
BIBLIOFOLLIA : Le mosche del capitalismo
Seppure desaparecido dai banchi delle librerie per diversi anni e molto meno citato di quanto meriterebbe, Le mosche del capitale è, forse, il libro più bello di Volponi, sicuramente il più estremo, sicuramente una delle punte più alte della letteratura del secolo scorso e questo per almeno due motivi: da un lato la prosa di Volponi, ricchissima, irta, acuminata, un doppio fondo della lingua in cui la potenza metaforica non si esaurisce nella trama (peraltro non ingombrante, ché Le mosche è sostanzialmente un’operetta morale) ma si riverbera in ogni parola. Dall’altro lato la rappresentazione sospesa tra sociologia e grand guignol del capitalismo italiano. La fabbrica, l’industria, la lotta personalissima di Bruto Saraccini, manager e intellettuale umanista, vero e proprio alter ego dell’autore, lo snobismo di una classe dirigente al collasso e lo sguardo duro e malinconico sugli ultimi operai fordisti. Come dicevamo, Le mosche del capitale esce nel 1989. volponi lo scrive un attimo prima che un intero mondo si polverizzi. Le mosche profetizza già quella polvere, la mette in scena come fosse una medievale danza macabra e, nel suo coro spastico e visionario, accorda la possibilità della parola a tutti, ma proprio a tutti, non ultimi i simboli più frivoli del potere: le valigette dei capitani d’industria, le loro ampie e comodissime poltrone, le piante che arredano l’ufficio e anche la luna, il cui sguardo abbraccia mestamente questo orizzonte decomposto.
Oggi più che mai un autore come Paolo Volponi è fondamentale. Portatore di un’idea massimalista, mai conciliante, di letteratura, Volponi è un antidoto alla banalità. I suoi grandi romanzi, ricchi di pensiero e visione, svettano misteriosi e durevoli come il monolito kubrickiano. Sono (erano) eloquenti segnali di crisi e insieme concrete opportunità di rinascita.”
Un libro quasi premonitore della realtà odierna Ecco che cosa racconta Luca Doninelli in chiave chiaramente autobiografica
C’era però anche molta permanenza dell’antico. E non poteva essere altrimenti. C'era per esempio L’Unità che faceva da ponte tra le generazioni. I giovani scrittori di quell’area ideologica si interessarono ai vecchi della stessa area, anche se sovente i vecchi si sentivano ugualmente tagliati fuori, e forse volevano anche starsene fuori. La sinistra doveva modernizzarsi, ma per modernizzarsi era costretta a perdere dei pezzi per strada. Paolo Volponi fu uno di questi pezzi.
Pubblicato nel 1989, Le mosche del capitale è pieno di paure del 1989, di scricchiolii del 1989, di profezie del 1989, ma i suoi paesaggi, l’aria che vi si respira e soprattutto il pensiero - complesso e articolato - appartengono alla metà degli anni Settanta.
Il libro racconta, attraversando un gran numero di generi letterari come stratificazioni geologiche o qualcosa di simile, la vicenda di un qualunque Bruto Saraccini, uomo d’azienda geniale e dalle idee innovative, salito ai vertici dell’azienda fino al grado di amministratore delegato ma poi messo da parte in favore di un più grigio e ligio funzionario.
Quasi tutto ambientato nel mondo dell’industria (si riconoscono distintamente la Olivetti, dove Volponi lavorò per molti anni, e la Fiat), il romanzo disegna un ritratto magistrale dell’industria e dei suoi giochi di potere come metafora, chiave di lettura dell’intero complesso della società industriale - o fordista, come si preferisce dire oggi.Rileggendo questo grande libro, da me ignorato a quel tempo, provo vergogna per l’elementarità delle mie narrazioni di allora al confronto con tanta articolazione di pensiero (anche letterario) e di struttura. Mi colpisce però anche un’altra cosa: che, di fronte al nuovo che avanzava (nel 1989 si parlava molto di nuovo che avanza, e ci si credeva), uno scrittore sperimentale e quindi votato al nuovo come Paolo Volponi cercasse una chiave di lettura narrativa della complessità sociale guardando all’indietro, agli anni dello scontro frontale tra capitale e sindacalismo, tra padronato e proletariato, tra custodia dell’ordine e sovversione.
La metafora della fabbrica, con le sue trame e il suo istinto di conservazione capace di trasformare un manager innovatore (Saraccini) in un sospetto terrorista e un operaio in cerca di giustizia (Antonino Tecraso, protagonista-ombra del romanzo) in un sovversivo, ci presenta la società industriale all’inizio del suo sfacelo, quando il sogno di dare più ricchezza al mondo si trasforma in un labirinto in cui ciascuno combatte solo per sé stesso (sono loro, le mosche del capitale) e in cui l’uomo non conta più niente.
Ma la dissoluzione, che già si profila nelle pagine di Volponi, toglierà al lavoro ogni parola. Chi, oggi, in Italia, tra gli scrittori più quotati, sa ancora parlare di lavoro? Chi ha le categorie per affrontarne i nodi? Alla vecchia dottrina estetica marxiana del rispecchiamento si sono sostituiti l’affabulazione, l’intrattenimento e la ghettizzazione della letteratura nel pollaio dei divertimenti e del tempo libero. Si è sostituito un pensiero che pensa separatamente dal «fare», un pensiero del dopolavoro, sentimentale, senza strumenti davanti alla notte che avanza.
FONTI :
Fabio Orrico su http://www.scrittinediti.it/blog/2010/12/16/le-mosche-del-capitale-ovvero-il-ritorno-di-un-capolavoro/
Il Giornale martedì 06 luglio 2010,
"Le mosche del capitale": quando romanzo faceva rima con lavoro


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