giovedì 29 dicembre 2011

SILLABARI : Politica uno .Una politica a corto di idee SILLABARI : Politica due .La debolezza dei partiti

SILLABARI  :   Politica  uno  .Una politica a corto di idee

Forse esagero, ma è da cinquant'anni che dalla politica italiana non nasce una sola idea. Siamo partiti con il Bipartitismo Imperfetto di Giorgio Galli, dove «imperfetto» stava per dire che non c'era alternanza al potere. È sì un difetto. Ma sin da allora facevo notare che i Paesi senza alternanza di governo erano parecchi, specialmente il Giappone, che pure è stato per lungo tempo un Paese di prima fila.

Poi si è affermata l'idea che se un Paese non aveva una struttura bipolare non poteva funzionare. Per anni ho cercato di spiegare che una struttura bipolare (tipo destra-sinistra) veniva di solito da sé, che era fisiologica. Chi si prova, ogni tanto, a dichiararsi «terzo polo» è un politico spiazzato dagli eventi. D'altronde, i sistemi bipolari hanno spesso bisogno di un piccolo partito intermedio di sostegno. Come in Germania.

Qual è, allora, lo scandalo italiano? È che non abbiamo il voto di preferenza. Lo avevamo, ma a furor di popolo venne cancellato da due referendum. Non era un secolo fa, eppure ce ne siamo dimenticati. E ci siamo anche dimenticati perché non funzionò allora, e perché funzionerebbe ancora peggio se ripristinato. In passato la prassi costante, tra gli scrutatori dei seggi, era di controllare attentamente i voti di lista ma di consentire a sé stessi di aggiungere crocette di preferenza ai raccomandati del proprio partito. Oggi siamo più smaliziati. Così è ancora più sicuro che il votante non riuscirà quasi mai a eleggere chi voleva. Eppure ci crede.

In questo cinquantennio la vera novità è invece passata inosservata. Nel 1918 Max Weber scriveva un saggio, La politica come professione, che è illuminante già nel titolo, e che stabilisce una volta per tutte qual è il problema. Questo: che si è man mano consolidata e moltiplicata una popolazione che vive di politica e che non sa fare altro. Se perde il posto o le entrature nella «città del potere», allora resta disoccupato: o politica o fame. È evidente che la politica come professione è una inevitabile conseguenza della entrata in politica delle classi povere. Finché l'accesso al potere era ristretto ai benestanti, il cosiddetto «politico gentiluomo», non si faceva pagare. Non ne aveva bisogno. Ma i nullatenenti, invece, sì.
Va da sé che il politico di professione esiste oramai un po' dappertutto. Ma da noi con una virulenza inedita che ci assegna tra i Paesi più corrotti al mondo (al 69° posto).

È che da noi mancano le controforze politiche, manca un vero pluralismo politico. Il fascismo ha favorito lo sviluppo di quelle che oggi ci siamo abituati a chiamare lobbies , ovvero corporazioni di interessi economici. Dopodiché il dopoguerra ci ha restituito un sindacalismo largamente massimalista. Mentre nel 1959 i sindacati tedeschi ripudiavano a Bad Godesberg il sindacalismo rivoluzionario e da allora collaborano con le aziende, noi continuiamo il rito di inutili e dannosi scioperi.

Il punto è, allora, che lo strapotere della nostra casta di politici di professione non si imbatte in vere controforze che lo combattono. Noi siamo precipitati nel momento in cui la stupidità della sinistra, allora di D'Alema e di Violante, ha consegnato il Paese a Berlusconi regalandogli tutta o quasi tutta la televisione.

Giovanni Sartori  Il Corriere della sera 27 dicembre 2011

SILLABARI  :  Politica  due    .La debolezza dei partiti

Ha ragione il presidente Napolitano: in Italia non c'è alcuna «democrazia sospesa». Chi lo dice non sa ciò di cui parla. Ma c'è, eccome!, una crisi gravissima della democrazia parlamentare: cioè di quella specifica forma di democrazia adottata sessanta anni fa dalla nostra Costituzione - sia pure con alcune modifiche non decisive (principale delle quali l'esistenza di una Corte costituzionale) - e che si sostanzia per l'appunto nell'assoluta centralità del Parlamento.

La realtà e il motivo primo di tale crisi sono presto detti. Stanno nel fatto che il Parlamento - il quale, è bene ricordarlo, resta pur sempre il solo organo del potere legittimato in via diretta dalla sovranità popolare - non solo non è più al centro del processo politico reale, ma non è più al centro di nulla: neppure del processo di formazione delle leggi, essendo perlopiù divenuto, ormai, solo una sede passiva di convalida e ratifica di decisioni prese comunque altrove.

Questo è quanto è più o meno accaduto, beninteso, in quasi tutte le democrazie. Ma con un'importante differenza. Mentre altrove, infatti, lo storico declino del Parlamento è andato sì di pari passo con un aumento del potere di fatto dei partiti, ma si è comunque accompagnato anche a un aumento delle prerogative del governo e/o del suo capo (dal dominio sull'agenda dei lavori parlamentari alla preminenza assoluta del premier nei confronti degli altri ministri, fino al potere di sciogliere le Camere o di essere sfiduciato ma solo previa indicazione da parte del Parlamento del suo successore) solo in Italia, invece, il suddetto declino parlamentare si è accompagnato a una crescita esclusivamente del ruolo e del potere dei partiti. Sarà pure da ricordare che proprio la crisi storica della centralità del Parlamento ha motivato altrove, in un gran numero di casi, l'adozione di sistemi di democrazia presidenziale o semipresidenziale. Solo in Italia, invece, come dicevo, siamo sempre rimasti formalmente in una condizione di classica democrazia parlamentare, ma con l'intero potere politico nelle mani dei partiti, di fatto padroni assoluti del Parlamento. E con esso del governo, alla completa mercé delle maggioranze partitiche.

È stata questa, per l'appunto, la stagione del lungo dopoguerra, della partitocrazia dominatrice della Prima Repubblica. Ma con la fine di quest'ultima, dopo il crollo del muro di Berlino e dopo le inchieste di Mani pulite, è accaduto che la forza e il prestigio dei partiti siano andati rapidamente declinando fino a diventare l'ombra di ciò che erano. È a questo punto - si tratta della fase nella quale siamo immersi da anni - che si è creato un vuoto gigantesco: con un Parlamento espropriato da sempre, con i partiti ridotti allo stato evanescente, con un presidente del Consiglio e un governo tradizionalmente privi di poteri propri significativi. Ed è a questo punto, e per queste ragioni, che ha cominciato a diventare sempre più centrale e incisivo il ruolo del presidente della Repubblica.

Fino a diventare assolutamente determinante nell'ultima crisi di governo allorché, mentre era ancora formalmente in carica il ministero Berlusconi che aveva preannunciato le proprie dimissioni, Napolitano, nominando senatore a vita il professor Monti - prima ancora che avesse inizio qualunque consultazione con i gruppi parlamentari, per il momento ancora detentori formali del potere di convalida - ha reso evidentissime le proprie intenzioni e la propria designazione. Ma mettendo così i partiti, ridotti ormai allo stato larvale, di fronte al fatto compiuto, nell'impossibilità politica di rifiutare il proprio sostegno a un governo destinato ad assommare in sé, in modo singolarissimo, la duplice natura di «governo dei tecnici» e insieme di «governo di unità nazionale» (cioè del governo più politico che ci sia, quello per esempio tipico dei periodi di guerra).

In una materia così delicata è bene essere chiari, anzi chiarissimi. Il presidente della Repubblica non ha certo commesso alcun atto contro la Costituzione, men che meno ha «sospeso la democrazia». Con ogni probabilità, la sua azione - dai tratti così oggettivamente «estremi» - è valsa a riacchiappare per i capelli una situazione del Paese che forse era a un passo dall'andare fuori controllo. E che proprio perciò ha reso inevitabile il ricorso a procedure così insolite. Ma ciò non muta la sostanza: e cioè che l'equazione reale dei poteri pubblici italiani, il quadro dei loro rapporti effettivi, sono ormai lontani dallo schema disegnato nella nostra Carta costituzionale. Solo un cieco potrebbe negarlo. Nell'ambito che stiamo qui discutendo, la Costituzione «materiale» ormai vigente, le sue regole che ormai cominciano ad avere valore di «precedente», hanno, per così dire, un rapporto sempre più problematico con la Costituzione scritta del lontano 1948. Secondo il mio umile parere sarebbe una degna conclusione del settennato del presidente Napolitano se, con un solenne messaggio alle Camere, proprio lui - che di quella Costituzione ha sondato come nessun altro tutta l'elasticità interpretativa, ma sempre servendone con lealtà lo spirito - proprio lui, dicevo, indicasse agli Italiani la necessità di apportarvi le necessarie e ormai improcrastinabili modifiche.

Ernesto Galli Della Loggia Il Corriere della sera  28 dicembre 2011

Eremo Via vado di sole ,L'Aquila, giovedì 29 Dicemebre 2011

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