giovedì 29 marzo 2012

AUTODAFE' : Giocando con il velo di Maya

AUTODAFE'  :  Giocando con il velo di Maya

Vi è mai capitato di svegliarvi e di trovarvi negli occhi brandelli di sogno?
Immagini nitide che se stropicci il naso contro il cuscino rimangono comunque lì, a sussurare con insistenza la loro verità, la loro evidente realtà?
Che fare, allora? Se vi chiamaste Chuang-tzu, dopo una densa notte in cui eravate farfalla-danzante-del-colore-dei-sogni-e-dell’arcobaleno, al risveglio non sapreste più se siete uomini che hanno sognato di essere farfalla o farfalle che si sognano uomo.
La favola del filosofo d’Oriente che si pensò farfalla viene evocata durante un memorabile ciclo di lezioni sulla natura della parola poetica (sono gli anni ’60 del secolo scorso, ci troviamo ad Harvard) dall’argentino Jorge Luis Borges (1, pag. 32).
Per tutta la sua vita di uomo e di scrittore Borges non fece altro che domandarsi se fosse uomo o farfalla; ma fu l’interrogarsi di un poeta, non di un filosofo. Vediamo perché.
C’ è un racconto di Borges, nell’antologia Finzioni (2, pag. 36), in cui il protagonista impegna la sua intera esistenza in un esperimento poetico che sembra varcare i limiti di ciò che è razionale lecito all’uomo: poichè ogni uomo dev’essere capace di ogni idea (2, pag. 46), l’artista Pierre Menard sogna di scrivere una seconda volta il capolavoro di Cervantes, di creare un’opera identica all’originale rimanendo però Pierre Menard, senza perdere nulla della sua individualità. Menard ha in fondo intuito la verità del filosofo Schopenhauer: sa che ogni essere umano è in potenza ogni altro, in quanto in grado di travalicare la sua finitezza che è un carcere di determinazioni, di “qui”, “ora” e di “perché”; l’ha intuito, ma si rifiuta di limitarsi a un tentativo di  dimostrazione teologica o metafisica. La differenza è questa – scrive Borges/Menard (2, pag. 41) – che i filosofi pubblicano in gradevoli volumi le tappe intermedie del proprio lavoro, e io ho risoluto di cancellarle.
Gli otto racconti che compongono la prima sezione di Finzioni (intitolata Il giardino dei sentieri che si biforcano) sono l’esplicitazione poetica dei dubbi “metafisici” dello scrittore riguardo al reale; si tratta dell’aspirazione “menardiana” a pensare vivendo e a vivere il pensiero nella scrittura.
Ma cos’ è per Borges finzione?
Se ascoltiamo alle parole di un critico letterario che lo conobbe in vita, Domenico Porzio, scopriamo che per Borges non si dà altra letteratura che non sia fantastica: lo stesso tentativo naturalistico di afferrare una realtà che non esiste (che non esiste in quanto non può essere oggetto di una conoscenza certa da parte dell’uomo), per trasferirla nell’inesistente realtà della pagina mediante l’uso di una scrittura soggettiva, è un’operazione “fantastica” (3, pag. xc).
“Finzione” è dunque ogni forma di scrittura. In questo senso (che rispecchia l’origine etimologica del termine: dal latino fingere, plasmare) “finzione” è ogni creazione umana di un poeta-artefice, condannato al grido universale che rivive il protagonista del racconto borgesiano L’Aleph (4, pag. 897): Arrivo, ora, all’ineffabile centro del mio racconto; comincia, qui, la mia disperazione di scrittore. Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gli interlocutori condividono; come trasmettere agli altri l’infinito Aleph, che la mia timorosa memoria a stento abbraccia?
“Finzione” è il linguaggio, è l’universo di teorizzazioni sull’Universo che da esso scaturisce: È arrischiato pensare che una coordinazione di parole (altra cosa non sono le filosofie) possa somigliare all’universo scrive il poeta, in un saggio appartenente alla raccolta Altre Inquisizioni, dall’originale titolo Metamorfosi della tartaruga (5, pag. 114). O, con formula più sintetica, in altro luogo fa balenare il dubbio che la metafisica sia un ramo della letteratura fantastica (6, pag.16).
Ma se ogni sforzo conoscitivo, ogni tentativo di costruzione sistematica di una teoria sul reale, e infine ogni creazione letteraria non può dar vita che ad un moltiplicarsi di finzioni; se per quanti sforzi noi facciamo rimaniamo comunque intrappolati nell’immanenza (nel nostro essere-al-mondo, nel nostro essere per natura finiti) di uno scetticismo che nega la possibilità di uscire dalla parvenza (il “velo di Maya” che per Schopenauer ci impedisce di conoscere la realtà) perché dovremmo continuare a domandarci se siamo uomini o farfalle?
Perché Jorge Luis Borges ha continuato a scrivere?
La risposta è che, paradossalmente, costruire parvenze, “ficciones” (giocare in fondo un gioco in cui letteratura e metaletteratura sono una cosa sola), è forse l’unico strumento per sfiorare la verità più profonda del nostro essere uomini … l’unico modo per non abdicare ai noi stessi e alla nostra infinita ricerca! Non è un caso che i protagonisti dei racconti de Il giardino dei sentieri che si biforcano sono volti senza tregua alla creazione di mondi fittizi: il pianeta Tlön, governato dalla legge idealistica secondo la quale l’esistenza del mondo reale è subordinato alla sua percezione da parte di un soggetto (6, pag. 7); l’istituzione della Lotteria, tentativo di “interpolazione del caso” (7, pag. 59) in un universo ordinato dal vincolo di causa-effetto; per non parlare più in generale delle innumerevoli creazioni letterarie (frutto di uno sperimentalismo che assomiglia ad una febbre mitopoietica) che popolano, in un continuo gioco di rimandi interni e di note dalla calcolata ambiguità interpretativa, le otto “finzioni”.
“Il più grande incantatore (scrive memorabilmente Novalis) sarebbe quello che s’incantasse al punto di prendere le sue stesse fantasmagorie per apparizioni autonome. Non è questo il nostro caso?” Io credo che sia così. Noi (l’insidiosa divinità che opera in noi) abbiamo sognato il mondo; l’abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, onnipresente nello spazio e fisso nel tempo; ma abbiamo consentito alla sua architettura interstizi tenui ed eterni di assurdo per sapere che è falso"

Eremo Via vado di sole, L'Aquila, giovedì 29 marzo 2012

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