mercoledì 25 gennaio 2012

STORIE E VOCI DAL SILENZIO : Onora la madre

STORIE E VOCI DAL SILENZIO   :   Onora la madre

"Onora la madre" (con: Preziosa Salatino/ regia: Emilio Ajovalasit)  è una nuova produzione che affronta il rapporto fra donne e mafia.
 della a associazione Teatro Atlante di Palermo che, oltre alla ricerca teatrale e alla produzione di spettacoli, conduce da diversi anni laboratori teatrali per bambini e ragazzi nel quartiere Ballarò-Albergheria, uno dei più " a rischio" della città.
Ogni anno questo laboratorio si conclude con una parata-spettacolo che attraversa i vicoli del quartiere. Nel corso della conferenza verrà mostrata e commentata una documentazione video-fotografica di queste attività .
La storia narrata è quella di Annina, donna del Sud, una donna come tante, una storia come altre che ci mostra il dramma comune a tante donne meridionali: infanzie austere prive di carezze, matrimoni combinati, maternità precoci, vedovanze e lutti da ostentare, sottomissione ai propri mariti, spirito di abnegazione nei confronti della famiglia, rapporto difficile con i figli maschi e infine un sofferto e opprimente "senso dell'onore".

Leonarda Crisetti  nel suo libro “La condizione femminile nella società contadina      racconta la storia di una donna di Cagnano , Giovanna .

La questione femminile credo possa sintetizzarsi nell’insieme delle sofferenze della donna, dei problemi connessi allo sfruttamento, all’oppressione, all’emarginazione, alla sopraffazione culturale, alla mancanza di potere, al rischio di essere violentata. Una questione da sempre esistita, anche se solo di recente la società ne ha preso coscienza, dato che in passato sembrava naturale che la donna, ritenuta inferiore, dovesse sottostare all’uomo.
Entrando nel merito della questione femminile, qualcuno potrebbe pensare, che non ci sa più nulla da dire, dato che le donne hanno avuto la parità, mentre è vero, invece, che se da un lato è innegabile che la condizione della donna sia migliorata sotto il profilo sociale, culturale, economico e politico, dall’altro rimane ancora molto da fare, dato che non basta qualche legge per cambiare la realtà e soprattutto una mentalità ormai radicata nelle coscienze.
Ad ogni modo, per prendere atto dei cambiamenti, ho pensato di ripescare qualche dato significativo dalle storie di vita delle donne contadine, che ho avuto il piacere di raccogliere con gli studenti del liceo di Cagnano: 33 microstorie recuperate, andando a casa di queste nonne insieme ai giovani, perché concorressero ad imprimere un senso e una direzione alla vita dei nostri adolescenti, i quali non hanno sufficiente consapevolezza di com’eravamo.
La tradizione ci ha consegnato una visione dicotomica della donna: da una parte quella della donna angelo, che eleva l’uomo a Dio, dall’altra quella della donna tentatrice, che induce l’uomo al peccato. A questa visione non sono estranei i Padri della Chiesa, che raccomandavano alle madri di incutere nelle figlie la vergogna per la propria nudità, sollecitandole a coprirsi e a vestire abiti castigati. La tradizione ci ha consegnato la visione della donna soggetta prima al padre, poi al marito padrone. Questa donna, figlia, madre, moglie, contadina e bracciante, pastore, raccoglitrice, pescatore, lavorando accanto al marito o a padrone svolge un lavoro spesso non retribuito o mal pagato, quindi non riconosciuto, relegandola nel ruolo di subordinata. La sua condizione era inferiore, anche quando veniva corteggiata: è lui che doveva prendere l’iniziativa, che poteva scegliere, prendere e lasciare.

La condizione femminile è oggi mutata e per rendercene conto, vale la pena dare la parola alle protagoniste della società contadina, le nonne di oggi, giovani di allora. Tra le storie di vita contadina raccolte, ne ho scelto perciò una, quella di GIOVANNA, di cui mi piacerebbe parteciparvi alcuni passaggi. Vorrei aggiungere che nel trascrive il vissuto di queste donne, abbiamo intenzionalmente conservato la loro espressione, senza preoccuparci di correggerla molto sul profilo sintattico e lessicale, al fine di rappresentare uno specchio fedele della realtà contadina.
Mi chiamo Giovanna - dice la signora - sono nata il 4 maggio 1920 a Cagnano Varano, alla via de li Puzze. La chiamavano così perché c’erano i pozzi e là le persone andavano a prendere l’acqua. Io andavo pe lu varrìle, a ll’a ppède , scendevo dal Casale fino più sotto, vicino al vecchio cimitero di San Francesco. Lo portavamo in testa con la spàra , che facevamo con uno straccio, una maglietta, quello che capitava.
Era faticoso andare a prendere l’acqua, ma tutta la vita era faticosa, piena di sacrifici. Si cominciava dalla mattina presto, quando andavamo alla Sciumàra a jettà lu candere. Un’altra grande fatìja era quella del bucato, ci volevamo diversi giorni per andare a prendere l’acqua, per l’ammollo, lavare, passare, sciacquare, andare a stendere i panni.  … li mettevamo nda li cruèdde ] e li andavamo a stendere fuori Cagnano. Molti panni li stiravamo con le mani, altri con il ferro a carbone, ma bisognava prima accendere il fuoco.
Di quando ero bambina mi ricordo tanta sofferenza, … . Io avevo appena sei anni e la mamma mia faceva la colona cioè sumendàva la tèrra. Noi avevamo le terre d’affitto e la mamma mi portava a zappare, seminare, mondare e raccogliere fave, persino a mietere grano. La mattina, appena usciva il sole, scioglievamo li manòcchie e li mettevamo tutti sparsi intorno come una rosa. Io avevo otto anni e mio fratello mi diceva: “Giovà prendi le redini” e così facevo girare i muli tutti intorno e pesavàme lu grane. Mio fratello mi aveva fatto un piccolo scurijàte e lo usavo per far girare le bestie.

All’età di dodici-tredici anni sono andata a lavorare alle olive da Don Michele Polignone. A lui interessava solo che lavoravamo, senza parlare, sennò ci toglieva il lavoro. È come quando un marito sfèssa la megghièra: Palàte e bbòtte à sta sòtta , e visto che avevo bisogno di lavorare, dovevo stare zitta e quieta, altrimenti non mi faceva andare più.
Alle donne dava tre lire a tomolo e ai maschi li pagava di più. Alle olive però eravamo quasi tutte donne e c’era il garzone che ci controllava. Iniziavamo a lavorare alle sette e finivamo alla sera. Il tempo per trasportare le olive, era “per dentro”. Era il padrone che comandava. I pezzi grossi ce magnàvene lu sànghe de lli puverètte ].
A quattro-cinque anni stavo appresso a mamma, in campagna, perciò non ho avuto il tempo per giocare. Ai miei tempi le femminucce giocavano con la pupa de pèzza e a lli cummare, i maschi con il fucile e il cavalluccio.
I maschi se ne andavano per conto loro e noi non potevamo andare appresso perché i maschi sono cattivi: l’òmmene vìva te ngòcene e mmòrta te tègnene . Prima era più importante l’òmmene, la mamma faceva scuola al figlio e gli diceva: Ne nde facènne cummannà! . Ora le cose sono cambiate.
Al tempo di prima se un giovane s’interessava a me, mandava a casa mia la ruffiiàna, a chiedermi se mi volevo fidanzare con lui. Se il giovane m’interessava dicevo di sì e in questo caso t’avìva accredendà e per fare questo dovevano venire a casa tua sua madre e suo padre. Ti portavano l’ammasciàta.

Noi eravamo 12 figli - per quello che mi ha detto mia madre - tanti sono morti e siamo rimasti in quattro: un maschio e tre femmine. Pàtrema stèva a ppatròne da do nGgustìne. Lavorava e riceveva in cambio ogni mese un tomolo di grano, 20 lire, mezzo litro d’olio e quattro linee di macinatura. Questo padrone, a volte non voleva pagare, sbatteva il portone e se ne andava, così papà mio andava più volte a casa sua a chiedere la paga. Diceva che aveva lavorato e i soldi gli servivano perché aveva una famiglia da portare avanti.
Quando mio padre è morto, io lavoravo da dom Mechelìne Polignòne e sono andata a chiedergli i soldi che mi spettavano, perché dovevo fare il funerale a mio padre. Lui mi ha cacciata di casa, ma io ho detto che non mi poteva cacciare, perché dovevo seppellire mio padre, così mi ha dato nu pàre de sòlete. Con i soldi ho pagato le campane (che hanno suonato), la cungrèja della chiesa (che costava 10 lire) e lu tavùte .
Mi sono sposata nel 1943, avevo 23 anni finiti. La dote si metteva esposta ma io non l’ho messa esposta perché avevo poche cose e quando si mettevano li rròbbe espòste ce stèva sèmbe chìja treddecàva! . Ho quattro figli e mi hanno dato tanti dispiaceri. Quando sono nati non ho scelto di stare incinta. Dio me li mandava e io me li prendevo. Li ho allevati con pazienza, mi sono tolta il pane dalla bocca mia per darlo a loro, ma questo carattere che hanno, non so se dipende da loro o dalla carne che [di cui] sono fatti. Comunque sia, sono diventati così da quando si sono sposati, perché fino a quando stavano a casa mia, si sono comportati correttamente.
Quando mi sono sposata, mio marito mi poteva tirare qualche schiaffo, io no, perciò comandava lui. Ricordo che ero incinta di mia figlia Palma, stavo a sette mesi. Mio fratello ci aveva invitato a pranzo a casa sua il giorno di Pasqua. Mia madre, che stava da sola siccome che era Pasqua e io ero l’ultima figlia, ha regalato 100 lire a mio marito. Io dicevo a mio marito ca ce l’avèva pònne, che li doveva spendere piano piano, perché era fumatore e aveva bisogno di comprare il tabacco. Lui invece li voleva spendere in cantina. Così una parola tira l’altra, mi ha spinta e mi ha buttata a terra.

Allora mio fratello ha detto: Queste scenate andate a farle a casa vostra, non qui!. Allora, mio marito mi porta a casa, prende a nostro figlio piccolo e lo mette sul letto, prende lu laghenatùre, na màzza lònga e me la ròmbe sòpe li spàdde . La sera vengono a casa mia suocera e mia zia, e dicono a mio marito: Fìgghje de mòstre, che l’'à fàtte a quèdda?! .
E lui ha detto che non mi aveva per niente toccata, poi mi ha guardata e ha detto: Che vvu l’àviti?. Insomma jìsse alluccàva a me e la mamma sua rimproverava a jìsse. Poi, ha preso la càrta senapàta, che si vende in farmacia e attira il dolore, l’ho sotto la lampada ad olio per farla riscaldare e poi dove mi faceva male. E mi ha fatto la schiena come una carta geografica.
Te l’avìva pigghjà e ccìtte!. Il giorno dopo ti vergognavi di uscire, ma a volte dovevi andare a lavorare lo stesso. Io allora non sono uscita di casa perché non potevo muovermi, ero incinta di sette mesi! Meno male che ero una donna che si faceva i fatti suoi, se andavo dal dottore e lo denunciavo, invece di stare zitta, potevo mandarlo in galera.
Quando mio marito mi ha picchiata, una signora voleva avvertire mia madre, ma io ho detto di non farlo, perché tutti sanno che tra marito e moglie guai a chi si mette in mezzo! E quando, il giorno dopo, mia madre è venuta a chiedere cosa era successo, io ho risposto che non era successo niente e che doveva farsi i fatti suoi. Se lo denunciavo e andava a finire in galera, come facevo io con tre bambini ancora piccoli? Perciò ho sopportato. Oggi si dice invece:- Camìscia ca nun vò stà pe mmè, stracciàmela!.
Ma non tutti i mariti erano uguali.| Chìja la ngàrra è nu guadàgne, / chìja la sgàrra jè nu sucùdagne!. Lu sucudàgne era una fascia di cuoio che i muli portavano addosso, attùrne a lla vàrda , e mentre camminavano strisciava tanto sulla loro pelle da fare perdere il pelo alla bestia e farla sudare.
È meglio conoscersi bene prima e non far parlare la gente dopo. Prima ce stèvene li fèmmene che ce pigghiàvene li mbìcce. Ce mettèvene dderète li pìzze e rerèvene!. Tra la gente, c’era chi ti diceva male e chi ridiceva bene. Si litigava tra marito e moglie, tra padri e figli, tra mamme e figli, tra le vicine. Quando i bambini giocavano in strada e litigavano, si mettevano in mezzo le mamme e litigavano pure loro, per difenderli. Si litigava anche perché certe fèmmene jèvene a jettà la munnèzzia   davanti alla casa di un’altra signora. Si dicevano parole pesanti e si tiravano anche i capelli.
Nel 1941 mi ricordo che a Cagnano c’è stato lo sciopero della fame, l’hanno fatto molte donne e parecchie sono state portate in galera, al carcere di Foggia. A llu tèmbe de Musulìne ogne ccàsa nu mulìne! . Ogni famiglia per non morire di fame si era procurata un macinino, proprio come quello del caffè, e passava la notte a macinare un po’ di grano, di nascosto, con la paura di essere scoperta. Qualche volta siamo andati anche a Carpino a macinare.
A casa di mio marito erano cinque figli: 4 donne e lui, unico maschio. Lui faceva il pescatore, ma non aveva mànghe lu sànere. Gliel’ho fatto io quando lavoravo e ho chiesto un prestito alla banca. Stavamo prima in casa d’affitto, poi, nel 1957, abbiamo fatto la casa nostra. Io allevavo maiali, li crescevo e li vendevo, così mettevo un po’ di soldi da parte per farmi la casa. Aiutavo anche mio marito a Ppandàne.
Quando facevamo le reti, io non ero brava e me l’abbusckàva. Io dicevo che non era giusto che mi picchiava per questo, perché lui sapeva fare l’arte del pescatore, io quello della contadina. Quando stavo con mia madre, avevamo una terra d’affitto, la piantavamo e facevamo ogni cosa. Io facevo già abbastanza: vuttàva lu sànare pe li rìme, da Bbàgne a cCapejàle  e facevo tante altre cose che lui non sapeva fare, ma quello era insaziabile! La donna doveva lavorare giorno e notte. Eh, già, la notte dovevi lavorare con lui! Ma io non volevo essere disturbata, perché ero stanca.
A scuola non sono andata, perché mia madre era nullatenente. Sono andata solo due mesi con donna Giannina Mendolicchio, poi voleva due lire per il libro, mamma non le aveva e non mi ha fatto andare più, e non ho imparato né a leggere, né a scrivere. Quando poi dovevo fare la causa per questa terra (siamo stati in causa dal 1975 al 1979), ho deciso di imparare a scrivere il mio nome. Ero già anziana, sono andata da Lu Cònde, e ho comprato un quaderno a quadretti, per imparare a mettere la firma. Avevo 70 anni.
La politica era una cosa da maschi. Io andavo a votare tanto per mettere una crocetta. La mia vita è stata, insomma, tutta una sofferenza, perfino per sposarmi, quando, per farmi il vestito, sono andata a carrijà prète  per cinque mesi.
 Eremo Via vado di sole, mercoledì 25 gennaio 2012

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