’ in cui l’Olocausto fu perpetrato” e il “luogo” “da cui proveniva la maggior parte delle vittime”.(15)
Nel campo delle lettere, si sono affermati scrittori che, fino a qualche anno fa ancora sconosciuti, sono oggi noti in quanto già “testimoni” di seconda o addirittura di terza generazione. Essi, nelle loro opere, hanno dimostrato come non sia impossibile tener conto tanto dell’“oggettiva” ricerca del vero, quanto delle ragioni del cuore, soprattutto quando in gioco è la riscoperta di una identità. I nomi che ci vengono da fare - se prescindiamo dalla ricchissima produzione artistica israeliana oggi esistente sulla Shoah, considerata come capitolo a sé e in particolare rappresentata, tra gli altri, da Yoram Kaniuk, David Grossman, Aharon Appelfeld - sono quelli, d’area anglo-americana, di Jonathan Safran Foer, Daniel Mendelsohn e Theo Richmond. (16)
Del resto, l’esigenza di tener in equilibrio la memoria familiare con la cronaca storica, e questa con la creazione letteraria, non è certamente nuova. Essa era già implicita nella scelta dei primi scrittori della Shoah, soprattutto da quelli i quali avevano inteso di assurgere al ruolo del “testimoni” in virtù della scrittura. Su questo punto, particolarmente preziose risuonano ancor oggi le parole del “salvato” Primo Levi, il quale, nella Prefazione all’antologia La vita offesa, aveva scritto: “Per il reduce, raccontare è impresa importante e complessa. è percepita ad un tempo come un obbligo morale e civile, come un bisogno primario, liberatorio, e come una promozione sociale: chi ha vissuto il Lager si sente depositario di un’esperienza fondamentale, inserito nella storia del mondo, testimone per diritto e per dovere, frustrato se la sua testimonianza non è sollecitata e recepita, remunerato se lo è”. (17)
Il tentativo di una unità di intenti tra storici e scrittori potrebbe cristallizzarsi proprio intorno al tema cruciale della “remunerazione”, dal momento che l’enorme debito che l’umanità ha contratto nei confronti dei “sommersi” attende ancora di essere onorato. Di più: se non vogliamo che la Shoah abbia a ripetersi, dobbiamo essere in grado di affinare ulteriormente i nostri strumenti di analisi per perseguire sul serio quello che dovrebbe essere un obiettivo comune: offrire validi strumenti teorici alle generazioni future, perché possano essere in grado di salvaguardare questa ed altre analoghe memorie storiche. L’augurio è insomma quello di far sì, come avviene nella staffetta, che il passaggio del “testimone” - non conoscendo soluzione di continuità - possa foscolianamente non avere mai fine, durando “finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane”. (18)
Ove poi l’espressione dovesse apparire ridondante, ci permettiamo di osservare che ad esigere una misura tanto vasta di tempo è la natura stessa della Shoah. Non è forse vero che ogni misura di tempo che dovesse risultare inferiore alla dimensione dell’eternità finirebbe inevitabilmente per non essere commisurata alla grandiosità spaventosa di quella tragedia, ormai entrata a far parte, in modo irrevocabile, della nostra storia?
Dunque, non abbiamo scelta: tanto profonda e oltraggiosa è stata l’offesa di cui l’uomo si è reso responsabile nei confronti dell’uomo!


Note
1 P.  Vidal-Naquet, Les assassins de la mémoire, Éditions La Découverte, Paris 1987. In italiano, Gli assassini della memoria, Editori Riuniti, Roma 1992.
2 I cinque testi che compongono il citato libro di Vidal-Naquet sono stati scritti, come viene indicato dallo stesso autore nella Prefazione, “fra il giugno 1980 e il giugno 1987”.
3 Alludiamo alle recenti reazioni suscitate dalla lezione, tenuta il 25 settembre sul tema della Shoah, dal  prof. Claudio Moffa, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Teramo.
4 La questione è stata a suo tempo oggetto di studio specifico da parte di V. Pisanty, in L’irritante questione delle camere  a gas. Logica del negazionismo, Bompiani, Milano 1998.
5 J. Le Goff, Memoria, in Enciclopedia, Einaudi, Torino 1979.
6 Si veda la lettera inviata da M. Flores a “la Repubblica” del 26 ottobre 2010, nella rubrica di “Lettere, commenti & idee”, diretta da Corrado Augias.
7 Su questo aspetto si veda il libro di D. Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, Einaudi, Torino 2009.
8 U. Gregory, Introduzione a AA.VV., L’eclisse delle memorie, a cura di T. Gregory e M. Morelli, Laterza, Bari 1994.
9 G. Bensoussan, L’eredità di Auschwitz, Einaudi, Torino 2002.
10 A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, il Mulino, Bologna 2002.
11 T.  Todorov, Noi e l’altro. Scritti e interviste, Datanews, Roma 2007.
12 Questa posizione, in verità già espressa un anno fa, è stata di recente ribadita dalla scrittrice ebrea-americana Cynthia Ozick nell’intervista concessa a Susanna Nirenstein e comparsa su “la Repubblica” il 4 dicembre 2010.
13 D. J. Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, Mondadori, Milano 1996.
14 D. Blatman, Le marce della morte. L’olocausto dimenticato dell’ultimo esodo dai lager, Rizzoli, Milano 2009.
15 Si veda M. Cattaruzza, La storiografia della Shoah, in AA.VV., Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, vol. II, Utet, Torino 2006.
16 Ci limitiamo a citare tre sole opere, tra le più recenti, degli autori sopra indicati: J. Safran Foer, Ogni cosa è illuminata, Guanda, Parma 2002; D. Mendelshon, Gli scomparsi, Neri Pozza, Vicenza 2007; T. Richmond, Konin, Instar libri, Torino 1998.
17 P. Levi, Prefazione a La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti, a cura di A. Bravo e D. Jalla, Angeli, Milano 1986.
18 U. Foscolo, I Sepolcri, vv. 294-295.


Fonte:  Articolo 33 n. 1-2/2011 http://www.edizioniconoscenza.it
Eremo Via vado di sole, L'Aquila, venerdì 27 gennaio 2012

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