giovedì 24 maggio 2012

ET TERRA MOTA EST : La città senza urbanistica rischia anche l’oblio

ET TERRA MOTA EST :  La città senza urbanistica  rischia anche l’oblio


In attesa del nuovo assessore all'urbanistica. Mezzo secolo di Prg di prima generazione. L'Aquila che cresce senza programmazione. Il professor Romano e la città policentrica.



Finita la campagna elettorale e scelto il Sindaco della Ricostruzione, si passa al piano B: immaginare e disegnare la nuova città. L'ultimo anno è trascorso con l'anestesia delle imminenti elezioni e nessuna decisione, soprattutto tra quelle scomode, è stata presa, per non creare malessere e malcontento tra la popolazione. Ora si sceglie la squadra di governo, cioè la regia della programmazione.
La tematica centrale della delicata fase di ricostruzione della città dell'Aquila è sicuramente l'urbanistica e, quindi, fondamentale sarà l'assessore competente. Il post sisma ha brutalmente evidenziato le mancanze del piano regolatore aquilano, vecchio ed anacronistico. Il comune dell'Aquila è rimasto fermo, in ambito di pianificazione territoriale, agli anni compresi tra il 1968 e il 1977, quando cioè le esigenze abitative e di vita erano totalmente diverse. «Del resto la pianificazione degli anni '70, definita di prima generazione, - come ci dice il prof. Bernardino Romano dell'Università degli studi dell'Aquila - serviva a raggiungere determinati esiti di crescita, senza sensibilità e maturità per affrontare tematiche che si sono imposte successivamente, come gli elevati requisiti ambientali e la sostenibilità in campo edilizio, urbanistico, energetico e trasportistico.

In termini di classifiche - ha aggiunto il professore - il comune dell'Aquila appartiene a quella sparuta minoranza di capoluoghi di provincia (meno di 10 su quasi 120, di cui la maggior parte in avanzata fase di rinnovo) e a quel 7-8% dei comuni italiani che, secondo i dati del Rapporto dal Territorio dell'INU, è attualmente ancora fermo alla pianificazione degli anni compresi tra il 1968-77. Non è ben chiaro come una città che ambisce al blasone di Capitale Europea della Cultura non appartenga almeno a quell'80% dei comuni dell'Italia centrale che ha un piano elaborato dopo il 1985, o a quel 60% che lo ha aggiornato dopo il 1996 o a quel 40% che ha pianificato dopo il 2000.» Il confronto con le date di ultimo aggiornamento di altri comuni affini per dimensioni e problematiche è impietoso: Terni 2003, Rieti 2004, Lanciano 2011, Sulmona 2006, Teramo 2006, Chieti 2008, Pescara 2009.

L'Aquila del post sisma si è sviluppata con comportamenti sociali individuali ed estemporanei, non ascritti ad una programmazione, nè urbanistica nè commerciale, che risulta essere inesistente anche laddove si sono dovuti abbattere delle porzioni di quartiere che avrebbero permesso di ridisegnare organicamente la zona, nel rispetto di tutti gli aspetti urbanistici più moderni.

«La periferia urbana dell'Aquila - afferma Romano - non viene mai presa in considerazione nelle tante esternazioni propagandistiche che si fanno sulla ricostruzione della città, come se fosse un elemento estraneo all'assetto territoriale e non si analizzano le qualità di questa periferia che, allungata per oltre 30 km (da S. Gregorio a Barete), misura quasi 10 km in più del diametro massimo del GRA di Roma (Roma ha quasi 3 milioni di abitanti), nonché circa i 3/4 delle massime diagonali urbane di Parigi o di Berlino (metropoli con, rispettivamente, più di 6 milioni e 3,5 milioni di abitanti.

Dopo il terremoto - ha spiegato il professore - c'è stata l'acquisizione, spontanea, di una fisionomia policentrica della città. La forzata e totale estromissione delle funzioni dal centro storico ha proiettato nelle periferie quella tipica gamma di servizi che danno spessore ai "centri", cioè quelli commerciali specializzati, quelli direzionali e professionali, quelli finanziari o quelli ospedalieri. Naturalmente un ruolo significativo è stato giocato dal trasferimento delle masse di popolazione nelle new town e ricollocate in posizioni geografiche del tutto diverse da quelle precedenti. Se i servizi pubblici si sono spostati con criteri di disponibilità ed economia dei nuovi contenitori, quelli di mercato (e anche questo è uno dei "fondamentali" dell'urbanistica) hanno seguito le concentrazioni demografiche da cui traggono la clientela. La assenza di un disegno programmatico che possa pilotare questa evoluzione sta creando larghi spazi di affermazione a fenomeni attrattivi parassiti senza controllo, che sono in atto e che si rinforzeranno sempre di più irrobustendo l'attuale fisionomia delle conurbazioni maggiori.

Non avendo la possibilità, quindi, di costruire centri storici ex novo che diventano tali grazie alla stratificazione storica avvenuta nel corso dei secoli, bisogna dotare la città di altri luoghi "centrali" utili a coprire le esigenze insediative di una comunità che si evolve e che abbiano - come dice Romano - una elevatissima qualità di progettazione urbanistica ed architettonica, creando cioè attrazione con impianti ed edifici innovativi nelle forme, nei materiali e, in altre parole, nel paesaggio urbano costruito». Creare quindi una città "policentrica" che deve essere progettata in tutte le sue funzioni e servizi utili alla cittadinanza come ad esempio la mobilità, anello portante della catena dell'organismo urbanistico. «Dopo il terremoto del 6 aprile c'è stata l'acquisizione, spontanea, di una fisionomia policentrica molto più accentuata. "Spontaneamente" appunto, cioè senza una guida dei processi e quindi con una enorme incertezza negli esiti. Naturalmente un ruolo significativo è stato giocato dal trasferimento delle masse di popolazione nella new town.

Il territorio aquilano - conclude l'urbanista - viene, senza un efficiente piano programmatico, mangiato quotidianamente dalle costruzioni selvagge che stanno invadendo le pianure esponendo l'ambiente a rischi idrogeologici e rendendo, in un futuro prossimo, molto più complicata un'azione di pianificazione e riordino del connettivo urbano. La periferia aquilana deve essere ripensata in termini urbanistici che prevedano un accordo sulle tipologie volumetriche, le finiture e i colori da utilizzare per gli esterni. Senza questa programmazione si perde un'occasione clamorosa di miglioramento della funzionalità e dell'estetica della città».
IL capoluogo 24 maggio 2012

Salvatore Settis: "Gli Aquilani cambino mentalità o L'Aquila sarà dimenticata"
Salvatore Settis, docente emerito presso la Scuola Normale Superiore di Pisa ed eminente figura del panorama culturale nazionale ed internazionale, ha visitato L'Aquila ed il suo centro storico in occasione del convegno Paesaggio Costituzione Cemento.

Intervistato da Germana Galli, per la rivista culturale Mu6, ha detto la sua sul terremoto aquilano e sulla difficile ricostruzione.

-In questi giorni ha avuto modo di visitare la città e le new towns. crede che L’Aquila sia metafora della situazione del degrado paesaggistico dell’intero paese?

L’abbandono del centro storico dell’Aquila al suo destino è uno scandalo nazionale, e non solo nazionale. Il fatto che un tessuto urbano tanto ricco e prezioso sia sostanzialmente ancora nello stato in cui era all’indomani del terremoto è raccapricciante. Quando diciamo che questo abbandono è metafora di quanto accade in tutta Italia, qualcuno può pensare che stiamo esagerando, che l’emergenza e il degrado dell’Aquila sono dovuti a un evento straordinario come il terremoto. Ma un Paese dal territorio fragilissimo, franoso e a rischio sismico dovrebbe prima di tutto lavorare di più nella prevenzione e messa in sicurezza; dovrebbe, anche, reagire prontamente e con criteri chiari agli eventi distruttivi. Nulla di tutto questo: la cifra del degrado di cui l’Aquila è il simbolo la danno le sinistre risate di un imprenditore edile, che nella notte stessa del terremoto individuò nelle disgrazie altrui un’opportunità di profitto per se stesso. Lo sciagurato sapeva già, con l’intuito sicuro dei predoni,che un sano progetto di ricostruzione non ci sarebbe stato. Ma è con decisioni a livello nazionale che si sarebbe dovuto porre rimedio, e invece abbiamo visto montare intorno al terremoto quasi solo ciniche operazioni propagandistiche.

-Le responsabilità di questo degrado sono ascrivibili al legislatore, agli enti locali o all’assenza di controllo al controllore?

Credo che siano responsabilità condivise, ma l’incapacità di creare una regia unica e soprattutto competente è certamente un fattore primario del degrado. C’è tuttavia da chiedersi se la frammentazione delle iniziative e delle istanze, l’assenza di una visione generale, la rinunzia a ogni progetto coerente non siano anche ispirate, sotterraneamente, dalla diffusa tendenza ad approfittare sempre di tutto, quando siano disponibili fondi pubblici, perché i soliti furbi possano tirare l’acqua al proprio mulino.

-La cementificazione comporta anche danni collaterali, tra i più evidenti il vulnus al paesaggio provocato dalle attività estrattive. Le sembra adeguata l’attuale normativa che regola questa attività?

Il problema non sono solo le norme, ma anche la rinuncia a farle osservare. Le cave, per esempio, sono una necessaria attività estrattiva, che però dev’essere limitata nel tempo, e quando una cava viene chiusa dovrebbe essere “ripasciuta”, sanando la ferita inferta al paesaggio. Ma questo non viene fatto quasi mai, e chi dovrebbe intervenire e costringere le imprese a seguire questa norma elementare spesso non si muove. In Campania, anzi, alcune cave sono state riempite con orrendi ammassi di rifiuti anche tossici. Così un danno si agiunge all’altro, e il degrado cresce.

-Con la fine delle gestioni commissariali all’Aquila, le Soprintendenze svolgeranno una funzione centrale nella ricostruzione dei beni culturali. Crede che gli uffici territoriali, a fronte di un così imponente lavoro, abbiano le “forze” necessarie?

Non ho tutti gli elementi per rispondere. Posso solo dire che non è solo questione di contare i numeri delle persone disponibili. Se, come pare, ci sono circa 300 unità, per sapere se bastano occorrerebbe avere altri tre elementi di giudizio: primo, come sono stati selezionati, e se le competenze e la motivazione di ciascuno di loro sono all’altezza del problema; secondo, se esiste un piano ben fatto di intervento; terzo, se è stata creata una struttura organizzativa e amministrativa in grado di gestire la situazione con altissima professionalità e piena efficacia.

-In occasione della visita del premier Mario Monti a L’Aquila si è discusso del futuro della città ed è stato illustrato il progetto “Abruzzo verso il 2030: sulle ali dell’Aquila” proposto dall’OCSE e dall’Università di Groningen. Cosa ne pensa?

Come ho scritto su Repubblica del 7 aprile, mi pare un pessimo segno lo slogan assai frivolo “trasformare l’Aquila in una smart city”. Il progetto contiene affermazioni generiche e retoriche, come l’idea di fare della città «un prototipo, un laboratorio vivente, uno studio di caso, che sfrutti nuove tecnologie per migliorare la qualità della vita». Cito da quel mio articolo: «La ricostruzione? Può aspettare, anzi secondo il progetto sarebbe sbagliata «l’intenzione di ricostruire prima e poi trovare i mezzi per progredire». Bisogna, anzi, «spostare il centro dell’attenzione dalla ricostruzione fisica allo sviluppo economico e sociale». L’Aquila dev’essere «adatta a nuovi modelli di business», candidarsi a capitale europea della cultura, e non toccare una pietra senza prima aver lanciato un concorso fra «architetti di fama mondiale», che intervengano sugli edifici cambiandone la destinazione d’uso per farne «luoghi moderni concepiti in maniera creativa, modificando gli interni e conservando le facciate storiche degli edifici». Insomma, «celebrare il passato» lasciando in piedi le facciate, costruire il futuro sventrandone gli interni. E poi, tanta tecnologia: energia pulita, Internet per tutti, città cablata. Non una parola sul riscatto dei cittadini dall’esilio nelle squallide newtowns: per sentirsi intelligenti, smart, all’avanguardia, per volare «sulle ali dell’Aquila» (altro slogan del progetto) meglio rimandare la ricostruzione, puntare su concorsi di architetti e realtà virtuale. Gli aquilani sono invitati a «cambiare modo di pensare», se no «L’Aquila diventerà una collettività frammentata, una città isolata e dimenticata»: ottima descrizione, vien da dire, di quel che oggi essa è.». Insomma, mi pare un pessimo progetto, velleitario e parolaio.

-Pensando alle sue esperienze lavorative nel mondo della cultura non solo di docente alla Normale di Pisa ma anche ai prestigiosi incarichi all’estero come al Getty Center di Los Angeles, come si potrebbero aiutare i musei, i teatri, i siti archeologici, le biblioteche, a raggiungere una maggior autonomia dallo Statoitaliano?

Non penso affatto che i musei debbano essere autonomi dallo Stato, penso che debbano esserlo nello Stato, e nelle altre amministrazioni pubbliche. Occorrerebbe in tal senso una profonda riforma, le cui linee essenziali sono a mio avviso chiarissime. Ma la mancanza di indirizzo al Ministero dei Beni Culturali, e la marginalizzazione di questi temi anche nell’agenda del governo Monti, non fanno sperare bene in tempi brevi.

Abruzzo 24 ore  giovedì 12 maggio 2012

Eremo Via vado si sole, L'Aquila   giovedì 24 maggio 2012

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