martedì 6 dicembre 2011

ET TERRA MOTA EST : “Spiriti della città “

ET TERRA MOTA EST  :   “Spiriti della città “

 
Nel blog Origami di un Chiappanuvoli  http://chiappanuvoli.wordpress.com/ definito dall’autore come  il blog impersonale di un semplice Chiappanuvoli, che pretende, folle, di toccare le nuvole con le sole parole trovo un racconto interessante sulla condizione antropologica  a L’Aquila e mi piace qui  riportarlo Insieme a due poesie  che ho scelte tra quelle contenute nel blog .

Una grossa cazzata, un passaparola, una leggenda metropolitana, qualsiasi cosa fosse stava diventando per Tommaso una vera e propria ossessione: possibile che il centro storico dell’Aquila dopo il terremoto fosse stato invaso dagli spiriti? I giornali ovviamente non ne davano conto, erano troppo occupati a raccontare di miracoli, di lotte politiche intestine, di fondi per la ricostruzione, di zone franche, questi sì, immaginari. Dovunque si recasse però, dal Comune alla bancarella del mercato dislocato, alla fine, qualcuno se ne usciva fuori con questa storia. La gente ci ricamava sopra e si andavano aggiungendo sempre nuovi particolari.
Tommaso non era un fissato di occultismo e sciocchezze del genere, ma queste voci, tirando in causa il cuore ferito della sua città, lo facevano ingrippare. Memorizzava così ogni parola che captava confrontandola con le altre mille che sentiva in giro. Passeggiava spesso lungo Corso Vittorio Emanuele, l’unica via aperta del centro, aperta fino all’una di notte, ma mai nulla, mai un’ombra, mai un sospiro, mai un rumore sospetto aldilà delle transenne. Si fermava a parlare con i guardiani delle macerie dell’Aquila, i militari che prestavano servizio di vigilanza, e capitava che qualcuno di loro si lasciasse scappare qualche indiretta testimonianza:
­«Sì, sì, è ‘o vero. Io non ho visto gniente, ma ‘u maresciallo che pattugliava l’altra notte rice che ha visto qualcosa, qualcosa di muoversi nell’ombra.» gli raccontò un piantone d’origine campana «Quasi gli è preso un coccolone, Maro’, mo ci rimane secco per la paura!»
Ormai era più che deciso, doveva andare a vedere che stava succedendo nel suo centro storico, nella zona rossa, dietro le barriere, dentro quei vicoli bui, là dove ancora gli aquilani non potevano accedere senza inutili permessi speciali.

Una sera, Tommaso uscì con gli amici, come al solito. Qualche tazza ma senza strafare, tanto per raggiungere il livello sufficiente a trovare il coraggio. Alle due spaccate annunciò la sua ritirata e tra le proteste e le risa della compagnia si avviò verso l’auto. Alla Fontana Luminosa, passò di fianco la sua auto, tirò dritto e s’infilò in una viuzza, Via delle Tre Spighe. Fu avvolto immediatamente dalle tenebre. Intravide il convento Sant’Amico sulla destra. Affrettò il passo ed raggiuse subito le barriere che lo separavano dalla zona rossa. Spostò le transenne, appena appoggiate, e sgattaiolò dentro. Violazione amministrativa commessa. Sorrise.
Arrivò in Piazza Chiarino e da lì proseguì verso il quartiere San Pietro, il più colpito dal sisma. Buio pesto, silenzio disumano, giochi d’ombre. Il cuore gli batteva forte sotto i vestiti. Paura, eccitazione, incoscienza o forse, ancora di più, la coscienza lo eccitava. La coscienza di poter essere finalmente dove avrebbe voluto sempre stare durante i mesi d’inferno di post-sisma, nei vicoli dell’Aquila, o in quello che ne resta. La luna calante giocava con i palazzi senza vita formando, sulla testa del ragazzo, linee che gli parve di non riconoscere, linee non già nuove, ma remote, antiche, quasi dimenticate. A terra c’erano ancora pietre, mattoni, cocci, pezzi di un corpo martoriato. Li pestò sentendosi in colpa.

Imboccò Via San Domenico, ancora nulla, nessun un segno di presenza, nessun sentore di vita paranormale. Si spinse in giù per vicoli disastrati fino al Vicolaccio. Un po’ di luce. Da lì prese a risalire in direzione di Piazza Duomo. All’incrocio con Piazzetta Machilone, il primo contatto, un branco di cani, gli ultimi abitanti dell’Aquila, gli unici che non l’hanno mai abbandonata. Qualche guaito, il ticchettio in avvicinamento delle unghie sui sampietrini. Tommaso provò ad affrettare il passo, ma subito gli furono sopra. Quattro cani di grossa taglia decisi a essere accarezzati dallo sconosciuto passato lì per caso. Sciacalli pure loro.
Dopo essersi appestato le mani di fetore canino stantio, con difficoltà si riuscì a divincolare e riprese alla volta di Piazza Duomo. Ancora niente. Nessuno spirito. L’idea che le voci fossero tutte cazzate si era insinuata nella sua testa. Ma tanto valeva farsi un giro tra i ricordi, tra gli affetti incastonati a quelle mura gelide. La sensazione era simile a quando, da ragazzo, andava di notte nei cimiteri con gli amici. Semplici bravate, per carità, ma erano anche i primi contatti emotivi con la morte, con l’aldilà.
La piazza era illuminata, arancione stanco, vuota e silenziosa, come il ritorno a casa dopo una sbornia clamorosa tirata per le lunghe con i proprietari di un locale. Non fosse stato per le transenne, per i puntellamenti, pezzi d’acciaio e di legno che tengono unite le pareti degli edifici, per il preservativo messo sulla cupola delle Anime Sante, non fosse stato per il tendone dell’Assemblea Cittadina…
Risalendo verso Capo Piazza, perso tra i ricordi, Tommaso non notò l’arrivo di due fari lungo il Corso. Fece appena in tempo a buttarsi dentro la vasca vuota della fontana del D’Antino. La camionetta dei militari superò tutta la larghezza della piazza a velocità ridotta seguendo il suo cammino.

D’un tratto l’auto si fermò, come il sangue nelle vene del ragazzo. Deglutì. Erano abbastanza lontani. Avrebbe potuto tentare una fuga. Rotolò fuori della vasca, restando sempre accucciato. La camionetta mise la retromarcia. Panico. Tommaso prese a strisciare come un marine cercando di raggiungere la via di fuga più vicina. I militari fecero manovra ed entrarono lentamente nello slargo della piazza. Nel momento in cui la vista dei militari fu impallata dal chiosco dell’edicola, il ragazzo fece uno scatto e si andò a nascondere dietro il gabbiotto delle informazioni turistiche.

La camionetta continuò a scendere verso il centro della piazza. La versione pericolosa della mosca cieca. Quando l’auto fu abbastanza lontana, dette l’ultimo guizzo verso Via Cimino, spostò rapidamente la transenna e s’infilò dentro. Continuò a correre senza voltarsi. Alla prima traversa svoltò. Era fatta, era salvo. Finalmente poteva ingoiare il cuore che gli pompava nella gola.
I vicoli nel quartiere di Santa Giusta erano ancora più bui. Non si vedeva a un palmo dal naso. Senza una meta, Tommaso riprese a camminare. Ora il desiderio era trovare un modo per tornarsene a casa. Superò una birreria e ancora la sua libreria preferita, il Polar Caffè. Un silenzio disumano. Quando statack! Un rumore sordo a non più di 50 metri davanti a sé.
Rimase impietrito. “Ancora i militari?”, pensò. L’attesa infinita. Poi una tenue luce delineò lentamente la fonte del rumore. Una figura nera, un’ombra, come un mantello. La prova che andava cercando. Uno spirito. Proprio di fronte a lui. Si avvicinava nella sua direzione. La curiosità scomparve, la paura prese il suo posto. Il cervello si spense. Il cuore gli risalì in gola. Fuga. Veloce. Ora! Iniziò a correre più forte che poteva, non curandosi minimamente di quanto stava avvenendo alle sue spalle. Sbucò sotto gli alberi di Piazzetta Nove Martiri. Tra le fronde filtrava pochissima luce dalle altre viuzze. Poca ma sufficiente a vedere che ogni via d’accesso, e quindi di fuga, era sbarrata da altrettante sagome nere. Spiriti. In trappola.
Preso dal panico si accovacciò ai piedi di un palazzo. Si coprì la faccia con le mani.
«Non è vero! Non è vero! Non sta accadendo! Non può essere reale!»
Sentì le lacrime corrergli lungo le guance. Un singhiozzo. Alzò la testa e le figure lo avevano accerchiato. Tutte le fantasie, i desideri, tutti i pensieri erano svaniti. Il respiro bloccato nei polmoni. Gli occhi sbarrati. Nessuna logica. Non senso. Dopo un terremoto.
Una sagoma fece un passo in avanti e gli tese qualcosa. Nell’ombra, circondata da un drappo nero, spuntò una mano.
“Una mano umana?”
Si accese una minuscola torcia. Volti. Occhi. Nasi. Bocche. Persone. Incappucciate sotto mantelli neri come la pece.
«Ti abbiamo osservato. Sappiamo che cerchi. Sappiamo anche chi sei.»
Il ragazzo era diventato di pietra.
«Tommaso…giusto?»
«Ma io, io veramente…»
«Se vuoi girare libero per il centro, devi indossare uno di questi» disse la figura scrollandosi appena il mantello.
«Chi siete…»
«Aquilani.» ribatte l’uomo «Siamo solo Aquilani stanchi di non poter più vivere in Centro…nella nostra città.»
«Io…veramente…cioè, credo…» mugugnò Tommaso recuperando le normali funzioni vitali.
«Perché cazzo devono impedirci di stare nei posti che amiamo?! Daje rizzate su. Semo paesani!»
Dopo quella notte, Tommaso iniziò ad andare in Centro più volte che poteva. Con il suo mantello. Scoprì che gli aquilani erano decine, centinaia. Molte delle quali conosceva, per giunta. Aquilani che avevano fatto tutti la stessa scelta. Imparò ad avere una seconda vita. Fatta di regole, di codici segreti, di rispetto reciproco, ma soprattutto fatta d’amore. Amore incondizionato per quelle vie, quelle piazze, per quegli angoli nascosti che aveva sempre amato, fin da quando aveva memoria.
9/08/2010 Chiappanuvoli


Sempre un ultimo
È strazio di topazio,
l’ultimo orizzonte di fronte.
Sfuma irrisorio, quasi provvisorio
inerte di fumi, d’ansia vivente.
Coagula un giorno, un anno
senza danno né ritorno.

Smalto del riso sul mio viso
-                                    in risalto,
dubbi dal cuore come d’ogni dì
-                                          a venire.
 31/12/’03
28 settembre 2011:

«Veloci sembrano le parole

incolonnate. Vicini gli allori.

I poeti mangiano i sassi.

°

Moderatamente rapide, quelle raccolte

in un pugno di pagine. L’obiettivo luccica, pare a portata.

Il rischio di ubriacarsi di nulla, Carver lo conosceva.

°

Più lenta è quella distesa infinita di battute.

Meno i sorrisi. L’arte non si inventa (qualcosa la sto imparando).

Sarebbe comunque un boom – d’artificio / al suolo.

°

Tre strade davanti, non troppo devianti.

Fuorvianti. Avanti ai denti colpi prepotenti.

Potevo essere un ingegnere, un banchiere, uno strozzino.»

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, martedì  6 divcembre 2011

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