lunedì 10 maggio 2010

AD HOC : Terremoto e lavoro

AD HOC :Terremoto e lavoro

C’è un altro terremoto, nell’Aquilano, sconosciuto ai più: quello del lavoro, della cassa integrazione, di aziende che chiudono, di attività artigianali e commerciali e di piccole e medie imprese che dal 6 aprile 2009 non hanno proprio riaperto. Non servono interpretazioni, le cifre bastano da sole a far tremare i polsi. Sono 25 mila i posti di lavoro persi nel 2009 in tutto l’Abruzzo (il dato più alto d’Italia). La situazione all’Aquila è drammatica: sette milioni le ore di cassa integrazione dell’anno scorso, migliaia i posti di lavoro andati in fumo, con famiglie dove spesso restano disoccupati moglie e marito. In quella che il Censis ha definito una “città-fantasma”, ridotta all’osso anche nei suoi abitanti, l’economia e il mercato locale sono al collasso.

Il segretario della CGIL Abruzzo Gianni Di Cesare, ad un anno dal terremoto, traccia un bilancio. E la fotografia che emerge è tragica. Mancano interventi e prospettive per la ripresa. “La Regione Abruzzo – afferma il sindacalista – non ha fatto nessuna legge e non ha dato nessuna linea nel post-terremoto ma ha rimodulato i fondi FAS per le aree sottosviluppate e i fondi europei con un nuovo capitolato. Si tratta di qualche milione di euro”. Ma la crisi del 2009-2010, amplificata a livelli esponenziali dalle conseguenze del terremoto e dall’assenza di misure idonee, viene da lontano ed è preesistente al sisma.

Breve premessa. L’attuale situazione catastrofica è legata al federalismo, afferma Di Cesare. Il segretario regionale CGIL lo spiega con dati alla mano. La Regione Abruzzo ha un bilancio che va tra 2 miliardi e 600 milioni e 2 miliardi e 700 mln. Di questi ben 2 miliardi e 3 sono già assegnati alla Sanità. “Con 400 milioni che restano la Regione dovrebbe fare tutto ciò che rientra nelle competenze delle Regioni. Con questo sistema le piccole Regioni del Sud sono in difficoltà e non è, o non è solo, questione di sprechi”. Per le Regioni ricche o per quelle a Statuto Speciale, ovviamente, questo problema non c’è.

“Dalla riforma del titolo V della Costituzione, nel 2001, e per dieci anni, la Regione Abruzzo ha prodotto debito. Nel 2007 – prosegue il sindacalista – il debito della Regione era di 3 miliardi 982,7 milioni (dai 558,6 milioni del 2000). Adesso la terza voce di spesa dopo sanità e trasporti sono gli interessi da pagare. E siccome l’indebitamento è massimo, siamo al blocco. Anzi, rischiamo di peggiorare grazie alla Lega Nord, con la legge 42/2009 (Legge delega al Governo in materia di federalismo fiscale) che mette in discussione le entrate della perequazione” .


L’annus horribilis. Solo nel 2009 l’Abruzzo ha perso 25 mila posti di lavoro, il dato più alto d’Italia. Da un lato sono contratti a tempo indeterminato e dall’altro ragazzi precari, la fascia più debole. La perdita è così distribuita:
• 5 mila posti di lavoro persi nell’agricoltura
• 7 mila posti di lavoro persi nell’industria
• 13 mila posti di lavoro persi nel terziario
Ci sono quindi “le crisi”, tiene a sottolineare il sindacalista. Quella del terziario è la prima, gravissima. Sta dentro la crisi della spesa pubblica (il terziario è sanità, cultura, scuola, sociale, servizi). La crisi maggiore, quindi, è nel mercato locale. Allora, chiede Di Cesare, è spreco o è il sistema che si sta producendo che taglia fuori interi pezzi del Paese?

La seconda crisi è quella dell’industria, anche perché l’Abruzzo è la settima Regione per industrializzazione. In questo non si può non considerare che il 2008-2009 è stato il biennio della crisi finanziaria ma anche della redistribuzione del reddito e della globalizzazione. Quest’ultima ha un effetto considerevole: basti pensare che in Abruzzo si producono veicoli, tanto per fare un esempio, che si vendono in tutto il mondo. Ed essendo l’Abruzzo la settima Regione per industrializzazione è anche più esposta.

Un altro dato che fa tremare i polsi: con 34 milioni di ore nel 2009 l’Abruzzo è la terza regione d’Italia per incremento di cassa integrazione (+440% contro la media nazionale del +311%, dati Inps). Un’altra cifra inquadra la situazione: dal 1995 al 2006 il Pil pro-capite in Abruzzo ha perso 19 punti rispetto alla media europea, passando (fatta 100 la media Ue-27) da un valore 104 (1995) a 85 (2006).
Di 34 milioni di ore di cassa integrazione, 7 milioni di ore riguardano solo L’Aquila: 2 milioni e 8 nell’industria e 3 milioni e quattro nel terziario. Ma la situazione del lavoro nella città capoluogo è ben più grave: in questi dati, infatti, non sono comprese le crisi dei liberi professionisti e in generale del lavoro autonomo.

La terza crisi: il terremoto. Questa, spiega Di Cesare, è la crisi propria della città dell’Aquila, del mercato locale e della demografia. L’Aquila prima del 6 aprile 2009 era una città di 100 mila abitanti. Perché ai circa 73 mila residenti devono essere sommati circa 25 mila domiciliati (studenti e professionisti – avvocati, medici, professori universitari – che venivano nel capoluogo d’Abruzzo a lavorare e dove non solo avevano il domicilio ma producevano, spendevano, contribuivano far girare il mercato dell’economia locale). Non si può non considerare questo aspetto anche come una crisi della demografia, dal momento che una città con un mercato locale di 100 mila abitanti viene drasticamente ridimensionata. Ad oggi, afferma Di Cesare, la residenza all’Aquila arriva a 30 mila abitanti, quindi la crisi demografica è in atto e la conseguenza è che il mercato è fermo. Senza considerare i tantissimi pendolari che, ad esempio, da Roma arrivavano all’Aquila tutte le mattine in macchina o bus (24 pullman ogni giorno senza considerare i bis, moltiplicati per tutto l’anno, rendono l’idea del movimento di lavoratori verso L’Aquila).

Allora la domanda che pone Di Cesare è: stiamo ricostruendo una città di 53 mila abitanti o di 100 mila? Perché, a seconda della risposta, le prospettive economiche e sociali sono ben diverse. Intanto l’effetto sul lavoro degli abruzzesi nelle zone del sisma finora è stato scarso: nell’edilizia non è cresciuto e i dati della cassa integrazione lo indicano.

Nel progetto C.A.S.E. hanno lavorato meno del 20% di operai edili abruzzesi.
Cittadinanza ai lavoratori stranieri. Per tornare ad una città di 100 mila abitanti, con il mercato dell’economia locale di prima, Di Cesare ha una soluzione innovativa che finora non è stata presa in considerazione. Oggi L’Aquila ha davanti a se’, per dieci anni, la sfida della ricostruzione. E allora perché non si pensa a dare la cittadinanza ai tanti lavoratori stranieri già presenti sul territorio? Basti pensare all’80 per cento di operai del progetto C.A.S.E. (le cosiddette new town) che viene da fuori. L’idea, insomma, è quella di integrare per produrre economia. Un operaio albanese con la cittadinanza si sentirebbe a casa, farebbe un ricongiungimento familiare con moglie e figli, i quali frequenterebbero le scuole del territorio e tutti insieme contribuirebbero a rimettere in piedi un’economia locale che invece al momento è allo sfascio. Anche perché, ad oggi, gli operai lavorano tutto il giorno, senza essere integrati, risparmiando tutto e mandando a casa l’intero stipendio.

La Chiesa va incontro al bisogno di lavoro? “Si può continuare – domanda Gianni Di Cesare – a seguire la Chiesa e la Caritas che vogliono attuare tutto attraverso il volontariato, che poi volontariato non è?
Perché non si costituisce lavoro intorno al bisogno?”. L’esempio che fa il sindacalista riguarda le strutture dove potrebbero trovare impiego psicologi, infermieri, assistenti sociali e tante altre professionalità e che invece la Chiesa gestisce attraverso il cosiddetto volontariato cattolico. Perché – chiede il sindacalista -, in una città che ha 3 milioni e 400 mila ore di cassa integrazione nel terziario, la Chiesa deve costruire il “suo” doposcuola? Ci lavorerà qualcuno delle migliaia di cassaintegrati?

L’Aquila ha bisogno di investire sull’Università e la conoscenza. “All’Aquila c’è bisogno di una città che investa in alta intensità di lavoro, quale ad esempio sono i settori del sociale, della ricerca, dell’Università. Solo così si rimette in moto la città. “Tutto questo si chiama Stato. Ma lo Stato, direttamente, quanti soldi liquidi ci mette? Poco o nulla”, afferma il sindacalista.
I media anche possono essere investimento ad alta intensità di lavoro. Visto che il terremoto ed il dopo terremoto a L’Aquila sono diventati eventi mediatici, un’idea potrebbe essere quella di portare nel capoluogo d’Abruzzo una sede delle varie testate giornalistiche, anche straniere. Questo si potrebbe fare praticamente a costo zero, basterebbe allestire una sala stampa, ma il ritorno economico sarebbe ben maggiore della spesa iniziale. E così via, si potrebbero fare innumerevoli esempi.
Ma a questo punto l’interrogativo è: si crede davvero nella rinascita e nel volo fiero dell’Aquila?
Da Politicambiente 19.04.2010

Eremo Via vado di sole ,L’Aquila lunedì 10 maggio 2010

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