venerdì 18 maggio 2012

SILLABARI : Vergogna ( II )

SILLABARI  : Vergogna ( II )

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Come abbiamo visto la vergogna riguarda entrambi i livelli relazionali: la relazione intrapsichica, tra sé e sé, e quella interpersonale, tra sé e l'altro, o sé e gli altri.
Sul piano intrapsichico la vergogna ha a che fare con un'eccessiva discrepanza tra il sé ideale, ovvero quel senso di sé verso cui aspiro, il sé che desidero essere, e il sé reale, ovvero quel senso di sé che percepisco corrispondere alla realtà, il sé in cui realmente mi riconosco.
Una distanza troppo grande e soprattutto l'inflessibilità di modelli troppo alti del sé generano vergogna, che può sfociare in violenta rabbia e senso di impotenza invalidante.

Sul piano interpersonale la vergogna è spesso associata ad un atteggiamento di sottile competizione, in cui mi percepisco irrimediabilmente perdente, in cui l'altro - generalmente un "altro" significativo - diventa luogo di proiezione dei vari aspetti del mio sé ideale, diviene rappresentante di Tutti gli Altri, (più belli, più sani, più adeguati, più capaci,…. più "normali" insomma) rappresentante di una norma sociale da cui mi sento dolorosamente esclusa.
In questo senso la vergogna si associa facilmente all'invidia ed alla rabbia ad essa connessa.
Alcuni psicoanalisti americani che hanno cominciato ad occuparsi della vergogna (i cosiddetti vergognologi, tra cui Andrew Morrison), hanno ben descritto il cosiddetto "ciclo della vergogna-rabbia".
In questo ciclo accade che ci si vergogni di se stessi (del proprio essere troppo passivi, incapaci o comunque difettosi rispetto a qualcun altro), tale vergogna produce un ritiro in se stessi, ma anche risentimento, invidia e rabbia vendicativa verso l'altro contro cui ci si scaglia, almeno mentalmente. Questa aggressione genera colpa, ulteriore ritiro nella passività e quindi aumento di vergogna, per cui il ciclo alimenta se stesso.
Per quanto riguarda la relazione interpersonale, quando è presente il senso di vergogna, si tratta di una relazione che non è (o non è ancora) reciproca, intersoggettiva (dove l'uno e l'altro siano percepiti entrambi soggetti, con uguale diritto di esistenza, pur nella diversità), bensì di una relazione fortemente asimmetrica (del tipo soggetto-oggetto), dove l'Altro, quello vincente, da cui ci si sente guardati (male!) è "il Soggetto", percepito come giudicante, sprezzante, svilente nei confronti dell'oggetto che sta osservando, quell'Oggetto fallito, difettoso, insignificante, patetico e ridicolo che è esattamente ciò con cui chi prova vergogna si sta identificando.
La vergogna sta qui ad indicare lo scacco subito, il senso di indegnità avvertito da chi riceve - o presume di ricevere - un disconoscimento grave rispetto al proprio essere.
Interessante a questo proposito è l'interpretazione filosofica che J.P. Sartre dà della vergogna.
Egli riconduce la vergogna al puro e semplice fatto di essere esposti allo sguardo dell'altro, cosa che, rendendoci oggetto di osservazione da parte di un soggetto altro, ci deruba della nostra soggettività, per ridurci ad oggetto del suo spettacolo.
"La vergogna, scrive Sartre, non è il sentimento di essere questo o quell'oggetto criticabile; ma in generale di essere un oggetto, cioè di riconoscermi in quell'essere degradato, dipendente e cristallizzato che io sono per gli altri. La vergogna è il sentimento della caduta originale, non del fatto che abbia commesso questo o quell'errore, ma semplicemente del fatto che sono caduto nel mondo, in mezzo alle cose, e che ho bisogno della mediazione d'altri per essere ciò che sono.
Il pudore e, in particolare, il timore di essere sorpreso in stato di nudità non sono che specificazioni simboliche della vergogna originale: il corpo simbolizza qui la nostra oggettività senza difesa. Vestirsi significa dissimulare la propria oggettività, reclamare il diritto di vedere senza essere visto, cioè di essere puro soggetto. Per questo il simbolo biologico della caduta, dopo il peccato originale, è il fatto che Adamo ed Eva capiscono di essere nudi." (L'essere e il nulla)
Dunque la vergogna esiste o almeno sarebbe alimentata dalla relazione del tipo soggetto-oggetto mentre dovrebbe essere assai meno incoraggiata dal contesto relazionale del tipo soggetto-soggetto. Ed è bene ricordare come, all'interno di una relazione, noi possiamo subire la vergogna ma possiamo anche indurla o quanto meno alimentarla.
Questo intricato gioco di relazione soggetto-oggetto e soggetto-soggetto apre a riflessioni importanti sul tipo di relazione di volta in volta in atto.
Per esempio nell'ambito della relazione psicoterapeutica si può andare dalla rigida identificazione in ruoli complementari, del tipo soggetto che osserva - il terapeuta - e oggetto osservato - il paziente - fino all'elasticità di un continuo reciproco riconoscimento di entrambi i ruoli, in cui ciascuno - terapeuta e paziente - può riconoscersi di volta in volta, sia nel soggetto che osserva e sia nell'oggetto osservato, man mano che l'analisi si riconosce essere analisi della relazione in atto tra i due soggetti coinvolti, più che analisi del paziente.
La psicoanalisi, almeno quella delle origini, ha impiegato tempo ad occuparsi della vergogna, probabilmente per via di problematiche non analizzate, relative alla vergogna stessa, presente nell'analista. Basti pensare alla nascita del setting psicoanalitico, quello classico, con lettino e poltrona, in cui l'analista guarda, non visto, l'analizzando che a sua volta non può guardare l'analista.
Si trattava, potremmo dire oggi, di un "setting antivergogna" in funzione dell'analista.
Freud di fatto non aveva avuto vergogna di ammettere la ragione di tale postazione: "Non sopporto - egli infatti aveva affermato - di essere fissato ogni giorno per più di otto ore".
Col tempo la psicoanalisi si è gradualmente evoluta, in questo senso, aprendosi alla dimensione intersoggettiva, e rendendo, anche nel setting, più "democratiche" e paritarie le condizioni: dal lettino posto in modo che il paziente possa, se vuole, girare la testa e vedere in faccia l'analista, seduto in poltrona non più dietro ma a fianco, fino alla posizione vis a vis, con le due poltrone poste l'una di fronte all'altra.
Peraltro questa posizione maggiormente improntata all'intersoggettività è stata presente da subito in alcuni epigoni della psicoanalisi, cito per tutti Jung.
Diciamo che oggi è maggiormente condivisa rispetto ad allora.
Non a caso forse oggi anche la psicoanalisi ha cominciato ad occuparsi della vergogna che viene da taluni denominata come "l'ospite atteso" [Donna Orange] che chiede di essere accolto per trovare spazio di trasformazione.
Quindi riflettere sulla vergogna presente nelle relazioni, induce a riflettere sul tipo di relazione in atto, di qualunque relazione si tratti Può indurre, per esempio ciascuno a domandarsi qual è il proprio modo di guardare l'altro: quanto ciascuno tende a percepire l'altro come oggetto del proprio sguardo (e niente altro), quanto invece riesce a percepirlo come "altrettanto soggetto", altro da sé, e in quanto tale, almeno in parte misterioso, ineffabile, sconosciuto.
Quanto riusciamo a renderci conto che l'altro è sì oggetto del nostro sguardo ma contemporaneamente anche soggetto di uno sguardo che a sua volta si posa su di noi e che di noi si fa un'immagine propria, "altro" quindi come luogo di iniziativa autonoma di un sentire e di un pensare analogo sebbene diverso dal nostro.
La mia ipotesi, seguendo l'indicazione di Sartre, è che il sentimento di vergogna, sia quella che subiamo e sia quella che più o meno inconsciamente tendiamo ad indurre e ad alimentare, possa gradualmente ridurre i suoi effetti invalidanti, nella misura in cui favoriamo il crescere, nelle nostre relazioni, della consapevolezza e dell'attenzione per la propria e l'altrui soggettività.
La consapevolezza cioè del fatto che pur essendo in questo momento oggetto del mio sguardo, l'altro (ma anche il mio sé) continua a mantenere una propria autonomia, una propria soggettività, che fa sì che esso non si esaurisca mai totalmente in ciò che io vedo.
Mantenere la consapevolezza del "mistero" che ciascun soggetto continua ad essere, per se stesso e per l'altro, della molteplicità di aspetti che non sono mai del tutto evidenti ed oggettivi, la consapevolezza cioè di uno svelamento ulteriore sempre possibile e mai completamente esaurito.
E qui torna spontaneamente ad imporsi all'attenzione quell'aspetto della vergogna che, in relazione a quanto emerso fin qua, sembra portare in sé il passaggio evolutivo, di affermazione della soggettività: si tratta della vergogna-pudore, ovvero quel sentimento che spinge a difendere il proprio Sé, e di conseguenza quello altrui, da intrusioni invasive nella sfera dell'intimità.
Abbiamo accennato al fatto che il pudore non porta in sé un giudizio negativo rispetto a ciò che vela, bensì la necessità di velare per proteggere ciò che è sentito come intimo, e quindi fragile, delicato.
Pudore quindi inteso nel senso di ritegno, rispetto, contenimento, parziale nascondimento, quale requisito indispensabile a salvaguardare la soggettività individuale nella vita in comune, nella collettività; pudore quindi non associato - come poi ha fatto la cultura cristiana - prevalentemente alla sfera sessuale, quanto piuttosto alla dialettica della distanza-vicinanza tra umani.
Parlare di pudore significa parlare di relazione intima, non necessariamente sessuale.
L'esempio forse più significativo resta tuttavia quello della relazione amorosa, che mette in ballo inevitabilmente il conflitto tra due esigenze fortemente contrastanti ma compresenti:
- il bisogno di attaccamento e di legame, di entrare in rapporto profondo con l'altro, di sentirsi intimamente uniti e di fondersi con lui, - il bisogno di separatezza e distinzione dall'altro, di autonomia ed indipendenza, di mantenere la propria individualità, la propria soggettività.
Queste due esigenze sono spesso percepite come due poli contrapposti, inconciliabili, che portano o all'autonomia con esclusione del rapporto d'amore, o al rapporto d'amore con perdita di autonomia.
Eppure sono entrambe esigenze ineliminabili, fondanti il nostro essere umani.
Come risolvere questa ambivalenza?
Freud così si esprimeva in proposito al possibile malessere connesso a tale conflitto:
"Un forte egoismo instaura una protezione contro la malattia; tuttavia, prima o poi bisogna ben cominciare ad amare per non ammalarsi e se, in conseguenza di una frustrazione, si diventa incapaci di amare, inevitabilmente ci si ammala." [Da Introduzione al Narcisismo] Dunque, nel rapporto intimo con l'altro, bisogna ogni volta tornare a separarsi, a distanziarsi, a differenziarsi per poter amare, ma bisogna anche essere sufficientemente disposti a perdere di vista sé in favore dell'altro, senza che questa perdita diventi mai totale e distruttiva della propria soggettività.
In questo senso il pudore, nell'accezione suddetta, può porsi come strumento che aiuta a trovare un equilibrio, seppure delicato, fragile e precario, tra queste due esigenze, di fusione e autonomia, grazie alla sua funzione di mediazione, di moderazione, che stempera il rischio di assolutismo insito in entrambi i poli.
Il vissuto del pudore mantiene vivo il problema dell'alterità, della differenza, della separatezza tra i due, proprio laddove essi si incontrano nell'intimità del loro essere.
Comporta l'accettazione del limite, di una vicinanza, di una somiglianza che permane sempre relativa, di uno spazio mai completamente annullato tra l'Uno e l'Altro.
Il pudore è ciò che contiene la tendenza ad invadere e farsi invadere, a pretendere una somiglianza o concordanza eccessiva, che tenderebbe a negare le differenze e annulla le distanze; è un rispetto di fondo che contiene gli eccessi presenti nelle fantasie di fusionalità e di prevaricazione reciproca.
Come scrive Monique Selz nel suo: "Il pudore. Un luogo di libertà" (Einaudi 2005):
"Prima di essere un dovere morale, il pudore è una necessità vitale." Il tentativo di riflettere e farsi consapevoli di quale sia il modo in cui ci rivolgiamo all'altro, il modo in cui guardiamo l'altro, è tanto importante nella sfera intima dei rapporti quanto lo è nella dimensione più ampia e sociale: è estremamente importante diventare gradualmente consapevoli della propria tendenza ad oggettivare l'altro (gli altri) o, al contrario, lo sforzo di riconoscerne l'irriducibile soggettività.
Questo tentativo di riflessione sul modo in cui guardiamo l'altro, ci invita a tenere a bada la tendenza a rendere l'altro oggetto, cosa tra le cose, la tendenza a generare dinamiche di vergogna e ad alimentare relazioni insane di dominio dell'uomo sull'uomo.
A livello sociale, infatti, le medesime dinamiche che abbiamo osservato nel "privato" si amplificano in maniera macroscopica generando più o meno sottili razzismi e "colonialismi" purtroppo terribilmente attuali e diffusi.
Anche a livello sociale l'altro tende ad essere oggettivato da chi ha il potere (la maggioranza, l'elite del momento) e discriminato in base a pregiudizi sociali, consci o inconsci, che possono diventare vere e proprie "istituzioni" generatrici di vergogna.
Ci sono identità socialmente considerate deplorevoli (razza, orientamento sessuale, classe sociale, cultura di origine, etnia di appartenenza,….) all'interno delle quali il sentimento di vergogna può essere più o meno forte, più o meno esplicito: può addirittura nascondersi dietro evidenti dichiarazioni di orgoglio.
Sentimento di vergogna che inevitabilmente è anche risposta ad uno sguardo oggettivante di chi, sentendosi "il Soggetto" tende a rendere l'altro "cosa", spogliandolo del suo diritto di soggetto.
Questa riflessione vorrebbe restituirci la responsabilità di farci gradualmente consapevoli del nostro sguardo, del nostro modo di guardare: noi stessi, l'altro, il mondo, al fine di ridurre, per quanto ci è possibile, "l'effetto Gorgone" da cui siamo circondati, ovvero "lo sguardo che pietrifica", immagine simbolicamente evocativa della sofferenza connessa al sentimento di vergogna.
Le immagini sono opere di Savinio
Da un articolo di Agnese Galotti
Eremo Via vado di sole, L'Aquila , venerdì 18 maggio 2012

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