LUOGHI E NON LUOGHI : ( II) Sulmona Davanti al muro di un grande convento S. Chiara
Quanto cammino fecero insieme le pietre della cinta, del campanile e del ricovero! Strette da un patto secolare, si sostenevano reciprocamente nella comune fatica di durare. Le mani che si prendevano cura del muro ne ricevevano, in cambio, custodia per i loro beni. Una vita senza comodi si estendeva come poteva nel cavo delimitato da una barriera sicura, un fluido continuo scorreva tra i corsi inquieti della città, i riti della fede e quello scudo fermo e severo. Allo sguardo di un estraneo che allora si fosse trovato a passare da quelle parti, l'intero abitato doveva apparire come un unico corpo raccolto in se stesso, -avvolto dal mantello ondulato dei tetti, il respiro scandito dal ritmo consueto del giorno e della notte che apriva e chiudeva le sue porte.
Poi, come i sentieri degli astri, quei destini si separarono. Dimore ricche e povere della città, le vie dei borghi, piazze di mercati e di feste, tutto cominciò a conoscere una vita nuova. Merci, armi, politica, pensieri e speranze presero a spingersi ben oltre difese erette sulla pietra e confini di valle. Il muro ne risentì, cadde in disuso. Scosse e divelte sempre di più le sue radici, patì incuria, demolizioni casuali, ferite volontarie, smembramenti. Avvertì il brivido sconosciuto dell'inesorabile. Come fogliame infreddolito dai primi soffi dell'inverno, le sue pietre residue indossarono vesti scure e disseccate, l'aspetto indurito dalla cera livida dell'agonia. E la muta polvere avrebbe disfatta anche la loro morte civile se quella città, che un tempo esse avevano protetta da offese palesi e occulte, oramai insediata molto al di là del loro stretto perimetro, non le avesse trattenute dentro di sé; mossa non da pietà, la quale avrebbe piuttosto consigliato di inumare quei resti nel silenzio, ma dal bisogno di esaltare il sapore dell'eccesso che l'animava, il gusto per quell'affascinante vastità di orizzonti che era divenuta sua residenza acquisita e mèta da conquistare. Sopraggiunse allora l'ultima cura umana, cerimonia funeraria speciale nella quale si celebrava senza saperlo la potente seduzione della promessa di mondi illimitati. Nella stessa inutilità manifesta di quel brandello di muro si scoprì qualcosa di utile; si lavorò a consolidarlo e a ripulirlo affinché non fosse altro che una levigata rovina, il testimone servizievole di trascorse fioriture, la pietra miliare di una profondità storica. Il suo profilo, fatto risorgere con i tratti ristuccati della sua vecchiezza da un senso dell'avvenire sicuro e orgoglioso di sé, ritrovò un modo di durare oltre la morte. La sua apparizione, che una volta parlava ai vivi dei vivi con la pienezza della sua integrità,era adesso quella di una stele volutamente imperfetta piantata sulle ceneri di una moltitudine anonima, a beneficio della sciamante giovinezza dei moderni .
Adesso, però, sembra che quel muro non tolleri più di starsene nei termini che un ardore umano gli ha assegnato. Trascorsi i tanti lustri della prima esaltazione, la fissità della sua corsa verso il passato traligna, si espande intorno come un nascosto contagio e corrode quello stesso slancio verso un futuro senza fondo nel quale si volle incastonarla come un brillante prezioso.
Tempo statico delle due fughe, immobile presente che rimesta volontà ansiose e senza presa, regno del sortilegio e dell'inazione. Non che gli uomini dei dintorni non si muovano più come hanno sempre fatto, anzi, la velocità cresce come dovunque sotto il pungolo di urgenze incalzanti. Ma la chiarezza dell'immobile cristallo, in cui il tempo ha piombato i suoi flussi, confina tanta mobilità spumeggiante della vita nello spazio angusto di un'agitazione circolare e stagnante, simile al ronzare vorticoso di insetti sulla superficie di acque paludose. Tempo che predispone gli uomini a scovare mille e mille artefatti ingegnosi per sopravvivere oltre ogni termine, sottraendo loro la capacità di rinnovare una piena confidenza col senso della Terra: quello che ci accomuna nella nascita che si riceve, negli amori che si donano, nella passione per un sapere che nobiliti il poco che siamo e in una morte degna di essere accettata. Quello, si direbbe, di un tempo che non divora le vite per ingoiarle in un gorgo infinito, ma le riempie con possibilità scaturite e misurate dalla loro stessa finitezza.
Il tempo sospeso che sovrasta come una lamina di cristallo il muro della cinta antica, il ricovero e il campanile di S. Chiara, tessuto dalla movenza sottile della sua stessa divergenza, gioca con gli occhi una partita ambigua come uno specchio magico: riflette in superficie l'immagine degli uomini così come sono adesso e come credono di dover essere per sempre; ma, insieme, facendo trasparire dal fondo un'ombra di straniante immobilità, accenna a quella di una vita capace di redimersi dall'incantesimo che la domina. Conferma da vicino la certezza di un futuro aperto senza limiti che si nutre volentieri con l'onore monumentale reso ad un passato amministrabile, ma da lontano invita anche a slargare l'orizzonte chiuso che imprigiona le sue fughe in una maschera bifronte di gesso. Con discrezione, con tono sommesso, parla agli uomini del compito di una decisione sul loro modo di stare al mondo.
Fonte . Parte di un articolo dal titolo “Il rischio di darsi un destino” di Nicola Auciello , docente di Storia della filosofia , Università di Salerno, pubblicato pag. 5 de il Vaschione periodico sulmonese
(Leggi anche Luoghi e non luoghi ( I ) Il vicinato

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