giovedì 4 febbraio 2010

GIOVANNI TITTA ROSA


Durante i mesi successivi al terremoto del 6 aprile ho avuto tra le mani un libricino di Giovanni Titta Rosa “L’avellano” di cui ho riletto qualche pagina pensando soprattutto alla catastrofe che ha colpito Tione degli Abruzzi.Quel libro è finito in uno scatolone ed è in deposito dopo il trasloco dalla mia casa. Devo alla fotocopia -ritrovata tutta spiegazzata tra le carte che mi sono portato dietro in questa nuova abitazione – alla fotocopia dicevo di un articolo del prof. Sandro Cordeschi pubblicata forse su un numero (quale e di quale anno ?)del bollettino del C.A. .I l’idea di ricordare qui Giovanni Titta Rosa.
Da quell’articolo in cui Sandro Cordeschi esamina l’opera poetica e dal sito ufficiale di Santa Maria del Ponte ho preso delle notizie. Come pure notizie ho preso in post del sito dell’Associazione LHASA Laboratorio autonomo studi antropologici ( http://www.lhasa.it/ ) Via della Madonna del Soccorso 2 L’Aquila di cui appunto Cordeschi è creatore e animatore.
L’idea di un Parco Letterario del Sirente che ricordi non solo Titta Rosa ma anche Lelj ed altri ci venne qualche anno fa quando il prof. Vincenzo Battista lavorava alla ricerca per la pubblicazione del volume “La Via dei carrettieri”. Scoprimmo insieme quel ricco e prezioso giacimento culturale che è la tradizione orale della Valle Subequana e dell’alto e basso Aterno e delle opere di Titta Rosa e Lelj che ne ricordano il valore.
Da allora ( La Via dei Carrettieri fu edita dall’Amministrazione Provinciale di L’Aquila nel 1997) sono nate e cresciute iniziative di conoscenza e valorizzazione delle opere di Titta Rosa e Lelj.Nonostante questo mi piace qui ricordarli di nuovo.

Scrive di sé Giovanni Titta Rosa in “Ritratto su misura “ edito da Sodalizio del Libro nel 1960 a Venezia :
«Sono nato in un paesello d'Abruzzo, un paese degli antichi Vestini, nella vallata dell'Aterno, prima che il fiume raggiunga la "chiusa" di Rajano, un nodo che lega le ultime balze del Sìrente, a est, con i contrafforti collinosi e boscosi del Gran Sasso, digradanti verso la piana di Sulmona. Dal mio paese, che si chiama Santa Maria del Ponte, chi ci viene dalla stretta vallata vestina, scorge che in quel punto la vallata si chiude come il fondo a un sacco, e sotto vi passa scorrendo tra ripe di salici e pioppi il fiume, e vicino ad esso, s'imbuca e sbuca da fumose gallerie il treno che risale da Sulmona o scende dall'Aquila. Dico 'fumose" nel mio ricordo quelle gallerie, sulle quali ci sono greppi e boschetti, dove si vedon capre che vi si arrampicano a "cimare", di primavera, i germogli di quercioli, avellani, e altri arbusti in un intrico di bosco, che una volta, dopo il 1860, doveva nascondere anche qualche covo di briganti. La montagna di fronte al mio paese, nera di lecci e frassini e querci, orla il cielo d'un ricamo perenne: e tra quei ricami d'alberi io ragazzo immaginavo di vedere i briganti, che spiavano di lassù un loro nemico per raggiungerlo con una schioppettata o, meglio, catturarlo, e rimandarlo a casa con l'orecchia mozza. Invece, di quanto è nera la montagna di fronte, di tanto è chiara, tufacea e grigia, quella ch'è alle spalle di Santa Maria, e nuda in cima, con ciuffi qua e là di ginepri, di rovi e di asparagi selvatici. Paesi di tordi, di lepri, e anche di serpi; che d'estate corrono al fiume a bere, scendono dai buchi e dalle sassaie. con la coda ritta e il capino assetato. Guai a incontrarle, sono vipere.

Feci al primo del secolo le scuole elementari nel mio paese di Santa Maria, mi insegnò i primi rudimenti di latino un giovane prete dalle dita e dal viso paffuti, sullo Schultz, o sulla grammatica di Cesare De Titta. Poi a casa mi mandarono a studiare all'Aquila, dove feci ginnasio e liceo, molte letture, e mi trovai all'Università. Cominciai a scrivere delle alcaiche al liceo, e una ne scrissi per il XX Settembre. Poi, letture di classici, un po' alla rinfusa, con più impegno i poeti dell'ultima "triade", ma un debole per Giosuè Carducci mi restò, anche se la poesia di Gabriele D'Annunzio la sentivo così musicalmente flautata. Pascoli fu un breve amore segreto. Letture a fiumane, coi classici Sonzogno e Le Monnier, alcuni Laterza e la "Cultura dell'anima" di Carabba. E Croce, Gentile, 'La Voce", 'Lacerba': altrettanti «amori non più ormai giovanili», se avevo toccato i vent'anni. A 'Lacerba' persino collaborai; diventando un "poeta giovine" in ventiquattr'ore. "Lacerba" infatti la leggevano tutti i poeti d'Italia, viventi dall'Alpi al Lilibeo. Eran tanti; e in ogni città di rispetto facevano le loro "piccole riviste". Ne feci una anch'io, all'Aquila con Moscardelli. E a Firenze, con Ugo Tommei. La prima: "Le pagine"; la seconda: 'Il quartiere latino". Poi la guerra. «Dopo, a Milano. Compio quest'anno i quarantatre che ci sto. Ci arrivai in un giorno di nebbia, era febbraio; i platani della vecchia stazione erano neri, e umide le strade, non tutte ancora d'asfalto. Città del nord, 'confortabile paese", scrisse, mi pare, Cardarelli. E io mi ci trovai bene quasi subito. Milano è, dopo quarantatre anni, forse la mia vera città. Mi son trovato in mezzo a quasi tutte le iniziative letterarie che dal '20 in poi vi sono sorte: dal "Convegno" all' "Esame", dalla "Fiera letteraria" (la prima) a "Corrente" (meno). Ho fatto il critico d'arte e letterario sull' "Avanti!" dal '24 al '26; poi alla "Fiera", poi al "Corriere Padano", alla "Stampa". Collaboravo anche al "Corriere". Ho pubblicato alcuni libri che testimoniano, diciamo così, il mio affetto a Milano: affetto di "immigrato", se non di cittadino, che vi trova e coltiva altri affetti, una casa, un ambiente, una società. Sono esse ora le mie realtà, ma la nostalgia è sempre per quella vallata, ed è testimoniata da questo libro. È per quei boschi, per quelle terre magre e tufacee dove di primavera fioriscono ciliegi e peschi, e gli uccelli fanno festa a mio padre agricoltore che pota le viti del colle vicino a casa. Ora, in "un giardino interno", di qui, di questa cara appiccicaticcia Milano - come diceva Leopardi - ogni tanto un uccelletto, di tra i rami di un platano, viene a cinguettare, solitario e lieto. È forse una cincia, non credo un usignolo, che arriva più tardi, a giugno. Quel cinguettio di cincia mi ricorda quello che faceva festa a mio padre che potava, beato lui, la sua vigna. lo non ho vigna; ho solo un campetto di parole, magre, e non di rado dolenti. E sono quelle che amo di più».



Secondo le notizie fornite da Bruno Renzi “Frammenti di S. Maria del Ponte” (editrice Arte della Stampa,Cannarsa, Vasto) che riporto appunto proprio dal sito di Santa Maria del Ponte :
"Giovan Battista Rosa, in arte Titta Rosa, nacque a S. Maria del Ponte (AQ) il 7 marzo 1891. Suo padre si chiamava Vincenzo, detto "'U Princepe de'la Vall"; la madre fu Antonina Pasqualacci. La moglie si chiamava Maria, cui sono dedicate le "Nove poesie a Maria". La casa natale di Titta Rosa è in fondo al "Codacchio" in S. Maria del Ponte. Quel prete che lo istruì nei primi elementi della grammatica pare sia stato Don Giuliani che in quel tempo ritirava in S. Maria del Ponte pur essendo Vicario-economico di Poggio Picenze. Titta Rosa stette al Convitto Vescovile dell'Aquila per i quattro anni del ginnasio, quindi andò a Firenze, Genova, Macerata per l'Università. Ma la maestra delle elementari fu la famosa Marchetti Marini Enrica, medaglia d'oro della Pubblica Istruzione, la quale si ricordava del suo discepolo divenuto celebre scrittore e che fu presente alla festa della sua onorificenza, celebrata presso la casa Marchetti. I suoi coetanei narrano che quando sentiva suonare la campanella della scuola Titta, trovandosi nei campi col padre o col gregge, si metteva a piangere fino a quando il genitore non lo lasciava andare. Quando tornava dalla scuola la madre subito gli consegnava uno di quei cestini dalle lunghe maniglie di paglia, tanto in uso nel paese, per mandarlo a portare il desinare al nonno Francesco Pasqualacci (giacché i Rosa vennero da Opi di Fagnano a ereditare in quel del Codacchio sposando Antonina, che fu madre di Titta, Antonio, Francesco, Elvira, Pasquale - medaglia d’argento, morto in guerra -, Maria, Arcangela ed Enrichetta, morta bambina). Una volta in campagna il piccolo Titta, che nel cesto aveva messo anche i quaderni e libri, si sedeva sopra una pietra liscia che ancora rimane in contrada "macchia" o "vignara" (che il fratello Antonio aveva poi devotamente ripulita), e faceva i compiti.

D'estate, durante il caldo, lo studio di Titta era sotto la capanna di frasche, presso il fico, in quell'orto vicino alla casa ove il padre “piantò una vigna a ottant'anni". Misurava il tempo con una meridiana solare da lui stesso disegnata rusticamente.

Titta Rosa nei suoi scritti ha ricordato sempre il padre, eppure dai racconti paesani risulta che il primo avversario alla sua vita di studente fu proprio il padre. Addirittura si dice che egli, alle volte, lo legava ai pioppi vicino all'Aterno ove si trovavano per lavori campestri pur di non farlo fuggire a scuola. Ed una volta, presso un terreno di famiglia in contrada "Convento di S. Lorenzo", il povero Titta fu addirittura bastonato dal padre e dai fratelli . Invece colei che sempre lo difese e protesse, aiutandolo in ogni modo, specie finanziariamente, fu la madre, morta molto tempo prima del padre. Il padre passò a seconde nozze con una certa donna delle Calabrie: Angela Calabrò e da questa ebbe ancora dei figli: Pasqualino, Vincenzo e Severino. Quando andò all'Aquila in Via Goriano Valli faceva ripetizione ai fratelli Gizzi Massimo e Rocco, i quali erano a pensione nella stessa via. Unica distrazione sentimentale fu una ragazza, figlia di un pastaio. Ad essa dedicò "Pause", prima poesia recitata al Teatro Comunale dell'Aquila. Tornava sempre al Codacchio e assieme a Pietro Giuliani e Berardino Carosi (colui che, assieme al fratello Americo, tentò di riscattare i diritti d'autore per il "valzer sulle onde del Danubio" , che secondo lo stesso Carosi era opera sua, organizzavano piccole recite in un salone del Codacchio. Erano sempre gli stessi che, ormai studenti e "sfaccendati" secondo le "grida" del padre di Titta, si divertivano con una vecchia fisarmonica a cantare, di notte, le stornellate. Si ha ricordo ancora di qualche strofa

"Questo cancello del mio compare:
si apre e chiude e fa cri cri".
"Rosa e Giulia, coppia amata,
noi vi portiamo la serenata.
In questa sera piena di luna
presto lisciatevi la chioma bruna".

A Milano, che per Titta era diventata la patria di adozione, abitava in via della Spiga n. 3, e da quella sua abitazione ebbe modo di conoscere e conferire con l'arcivescovo Cardinale Montini il quale, divenuto Papa, diede a Titta Rosa l'incarico di scrivere l'epitaffio, in lingua latina, per la tomba di Giovanni XXIII. Copia dell'epitaffio trovasi anche presso il Convento di San Giuliano dell'Aquila. Erano vari mesi che una malattia reumatica, con varie complicazioni, minava la sua esistenza quando la mattina del 7 gennaio 1972, moriva. Due giorni dopo ebbero luogo i funerali, presente fra gli altri il fratello Antonio e la moglie di Massimo Lelj. Titta Rosa venne sepolto in una grande "forma" del cimitero comunale di Milano, sotto un cumulo di fiori e lumi. E solo il 27 maggio 1982 le sue spoglie sono state traslate dal cimitero comunale di Milano a quello del paese natio .

Scrive ancora Titta Rosa nel volume “Sole di Lombardia ed. Ceschi

«QUESTO ERA IL SOLE DEL MIO PAESE»
“ Il sole di Lombardia non è il sole del mio paese. Quello nasceva da un colle; ma prima d'apparire sopra l'orlo del bosco a levante che la luce crescente rendeva più nera e compatto, e a ridosso del quale il mio paese biancheggiava come dentro una fresca grotta, s'annunziava con una lunga striscia dorata sulla cima della montagna di fronte.
Lassù illuminava gli alberi ritti contro il cielo, tra i quali a me pareva di vedere affacciato i briganti, in piedi, con le lunghe gambe coperte di pelle di pecora, e le,giacche di velluto verde. Mi pareva anche di vederli camminare fra gli alberi che si muovevano al vento. I paesi, le strade, le chiese di campagna, i camposanti e le icone dei crocicchi, e fin laggiù il mulino affondato tra i pioppi del fiume e la ferrovia, come un uovo in un prato, al crescere sempre più chiaro e palpitante dell'alba, diventavano bianchi, e solo i tetti restavano del color della cenere. Intanto quella grande striscia dorata scendeva giù per la montagna, finché andava a tingere di rosso la torre vecchia, sopra il paese di fronte al mio.

Era come un dolce fuoco che calava dalla montagna; e quando toccava le prime case più alte, con le loro facciate piccole e i balconetti e le finestre ancora chiusi, bagliori e lampi d'argento schizzavano qua e là, come se fosse stato stuzzicato un nido di vespe. Muggiti, canti di galli, fischi, voci umane, e ogni tanto il suono dell'orologio delle torri o quello d'una campanella di convento, partivano da un paese all'altro, per l'aria dorata.
A un tratto si facevano strani silenzi, come in attesa di qualcosa; ma nessuno ci badava, bisognava stare affacciati a un balcone, a guardare i paesi sparsi sui due fianchi della vallata, e a seguir con l'orecchio quei rumori, fischi e Muggiti, per potersene accorrere. Essere cioè un signore ozioso, o un ragazzo facile a stupirsi; e inventare, con in bocca ancora il sapore del sonno, il passo, le facce nere e magre, le giacche di velluto con le tasche profonde dietro la schiena, e lo schioppo carico a palle di lupo: quelle figure che, ritte tra gli alberi che toccavano il cielo, prima di rinselvarsi, mandavano un'ultima occhiata sui tetti del loro paese, per cercar quello della loro casa, dove i loro figli avevan dormito tra i carabinieri appostati dietro l'orto.
Il ragazzo se l'era forse sognate quelle figure; e ora, in quell'aria di prima mattina che mandava in bocca il fresco dell'erbe e della guazza, gli pareva di rivederle. Il sole intanto s'avvicinava al fiume. E sempre in quel momento si vedeva venir su dal fondo della valle, lungo i pioppi che si impennacchiavano all'improvviso d'un fumo bianco come la bambagia, il primo treno della mattina.

Saliva stantuffando tra ombra e sole, perché la ferrovia serpeggiava quasi come il fiume che le luccicava accanto. Pareva un lungo bruco tra i pioppi, a vederlo da distante; ma riempiva col suo strepito tutta la vallata, e lasciava nell'aria un acre puzzo di fumo, che strisciava tra gli alberi e pei campi come una nebbia maligna. I contadini dicevano che quel fumo faceva nascere i vermi nelle ciliege.
Quando il treno passava tutti sapevano ch'erano le sette; le donne nelle case preparavano la prima colazione per gli uomini che van dall'alba alle vigne o ad arare. E poco dopo suonava la scuola. Il sole aveva passato il fiume con un salto, e nessuno se n'era accorto. Il ponte con l'icona a fianco, le grandi querce al lato della strada, le grotte dove si trovava il salnitro, un campo di lino steso come una coperta azzurra: tutto era entrato nel sole quasi in un momento.
Ed ora veniva su per la costa, rapido e silenzioso, avvolgeva la chiesa; e a questo punto dilagava di fianco, come un torrente che ha rotto gli argini, fluiva tra le fratte, scorreva sul grano ancora verde, dorava gli orti, andava a far luccicare le strisce delle lumache sui sambuchi e le canne.
E toccava col silente tepore d'un gatto la pietra e il ferro del balcone, e le mie mani e le mie vesti. Portava un odore di frutta, forse di pesche, e di spighe e d'acqua, mescolato; m'accarezzava la fronte sempre più forte e deciso, costringendomi a chiudere gli occhi.
Questo era il sole del mio paese, il sole che più mi ricordo. E come accade nei ricordi, è un sole senza tempo, ma forse nel principio dell'estate, vicino a qualche festa, che mi era consentito di tornare per quel giorno dalla città. 0 forse è un sole più antico, perché mi sembra di rivederlo sulle lane del gregge che passava, di prima mattina, sotto la strada di casa, con un calpestio fitto e smorzato come una pioggia di primavera.”

Titta Rosa rappresenta una figura di grande rilievo nel panorama letterario italiano del '900. Saggista, narratore, giornalista, poeta, critico d'arte e letterario, si esprime in un copioso e fortunato lavoro editoriale i cui titoli di eccellenza, o se vogliamo gli scritti di più ampia notorietà, sono conosciuti, dal Sole di lombardia, da I lumi a Milano, da Aria di Casa Manzoni e da Il nostro Manzoni.
Fu autore di poesie, raccolte in Poesie di una vita, e di prose di lieve lirismo, come Il varco nel muro e Niobe e il pittore. Studioso del Manzoni, fu autore di commenti dei Promessi sposi e delle poesie manzoniane.
Scrisse quindi
• I Giorni del mio paese, ?
• Invito al romanzo, 1930
• Il varco nel muro, 1931
• Aria di casa Manzoni, 1946
• Secondo ottocento, 1947
• Poesie di una vita, 1956
• Sole di Lombardia, Milano 1959
• Cinque abruzzesi e alcuni paesi d'Abruzzo, 1970
• Vita letteraria del Novecento, 1972
• Prima antologia degli scrittori sportivi, curato con F. Ciampitti (1934), ristampa Arezzo
• I lumi a Milano, (storia dell'illuminismo) editrice Giunti, Firenze

Giovanni Titta Rosa racconta dunque la sua terra : il Sirente,l’Aterno, il mondo contadino, le storie della sua infanzia,la montagna abruzzese. Costretto ad emigrare, come tanti, mantenne i legami con il suo Sirente attraverso pagine originali e creative contenute nella sua opera. E’ stato uno dei pochi letterati aquilani dello scorso secolo che ha lasciato traccia di sé in questo mondo della montagna abruzzese occupando, per altro verso, un posto non secondario nella letteratura, nella cultura e nella saggistica umanistica.
La memoria della sua terra è sempre lo sfondo elementare e semplice delle sue emozioni di poeta:
“Aerei colli
modellati dal vento
il cielo vi contempla tranquillo…”
esprimendo e comunicando quel filo dell’esistenza come avviene in “ Paese” o come in A mio fratello in questo settembre”:

“Cogliamo grappoli di uva moscatella
e all’ombra di una fratta ci allunghiamo.
C’è sopra la giornata chiara e bella
e noi con occhi casti la guardiamo.
Stasera insieme andremo a dormire
l’uno accanto all’altro,calmi a respirare…
Ma perché ha scelto di morire
Sulle pietre dell’Ortigara?”
I luoghi, i gesti quotidiani, gli oggetti che compongono la realtà che lo circonda di cui sono l’essenza a volte sembrano esplodere.
Un’esplosione mediata dall’emozione che scatena gioia e dolore, rimpianto e accettazione.
Tutto dentro, dopra e di fronte alle montagne che dove appaiono sono simbolo di illuminazione e di rinascita.
In “Cime” la montagna è una vertigine, un’armonia:

“Ghiacciato mattino di vette,
nuda anima di cristallo:
verginità di forme schiette
alte sulle valli spalmate di giallo.

S’alza il sole sullo scintillio
miracoloso di questa purità
come un glorioso iddio
nella nebbia che si disfà.

Ci tocca le mani pure,
ci sfiora vergine il viso
e sulle distese pianure
il giorno è un arco di sorriso.

Piantati su questa altezza
sereni in semplicità,
sorridiamo alla nostra bellezza
come a un’impensata rarità.

Sotto il tuo piede d’alpino
crocchia la neve gelata,
ma l’azzurra corona del mattino
la limpida fronte ci ha fasciata.

La nostra giovinezza
è un prisma diamantino d’aria:
ci scaldiamo alla nostra ebbrezza
come ad una fiamma millenaria.

Perché discendere, fratello,
- mi dici – da questa serenità?
La terra è un opaco fardello
di dolorosa pietà.”

:
Scrive allora Sandro Cordeschi di questa poesia:
“ Un’analisi stilistica del testo, condotta con rigore,non mancherebbe di mettere in evidenza come la scrittura di Titta Rosa ,per quanto non priva di accorgimenti stilistici che rivelano lo studio attento della tecnica poetica, non raggiunga se non di rado quella intensità espressiva che è caratteristica della grande poesia.

Il nucleo emotivo dei versi, tuttavia, viene comunicato con forza: la montagna offre la misura di ogni valore positivo dell’esistenza, è al tempo stesso liberazione da una realtà contaminata e lontana dall’origine e rifugio contro la pena che il vivere quotidiano inevitabilmente porta con sé; è lo strappo nelle maglie della rete che ci stringe,lo sguardo teso all’infinito dello spazio e del tempo.
L’esperienza dell’altezza è quindi il momento in cui l’essere umano re-inventa la propria realtà,attingendo la possibilità di una conoscenza in forma mitica od onirica del proprio esistere. Il rapporto tra l’ideale e il reale acquista una dimensione legata all’umano ,anche se inteso nelle sue manifestazioni estreme. La montagna “ esiste”,è un’esperienza mitica che può essere vissuta anche a livello sensoriale:la vista, il tatto , l’udito sono coinvolti, allo stesso modo dell’anima.. La montagna è un sogno , che ci viene rivelato però dagli occhi e dagli altri sensi. L’intelletto dal canto suo ,partecipa alla scoperta di una dialettica solo in apparenza banale: quella tra la cima (“il miracolo”) e il piano (“l’opaco fardello”). Tra i due estremi corre un rapporto di interdipendenza necessaria: La quotidiana “pietà” rende infatti l’ebbrezza dell’esperienza straordinaria,il peso della terra fa da contraltare alla gloriosa divinità del sole. L’ascesa verso la cima realizza il desiderio dell’altrove senza peraltro risolversi in uno sterile tentativo d’evasione: la terra è presente alla mente dell’uomo che guarda dall’alto,il quale non ha perso ,nel momento in cui raggiunge l’intuizione della gioia,la “ cognizione del dolore”: La cima resta ,deve restare una realtà “ diversa” ma confinata all’attimo : la discesa non può essere evitata…”
E continua più avanti Sandro Cordeschi: …” l’arte di Titta Rosa non è da ritenere scontata,o innocua: la sua peculiarità non è il bozzetto veristico,che nulla vorrebbe aggiungere alla mera raffigurazione dell’oggetto…. La montagna ( come nel testo che segue) si carica di una valenza simbolica, che la rende segno di determinate esigenze psichiche ed espressive e che può travolgere ,seppure temporaneamente,le regole acquisite del vivere comune…”
Infatti leggiamo questo testo:
“…Da Teramo ,dal bellissimo Duomo,raccolta in una conca verde ,il Gran Sasso si vede più vicino che da ogni altra città abruzzese. Nelle giornate limpide è lì,quasi a ridosso : bruno, ferrigno,corso da rughe di canaloni. Ma l’inverno è un enorme ,altissima, candida muraglia con la testa coronata di nuvole…
E il Gran Sasso come si saliva verso la città, si mostrava lassù lontanissimo,con la sua ardita punta scagliata al cielo; il Corno Grande ,ferrigno d’estate,candido d’inverno…
Ma s’era al primo autunno ,il Monte Corno,e l’immenso contrafforte sul quale esso si eleva come una parete gigantesca aveva un colore bronzeo,che la distanza velava di una lieve tinta viola. Dall’altra parte di scorgeva il Sirente,protese con un’enorme selce aguzza sul nero delle boscaglie,coi canaloni biancheggianti di neve come quelli del Gran Sasso. E laggiù,alle nostre spalle tra le brume lievitanti all’orizzonte, il lontano massiccio della Maiella,detta,dannunzianamente, la montagna madre delle genti d’Abruzzo…”
Giuseppe Porto nel primo numero della rivista Misura ,Rassegna trimestrale di Abbruzzesistica,da lui diretta per molti anni e pubblicato nel 1977 dopo aver ricordato la nota biografica dettata dallo stesso Titta Rosa in Ritratti su misura, mette in evidenza il vaolore del Titta Rosa come poesta continuando testualmente:
“…Breve fu la sua esperienza futurista: come tale fu lui ad accogliere a L’Aquila, insieme a Moscardelli , F.T. Martinetti e L. Folgore. Né va dimenticata la sua collaborazione a Solaria , alla Fiera Letteraria di cui fu uno dei fondatori, all’Osservatore politico letterario di cui redattore capo ,diresse anche l’Illustrazione Italiana e Omnibus.
Quanto a Le pagine, esse vanno nell’edizione aquilana dal giugno 1916 al novembre 1917.

Il volumetto di poesia Pause apparve a L’Aquila nel 1914 ( il poeta aveva 23 anni) per i tipi dell’ed, Secchioni,quando già Moscardelli ( Ofena 1894- Roma 1943) aveva pubblicato La Veglia ( 1913) e dava alla luce nel 1914 Abbeveratoio.
Giovanni Titta Rosa è il poeta degli itinerari intellettuali ed esistenziali ,delle trasfigurazioni del reale operate in un’aria di estrema limpidezza e nell’avventura delle riscoperte. Egli si accosta alle poetiche ,alle correnti e alle voci varie e numerose del primo Novecento , che assorbe e rivive con una partecipazione totale.
Già in Pause il paesaggio, il cielo di settembre, l’aria chiara , la voce della natura, il profumo dei balconi della città dei suoi studi ,L’Aquila, vibrano d’una luce tersa liricamente avvertita. Nelle solitudini domenicali dei vari passaggi ,la città diviene un dolce nido su cui trascorrono lente le ore dell’amore: presagio di ciò che passa perdendo ogni sapore ,presagio di vie lontane. Nella sonnolenza dei lunghi pomeriggi meglio risalta la staticità muta dei muri,rifiuto dell’orgia immaginifica dannunziana,già allora, rifiuto di ciò che può sonare melodico , e preferenza dei temi che propone la vita vissuta, con le sue offerte di stupori ,ma anche di banalità e assuefazioni; visione, questa, che trova il suo sviluppo nelle raccolte che seguiranno: Le immagini della morte e della vita (1916) Plaustro istoriato (1919),Le feste delle stagioni ( 1928) Alla Luna (1935) Pietà dell’uomo (1952) Poesia di una vita (G. Ravegnani) –Premio Chianciano 1957,La voce solitaria (1965) e Nuove poesie a Maria….”
Dal primo numero di Misura dunque trascriviamo le poesie che seguono:

CIELO DI SETTEMBRE
O cielo di settembre, stamattina
hai un odor di pesche fini e bionde
e il tuo sole di seta si diffonde
roseo come un sorriso di bambina.

Ho gli occhi vivi e il cuor pare un uccello
che canti tra i profumi d’un giardino
ed il mio corpo è così fresco e snello
immerso in questo palpito azzurrino !

Bacio il respiro di quest’aria chiara
come una bocca rosea che ha cantato
e vo così,con la mia vita ignara
che non ha sogni e che non ha passato;

e gitterei l’anima mia per nulla,
come un fiore di campo ,in questa lieve
musica mattutina che si culla
nel sorriso più limpido e più breve.

DOMENICA PROVINCIALE
Domenica provinciale….
c’è un sole un po’sbiadito
e il ciel pare sfiorito
come se stesse male.

Le strade un po’ noiate
son bianche, sotto il sole
e si sentono sole
anche se popolate.

Gli alberi dei viali
paion quasi assonnati
…passeggian i soldati
passano i collegiali…

Se facessi l’amore
vorrei il tuo dolce nido
dove tace ogni grido
e passan lente l’ore…

passeggiar per le vie
più solitarie e bianche
e addormentar le stanche
mie grige nostalgie.

Fermarsi a contemplare
due bimbi e una servetta
sottile che civetta
col goffo militare,

e guardar la gente
e sentirsi nel cuore
come un triste sapore
che ha sapore di niente…

domenica provinciale
così così così
eguale eguale eguale
fino all’ultimo dì



Eremo di Via Vado di Sole L’Aquila, Domenica 24 gennaio 2010

Nessun commento:

Posta un commento