venerdì 6 aprile 2012

SEI APRILE "009 / 6 APRILE 2012

SEI APRILE 2009 / SEI APRILE 2012

Pensando al sei aprile di quell’anno ( perché ormai  l’anno del terremoto è “ quell’anno “ anche a ragione del fatto che è passato tanto tempo  che sembra essere passata una eternità. Tre  anni in verità, una frazione insignificante di tempo ma che assume nel conto del tempo di una vita un peso enorme. Tanto più se su questo tempo  pesa dolore, ansia,  alternarsi delle speranze, conseguenza di un sradicamento, perdita o assenza di rapporti  .)

Non va via la nostra
tristezza. Le case svegliate nel cuore
della notte sono ora un reliquario
di ossa e carne, di carne ed ossa
impastate, senza cuore.
Non sostituite il cuore di carne
della città con un cuore hi- tech,
è peccato  e fa piangere la carne
e le ossa impastate.
La mia città dorme
al primo sole di aprile
ma la notte fa ancora un po’ freddo .
Come il freddo di quell’altra notte
di voci concitate, di polvere
e di buio. Il buio raccolto
con il cucchiaio, scolato
in un rivolo di vita  ricercata, di vita
perduta.  E più non dorme
in petto una speranza.  Grida forte
ed è come il silenzio assordante
di una ricorrenza,di una memoria,
di un ricordo assolto dalla storia,
processato dagli uomini.



Devo però ricopiare una poesia di Pablo Neruda per  parlare di  questa ricorrenza .E’ la poesia alla città , a quella città che avevamo, che abbiamo ancora anche se mezzo dissestata , che i nostri figli e nipoti avranno di nuovo in tutta la sua composta e rinnovata bellezza.

Pablo Neruda: La città

E quando in Palazzo Vecchio, bello come un'agave di pietra,
salii i gradini consunti, attraversai le antiche stanze,
e uscì a ricevermi un operaio, capo della città, del vecchio fiume, delle case tagliate come in pietra di luna, io non me ne sorpresi: la maestà del popolo governava.

E guardai dietro la sua bocca i fili abbaglianti della tappezzeria, la pittura che da queste strade contorte venne a mostrare il fior della bellezza a tutte le strade del mondo.

La cascata infinita che il magro poeta di Firenze lasciò in perpetua caduta senza che possa morire, perchè di rosso fuoco e acqua verde son fatte le sue sillabe.

Tutto dietro la sua testa operaia io indovinai.

Però non era, dietro di lui, l'aureola del passato il suo splendore: era la semplicità del presente.

Come un uomo, dal telaio all'aratro, dalla fabbrica oscura, salì i gradini col suo popolo e nel Vecchio Palazzo, senza seta e senza spada, il popolo, lo stesso che attraversò con me il freddo delle cordigliere andine era lì.

D'un tratto, dietro la sua testa, vidi la neve, i grandi alberi che sull'altura si unirono e qui, di nuovo sulla terra, mi riceveva con un sorriso e mi dava la mano, la stessa che mi mostro il cammino laggiù lontano nelle ferruginose cordigliere ostili che io vinsi.

E qui non era la pietra convertita in miracolo, convertita alla luce generatrice, né il benefico azzurro della pittura, né tutte le voci del fiume quelli che mi diedero la cittadinanza della vecchia città di pietra e argento, ma un operaio, un uomo, come tutti gli uomini.

Per questo credo ogni notte del giorno, e quando ho sete credo nell'acqua, perchè credo nell'uomo.

Credo che stiamo salendo l'ultimo gradino.

Da lì vedremo la verità ripartita, la semplicità instaurata sulla terra, il pane e il vino per tutti.
Prego

Un altro  poeta anonimo scrive alla sua città e sembra quasi  un racconto, il racconto  di questa città  puntellata in cui il cemento è stato messo in  catene  e non riesce più a liberare la sua anima che è anima diversa, nuova , con le ali.

Punti gli occhi stanchi
sulle catene del cemento
sognando un'anima diversa
per la tua bocca che sa ridere,
ma è lei a meritarsi
un corpo con le ali.

E io ci aggiungo

Oggi ho visto un uomo vecchio
con un pezzo di vetro da finestra
in mano ,
oggi ho visto  un uomo giovane
con un fon per capelli in mano
camminare su un alto marciapiede,
oggi ho camminato sotto le impalcature
del puntellamento d’una casa .
Oggi  ho rinunciato a camminare
all’ombra delle travi e al sole
dei tetti caduti
come faccio ormai da tre anni
in questa città.
Oggi è come ieri ,verrà domani
e sarà forse come oggi .
Quando ? Quando potremo sognare
fuori da un sogno
nella realtà degli odori di cucina ,
degli scantinati ammuffiti,del sudore
della pelle e delle ossa .
Quando ci riporteranno  le nostre gambe
doloranti per l’artrosi
su quelle strade di selci e asfalti
che furono il nostro cammino quotidiano ,
il nostro indugio notturno,
il nostro  misurare il tempo,
il nostro rincorrere  le speranze ,
sopportare i dolori , chiamare
Anna,. Giulio, Francesca, Mario, Alberto,
Giuseppe  per una tazza di caffè,
un rimbrotto, un pensiero d’amore ,uno sguardo
atteso, un gesto consueto.
Quando ?
Ho visto oggi giardini abbandonati ,
finestre cavate come occhi
uomini a cui non è stato più concesso
il diritto  di stare al sole
in una piazza.
Quando ?  Dunque quando ?
Ed è una inutile domanda come inutile
non è la speranza  di quando ricominceremo
a sperare.



Eremo Via vado di sole , L'Aquila, venerdì 6 aprile 2012  3° anno post sisma

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