mercoledì 8 febbraio 2012

BURAN : Terremoto e neve

BURAN   : Terremoto e neve

Scrive Virgilia Piccolillo su Il Corriere it  del  7.02.2012  “ Ma che la neve torni e provochi altri crolli è un terrore diffuso nella popolazione precaria del post sisma. Quelli del «progetto Case» temono che le strutture prefabbricate non tengano: «Speriamo non vengano giù i tetti come a Trasacco. C’è un metro di neve. Ma nessuno se ne è preoccupato fino a oggi (ieri ndr ) eravamo completamente isolati e ora è tutto una lastra di ghiaccio», spiega Walter, che abita a Sassa. Quelli che attendono ancora di iniziare i lavori di ricostruzione della propria casa in centro (che una burocrazia incapace impedisce da tre anni) guardano con terrore i tetti innevati: «Quella è tutta acqua che si infiltra, se i muri non implodono prima, i danni li scopri a primavera. Tutti i soldi pubblici che hanno speso per i puntellamenti sono buttati. Tengono su solo macerie».

Ed è come dopo il terremoto la notte si sentono solo i cani latrare nel centro storico,  o nelle immediate vicinanze. Di giorno si sente il raschiare delle pale sul selciato perché  purtroppo occorre fare molte cose da sé in quanto la mano pubblica arriva ,ma con lentezza e  non dappertutto.  Strade e corti private, che sono frequenti  e rappresentano spazi piuttosto  ampi all’interno della rete urbana   non hanno diritto alla pulitura da parte del Comune. Occorre fare da sé, arrangiarsi  o pagare  lo sgombero della neve.

Ma non è questo il tema del post  che prende lo spunto dall’eccezionale  ondata di maltempo. Il tema è appunto quello della sussistenza e del cambiamento ,seppure  progressivo  di un modo di vivere . Titoli cubitali sui giornali di stamani  annunciano  un week end da paura , da incubo, per la ulteriore   precipitazione nevosa attesa per il fine settimana. In una regione e in una città in cui lo sport  invernale  più diffuso è lo sci  la neve è diventata un incubo. Ma la neve è stata ed è  , dal punto di vista turistico e non solo,  una risorsa e una ricchezza. E allora ?Ce ne vuole a trasformarla in un incubo. Eppure è questa l’idea che sta passando. Perché?  Perché probabilmente un paese che  fino agli anni cinquanta dello scorso secolo poteva definirsi agricolo ha perso  di vista quella cultura. Una cultura materiale la cui tradizione orale racconta  le modalità di sussistenza  in un ambiente ostile  dal punto di vista del territorio e climatico che sono state messe nel dimenticatoio. Occorre tornare a fare cose che abbiamo dimenticate o che oggi  rifiutiamo   Come camminare per esempio, fare provviste alimentare  durante la buona stagione , conservando quello che l’orto e il campo ci dà in più  rispetto al consumo normale stagionale. Bisogna  diversificare le fonti di energia e quindi le modalità di riscaldare le case e i luoghi di lavoro  usando per esempio gas metano, legna, pellet,  fotovoltaico . Bisogna modificare le abitazioni in modo da  evitare la dispersione di calore.  Bisogna  dedicarsi di più alla manualità usando per esempio il tempo di  inattività dal lavoro nei  pomeriggi e nelle serate  di freddo e gelo .

Se  si va a curiosare  su You Tube o su Google  nei siti e nei video che  danno informazioni sui kit di sopravvivenza si trovano Kit di sopravvivenza che  possono essere di diverse tipologie, ognuno adatto ad una situazione particolare, con  kit alimentari, di sicurezza, per la sopravvivenza, militari, medici,  e molti altri ancora. Sono Kit usati non soltanto da privati ma anche gli enti militari sono equipaggiati con ogni tipologia di Kit.
Ma il problema non è quello di sopravvivere  in situazioni limite, e quindi di garantire  alcuni standard minimi vitali. La questione è aprire una  riflessione sul nostro attuale fragile modo di vivere che non riesce a far fronte ad alcune semplici calamità naturali che nei decenni passati si sono ugualmente verificate e alle quali  si è reagito nei modi opportuni. Io non credo che ci stiamo avviando , a leggere l’ingegner Vacca verso un medioevo prossimo venturo  anche se  poi. A sentire Umberto Eco  il medioevo non è stato quel secolo buio che  siamo abituati a ritenere ma   secoli fecondi  sia dal punto di vista  culturale che politico che tecnico  e scientifico in quanto   seme di molte delle cose che noi usiamo  e che  organizzano la nostra attuale società. Dunque non una sopravvivenza al limite ma un nuovo modo di  vivere.
Non un ritorno ad un mondo in cui  al sorgere del sole, uomini e donne si recavano a far legna nel bosco o a lavorare nei campi; i ragazzi (niente scuola ovviamente!) andavano a pascolare le pecore. L'unico cibo per la colazione era un po' di torta di granturco avanzata la sera prima. Oppure quando c’era  pane mettevano, gli uomini in tasca e le donne nel grembiule,  da mangiare strada facendo.  Fino a quando a metà giornata parenti o il padrone della terra non portava altro cibo.
Ma  il recupero di quella cultura contadina che evitava gli sprechi, incanalava gli sforzi, massizzava le risorse .
In altre parole riscoprire la continuità nel tempo della cultura contadina, ancora presente nell'inconscio personale e collettivo contro  l'ineluttabilità del cambiamento storico,arrivato con   la modernità che, come una valanga inarrestabile, travolge e inghiotte tutto ciò che incontra sulla sua strada..
D’altra parte è ciò che fanno molte masserie  biologiche e fattorie didattiche , bed and breakfast del territorio aquilano  fino ad arrivare  al  recupero dei semi antichi, tra cui il farro, il grano tenero “solina”, la “patata turchesa”, il mais “quarantino”, i legumi autocotoni, coltivati in modo naturale.

Dunque un “ vecchio proverbio dice “chi va piano va sano e va lontano”. Credo che sia nato in un mondo antico e agricolo, dove il tempo era dettato dal ciclo delle stagioni. Per i contadini l’unico mezzo di trasporto era andare a piedi; e anche chi poteva disporre di un cavallo o di una carrozza andava poco lontano, rispetto a ciò che possiamo fare oggi, e ci metteva un’infinità di tempo. Il lavoro nei campi era pesante. L’orario era “dall’alba al tramonto”; sei giorni alla settimana (se davvero riposavano la domenica). Un po’ meno pesante nel freddo dell’inverno, quando anche le piante riposano; sfiancante d’estate. Possiamo o vogliamo tornare a quell’era bucolica? Credo di no. Ma non è un buon motivo per vivere ossessionati dalla fretta.”

Un inverno pieno di neve ci richiama dunque alla lentezza perché non è vero che il mondo debba muoversi sempre più in fretta. “In realtà un po’ di accelerazione servirebbe là dove servizi mal strutturati fanno perdere un’infinità di tempo. Sono il primo a trovare insopportabile che per un’ora di volo se ne debbano perdere tre in trasporti urbani e attese negli aeroporti. Per non parlare delle sciagurate tecnologie che ci fanno perdere tempo con sistemi telefonici malfunzionanti, code inutili, infinite scomodità che potrebbero essere eliminate usando le risorse tecniche (e umane) con un po’ di raziocinio. Ma di questo quasi nessuno si occupa seriamente. E intanto tutti vanno di corsa, senza sapere dove o perché.”

Essere fermati dalla neve dunque  permette di riflettere e di  rallentare nella vita quotidiana quello che chiamo “la velocità di internet”. Una velocità travolgente che  ci sta disabituando alla vita comune . Perchè  nella cultura e nella società della rete ci sono valori antichi. Non si tratta di un ritorno al passato, né di un “ricorso storico”. I nuovi sistemi di comunicazione non hanno precedenti nella storia dell’umanità. Ma molti dei comportamenti e delle relazioni sono più comprensibili se li osserviamo dal punto di vista della natura umana, come la conosciamo fin dalle origini. Ecco la neve ci permette di osservare internet dal punto di vista umano.

I moderni mezzi di trasporto ci danno una mobilità senza precedenti; la rete ci permette di continuare il lavoro e le relazioni dovunque siamo. Possiamo liberarci non solo dai vincoli di concentrazione dell’economia industriale, ma anche dal condizionamento territoriale dell’economia agricola o mineraria.

Anche nella scrittura qualcosa è cambiato. Scrivere a macchina voleva dire usare un unico carattere, sempre della stessa grandezza.

Non c’era più calligrafia, né la possibilità di scrivere più grande o più piccolo, più chiaro o più scuro, collocare le parole diversamente sulla pagina, inserire qua e là una freccia o un disegno. Con un computer, tutto questo è di nuovo possibile; possiamo scegliere i caratteri, cambiarne la dimensione, impaginare come vogliamo, usare neretti e corsivi, inserire simboli e disegni. Insomma esprimerci in modo molto più personale.

Perfino l’arte della stampa non è più a senso unico. Possiamo tutti diventare tipografi, impaginatori, redattori, editori. Fare dieci, cento, mille copie di ciò che ci interessa. O, senza neppure usare una stampante, metterlo online.

E allora con la nostra neve possiamo godere del senso di queste cose come cose che ormai ci appartengono e che stanno al nostro servizio. Non siamo noi che siamo al loro servizio .
Ma  siamo andati un po’ lontani e la riflessione può arenarsi qui . Con l’impegno di tornare a riflettere su questi argomenti.

Eremo Via vado di sole, L’Aquila, mercoledì 8 febbraio 2012

Nessun commento:

Posta un commento