giovedì 4 febbraio 2010

A CANTARE " LU SANT'ANTONIE"



A Sulmona tra Porta Napoli e la Chiesa di S.. Francesco non è agevole oggi trovare la Cappella di S. Antonio Abate,quasi una edicola con immagine del santo , cancello e tettoia spiovente. Una volta era in aperta campagna. Oggi la piccola costruzione scompare al limite della strada dov’è situata, inglobata tra un distributore di benzina e un enorme edificio..
Di proprietà della famiglia del mio amico Romeo Caroselli era meta di passeggiate fuori porta sulla strada per il Ponte Nuovo.
Il 17 gennaio di ogni anno sul piccolo campo antistante la cappella, ai margini della strada statale si svolgeva la benedizione degli animali.
Era il giorno della festa di Sant’Antonio Abate a cui la devozione popolare affidava la protezione degli animali ,una festa affascinante. Per noi ragazzi accendere i fuochi , veder sfilare gli animali e partecipare poi alla cantata, una sorta di rappresentazione teatrale ,era veramente una festa.
L’appellativo di protettore degli animali probabilmente trae origine da raffigurazioni pittoriche medievali di questo santo eremita.
Sant'Antonio Abate ha rappresentato una delle figure principali della religiosità popolare. Venerato come protettore degli animali ( la sua immagine si trovava un tempo in tutte le stalle ), viene invocato per la salute del bestiame domestico e del corpo, specialmente contro il «fuoco di Sant'Antonio».
Il 17 gennaio nella cultura contadina è un giorno fondamentale che indica l’inizio del calendario delle opere da compiere e i lavori da eseguire nelle campagne . Il giorno della festa continua ad esser un "giorno di fuochi", e la memoria che vince l'oblio torna a raccontare ai più piccoli e a ricordare ai più anziani, usi e costumi delle comunità di un tempo, perché non se ne smarrisca definitivamente il significato e la bellezza.

L’iconografia associa a Sant’Antonio Abate il bastone a T, tau, e un maiale. Secondo gli studiosi, all'inizio si trattava di un cinghiale, attributo del dio celtico Lug, venerato in Gallia ma che compare anche nelle saghe irlandesi, ritratto come un giovane che tiene tra le braccia questo animale. Lug era il dio del gioco e della divinazione, era colui che risorgeva con la primavera, figlio della Grande Madre celtica cui erano consacrati i cinghiali e i maiali come alla romana Cerere. I celti lo tenevano in gran conto, tanto è vero che portavano l'emblema di un cinghiale sugli stendardi e il simbolo sugli elmi. Non solo, sui corti capelli stendevano una poltiglia di gesso perché, irrigidendosi, rassomigliassero alla cotenna dell'animale. I sacerdoti celtici, i druidi, erano chiamati Grandi Cinghiali Bianchi, nelle leggende si racconta della caccia al cinghiale immortale per togliergli un pettine e una forbice che si trovavano fra le sue orecchie. Poiché le reliquie del santo erano giunte in Francia, i primi cristiani celti trasferirono nel santo gli attributi del dio pagano e nelle leggende di sant'Antonio abate ecco che s'inserisce il cinghiale, diventato poi maiale per estirpare il ricordo precristiano.Nascono due leggende per cristianizzare gli emblemi, la prima racconta che il cinghiale-maiale fosse il diavolo sconfitto da Antonio resistendo alle tentazioni, la seconda dice che un giorno il santo guarì un maialino e da quel momento questi lo seguì fedele come un cane. E il maiale diventò un privilegio dei Fratelli Ospedalieri di sant'Antonio, fondati nel 1600, che potevano allevarlo per nutrire gli ammalati che accorrevano alla chiesa di Saint-Antoine-de-Viennoi a alla Motte-Saint-Didier, dopo che si era sparsa la voce che attribuiva al santo la facoltà di guarire l'herpes zoster, grazie al suo dominio sul fuoco, poiché si racconta che sant'Antonio abbia rubato, con l'aiuto del suo maialino, il fuoco dell’inferno.

L’herpes zoster è una infezione ai nervi chiamata volgarmente “ fuoco di Sant’Antonio” che si estende ad alcune zone della pelle provocando un'eruzione dolorosa di vescicole che in seguito formano una crosta, con il dolore che può perdurare per mesi o addirittura per anni. Anche dopo la guarigione dell'eruzione cutanea è malattia difficilissima da curare. Tanto che, spesso, sono gli stessi medici a indirizzare i pazienti verso cure "alternative".
I guaritori del fuoco di Sant'Antonio sono in tutta Italia, la loro sapienza ha diversi modi e rituali ma, pare, la stessa efficacia.
Alcuni si sentono dei predestinati, come in alcune zone della Toscana, dove, per poter curare, bisogna essere l'ultimo di sette figli, tutti maschi o tutte femmine, e non c'è possibilità di tramandare questa capacità a nessuno: è qualcosa che uno ha già al momento della nascita o non potrà avere mai. Naturalmente, con queste condizioni, era più facile trovare un guaritore anni fa piuttosto che oggi e ormai la "virtù", questo segno del destino, dovrebbe essere in mano a pochi. Ma quei pochi sanno che non possono sottrarsi, rifiutare non si può. Allora al malato con pazienza si ripetono i segni della croce quattro, cinque volte, fino a quando si "sente" che si deve smettere. Poi si ricomincia dopo mezz'ora, e poi ancora e ancora, fino a stremare il male, prima che il male non stremi il paziente, o il guaritore.

Ma il fuoco che è fuori è anche dentro e allora in Basilicata, per curarlo, si prende il sambuco (le foglie se è estate, gli steli se è inverno), si fa bollire, e si fa bere l'acqua al malato; poi, con l'acqua che resta, si fanno gli impacchi. Ma non basta, ci vuole anche l'altra cura. Per tre martedì di seguito (il martedì è il giorno di S. Antonio) si accende un fuoco, si mette il dito nella cenere e si ripete questa formula: "S. Antonio venisti, tredici grazie facesti, dispensane una a quest'anima di Dio, spegni questo fuoco a quest'anima di Dio". Infine si prendono tutte le braci, si spargono per strada e si ricomincia la litania: "Come si spegne questo fuoco in mezzo alla strada, spegni questo fuoco a quest'anima di Dio. Tu sei il patrono del fuoco. La virtù è tua e non mia
Il fuoco, comunque , elemento maschile e simbolo di forza vitale, purificatrice e propiziatoria, è il protagonista della notte di Sant’Antonio abate, con i falò che scaldano e illuminano le campagne. Bruciando, come vuole la tradizione, scatenano energie positive che distruggono il male e sconfiggono la paura, e annunciano il passaggio dal buio delle giornate invernali alla luce della rinascita primaverile. Ogni anno, il 17 gennaio, rivive uno dei più sentiti riti del mondo contadino, che un tempo dall’inclinazione delle fiamme traeva presagi sull’andamento dell’annata agricola.
Lo spirito di questa antica festa contadina resiste anche a Pescocostanzo,e i ragazzi la sera della vigilia si mascherano con allegria per continuare a farla vivere. Girano, i giovani cantori, per le strade cantando vecchie canzoni che narrano la lotta tra il Santo e il Demonio, facendo la questua.Il giorno 17 al mattino la giornata inizia con l'accensione di un grande falò in Largo Porta Berardo, ai piedi della scalinata che conduce al "Peschio" su cui c'è l'antica chiesa dedicata al Santo e dove si tiene messa solenne alle 11.00. Nel pomeriggio, alle 17.00, in piazza Municipio l'apertura degli stand gastronomici a cura della Pro Loco; a quell’ora anche al Capocroce sarà pronto il fuoco degli “amici di Sant’antonio".. Quando è notte - dopo i Vespri delle 18,00 - in piazza Municipio ci sarà il lancio dei "palloni" (mongolfiere). Dal volo di questi palloni (uno per ogni mese, sull'ultimo c'è l'effige di Sant'Antonio Abate) i contadini traevano un tempo previsioni per l'anno che iniziava. La notte di Sant'Antonio, come sempre, a Pescocostanzo sarà più lunga e la festa "brillerà" di suoni, canti, vino e banchetti intorno ai fuochi.

Tanti piccoli centri si animano già prima e la gente dei luoghi prepara mucchi di legna o colonne di canne che, una volta accese, rischiareranno scorci e piazze, daranno luce a facciate di palazzi e chiese nei tanti borghi abruzzesi: i "fuochi di Sant'Antonio". Un elemento tradizionale e fondamentale della festa del Santo, riconosciuto come colui che vinse i diavoli e le fiamme dell'inferno. Enormi cataste di legna, dette in Abruzzo "focaracci" e "focaroni”.
Dove si tiene la processione quando la statua di Sant’Antonio Abate appare sulla porta della chiesa e si agita il suo bastone per far tintinnare il campanello, oppure dopo l'aspersione con l'acqua santa, ha inizio una tipica cavalcata. Il sacerdote che presenzia la processione riceve un'elemosina e poi distribuisce i “ pani di S. Antonio”, ritenuti, miracolosi per la guarigione degli animali.
Nel mondo contadino l’ immagine di Sant’Antonio veniva appesa ai muri di tutte le stalle . La devozione popolare per questo santo è dovuta, in realtà, ad un errore dell’interpretazione iconografica, riconducibile al fatto che la fantasia popolare ha la tendenza a materializzare i simboli: nel primo periodo, infatti, Sant’Antonio veniva rappresentato in lotta con i diavoli, rappresentati in varie forme di bestie, o simboleggiati dal maiale.Nel medioevo, le comunità allevavano a spese di tutti un porcellino, che poi veniva ucciso l’anno seguente, in occasione della festa del Santo, devolvendo tutto il ricavato ad opere di bene.
Questa tradizione è ancora viva ad Alfedena e in alcuni altri paesi dell’Abruzzo .
Per la cultura agro-pastorale gli animali quali asini , cavalli, muli, mucche pecore ma anche cani e soprattutto il maiale erano un mezzo di aiuto nel lavoro e di sostentamento della famiglia.

Ma il protagonista di questa festa non è soltanto un cocciuto abate eremita ma anche un demonio sfortunato che appunto interagiscano nella scena di sacre rappresentazioni cantate. Queste che come afferma Adriana Gandolfi traggono “ origine dal vasto repertorio del teatro sacro medioevale e dalle successive commedie dei santi di origine spagnola ,raccontano in forma melodrammatica la vicenda di Sant’Antonio nel deserto e le tentazioni subite ad opera del demonio.” In realtà Antonio abate è uno dei più illustri eremiti della storia della Chiesa. Nato a Coma, nel cuore dell’Egitto, intorno al 250, a vent’anni abbandonò ogni cosa per vivere dapprima in una plaga deserta e poi sulle rive del Mar Rosso, dove condusse vita anacoretica per più di 80 anni: morì, infatti, ultracentenario nel 356. Già in vita accorrevano da lui, attratti dalla fama di santità, pellegrini e bisognosi di tutto l’Oriente. Anche Costantino e i suoi figli ne cercarono il consiglio. La sua vicenda è raccontata da un discepolo, sant’Atanasio, che contribuì a farne conoscere l’esempio in tutta la Chiesa. Per due volte lasciò il suo romitaggio. La prima per confortare i cristiani di Alessandria perseguitati da Massimino Daia. La seconda, su invito di Atanasio, per esortarli alla fedeltà verso il Conciliio di Nicea. Nell’iconografia è raffigurato circondato da donne procaci (simbolo delle tentazioni) o animali domestici (come il maiale), di cui è popolare protettore
“Cantare lu Sant’Antonio” assumeva nella cultura popolare un alto valore in quanto in chiave umoristico-burlesca il demonio diventa un folletto dispettoso intento a molestare il santo. Al termine dalla rappresentazione il demonio viene trafitto dal santo con una spada portatagli dall’Arcangelo Michele.
Con questa rappresentazione burlesca il mondo contadino dava inizio ai festeggiamenti del carnevale. La festa assume varianti a secondo del territorio abruzzese in cui si svolge. In alcune versioni “ riscontrate soprattutto nella zona interna collinosa e pedemontana della Maiella, nella rappresentazione è presente anche “la dunzelle”,un uomo vestito da donna: il diavolo stesso che si traveste per tentare la castità di S. Antonio.”
La rappresentazione veniva effettuata durante la settimana precedente il 17 gennaio, festa del santo, e si andava casa per casa e il gruppo mascherato, chiamato “Compagnia di Sante Anttò” recitava la lotta vittoriosa del santo contro il demonio . In cambio si ricevevano doni in prodotti alimentari. Era una specie di rito come quello venuto di moda di recente per la notte della festa di tutti i Santi , importato dall’America, notte in cui i bambini visitano le abitazioni dicendo soltanto la povera formula “ dolcetto o scherzetto”
La cantata era invece una vera e propria forma d’arte che partendo dall’arcaica matrice primitiva del canto lo aggiornava, lo adattava, lo faceva rivivere attualizzandolo anche attraverso la gestualità, attraverso le musiche , sempre attraverso quel senso corale di incontro della comunità locale.



Collaborazione all’impaginazione del post Grazia Marcone.Le immagini dei santini appartengono alla collezione di Valter Marcone .
L’Aquila .Eremo di Via Vado di sole,Sabato 17 Gennaio 2010

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