domenica 16 gennaio 2011

COTTO E CRUDO : Il cibo rituale

COTTO E CRUDO : Il cibo rituale


I banchetti invernali sono sempre epici, a cominciare dal cenone devozionale di Natale e continuando via via, per quello più laico di Capodanno e per la panarda rituale per Sant'Antonio Abate, fino all'orgia alimentare di Carnevale. Un'abitudine che trova le ragioni, oltre che nella scansione cerimoniale delle occasioni festive raggruppate in questo periodo, anche nella specificificità stagionale dell'inverno che permette, sia per particolarità climatiche che per disponibilità puramente alimentari, grandi conviviali in cui le famiglie si ritrovano.

Il cibo è, infatti, nella cultura contadina, un elemento simbolico di base. Riunire intorno ad uno stesso desco, specialmente nelle ricorrenze solenni le varie generazioni parentali, trae origine da una concezione sacrale che riconosce al mangiare, al digiuno o alla tabuizzazione di particolari alimenti valori religiosi, morali e sociali e attribuisce al pasto, al di là della funzione nutritiva, una precisa espressione cerimoniale.

La letteratura in argomento offre, nell'ambito delle tradizioni popolari, un ventaglio di esempi quanto mai vario e diffusso diacronicamente, dalla iscrizione di Santa Maria a Vico, nei pressi di Sant'Omero, che ricorda che il Collegio dei Fratelli di Ercole, ogni anno aveva l'obbligo di indire un banchetto rituale per i sodali, alle pratiche, tutt'ora in uso, del cibo consumanto all'interno di uno spazio cultuale, o del pranzo di nozze e del consòlo funebre che, pure con differenti linguaggi, rientrano nella medesima accezione di riconoscimento dell'unità di gruppo, sia esso familiare o sociale.

All'interno di questo postulato, occorre circoscrivere una ulteriore area tematica, poiché, nel periodo invernale, non solo il consumo, ma anche la qualità e la preparazione del cibo sembrano assumere toni e valori ancora più rilevanti rispetto ad altre circostanze di simile accezione. A nessuno sfugge il senso antropologico, tutt'altro che marginale, della presenza dei torroni, de croccanti e dei dolci, in generale, nel cenone natalizio, dell'attento rispetto delle procedure tradizionali nella loro preparazione, delle prescrizioni che ne regolano il consumo nei periodi vigiliari.

Nella memoria di tutti è presente il ricordo, e quasi l'intimo sapore, di certe confetture tipiche, per esempio quelle di uva, l'uso debordante, fino allo spreco, del miele e delle mandorle, propri dei dolci di fine anno. Ricordo e sapore hanno i contorni incerti e misteriosi del mito sorretto dalla cifra ovidiana che nei Fasti rievoca l'antico uso di donare focacce di datteri, fichi e miele in calendas januari.


Se la cena del 24 dicembre prevede "nove portate di magro come i mesi della gravidanza della Madonna" non è solo per una metalogica cabalistica, ma perché la saggezza popolare, attribuendo al contesto la necessità di interrompere, sia pure a livello simbolico, il disagio di vivere recita che "a Natale né freddo, né fame".

E cosi, nel nome di una provvidenza e abbondanza per tutti, si imposta anche il pranzo di Capodanno, che per quanto più sottoposto al livellamento dei prodotti commerciali, tuttavia ha sempre i suoi cibi di rito, non fossero altro le lenticchie e l'uva consumate a scopo propiziatorio. Persino i ravioli e le salsicce di Carnevale, divorati con fame ancestrale nel numero magico di sette, vanno letti nel segno della cultura popolare sempre tesa tra le antinomie del possesso e della privazione, delle risorse desiderabili e dei beni limitati ottenibili.

Ma l'evento che più di ogni altro, nel periodo invernale, assomma ed esalta il caratteri rituali del consumo collettivo del cibo è la grande panarda di Sant'Antonio Abate. La tradizione è comune a molti paesi, ma esprime compiutamente il concetto di celebrazione comunitaria con forti permanenze magico-sacrali, soprattutto a Villavallelonga, un piccolo centro posto entro la zona montagnosa del Parco Nazionale d'Abruzzo. L'aspetto più spettacolare della panarda sta nella quantità delle portate che possono superare anche il numero di cinquanta e nella etichetta che impone ai commensali di onorare la tavola, consumando tutte le vivande servite nel piatto.

La devozione popolare racconta che "tanti anni fa una donna della famiglia Serafini lasciò una creatura in fasce nella culla e andò a prendere l'acqua alla fontana. Tornando a casa incontrò un lupo che la portava in bocca. Invocò Sant'Antonio e il lupo lasciò la bambina. La donna promise al Santo la festa a fuoco, cioè la panarda. Dopo, la promessa si è tramandata e diffusa per ereditàtra i vari nuclei legati da parentela ". Attualmente le famiglie obbligate sono una ventina ed ogni anno, immancabilmente, la sera del 16 gennaio, allestiscono un grandioso banchetto che si protrae tutta la notte. Nella stanza in cui si svolge il convivio viene preparato un altare su cui troneggia l'immagine di Sant'Antonio Abate, in mezzo a composizioni ornamentali di frutta, uova, dolci. Quando tutti gli invitati hanno preso posto alla mensa il padrone di casa, detto per l'occasione panardere, recita il rosario, le litanie ed infine intona l'Orazione di Sant'Antonio, dopo di che dà l'ordine di servire gli ospiti.

Per quanto riguarda il cibo, la panarda, accanto ad un repertorio di vivande e di specialità gastronomiche locali, presenta alcuni alimenti fissi che non possono mancare in nessun caso. Essi sono: brodo di gallina e vitello, il caldaio del lesso, maccheroni carrati all'uovo con ragù di carne di pecora e detti "di Sant'Antonio", la pecora alla cottora, le fave lessate e condite, le frittelle di pasta lievitata, le ferratelle, e la panetta che è una speciale preparazione di pasta lievitata a cui sono state aggiunte le uova.

La cena si protrae per tutta la notte, sia per dare modo ai convitati di consumare agevolmente le portate, sia perché il servizio ogni tanto è intramezzato da momenti di preghiera e dal canto di formule religiose, sia perché infine, ad una certa ora, le case dei panarderi vengono visitate dalle compagnie di questua.

Mentre nelle piazze ardono enormi falò di legna, gruppi di cantori prendono a girare le strade e a visitare le case dove il loro arrivo è atteso e ben accetto e le loro esecuzioni sono ricompensate con cibo e somme di denaro. Le visite durano fino alle ultime ore della notte, dopo di che vengono riordinate le mense e viene servita l'ultima portata: un piatto di fave lesse, accompagnate dalla panetta. Prima però il panardere ringrazia tutti i presenti e intona il Padre Nostro. Solo dopo questo ultimo atto e dopo aver consumato le fave, la panetta e un bel bicchiere di vino in onore del Santo protettore, gli invitati lasciano la casa, dandosi appuntamento per l'anno venturo.

O gran Dio onnipotente

Siam venuti buona gente

Nel gran lungo camminare

Sant'Antonio per cantare.

Padre Figlio e Spirito Santo

Attaccate 'stu bel canto

co' la voce ch'è 'na squilla

Sant'Antonio de la Villa.

Se ci-avete le pecorelle

Cresceranno grasse e belle,

Se ci-avete cavalli e bica

Sant'Antonio li benedica.

Se ci-avete 'na figlia bella

Dio la possa maritare

E da amici e da parenti

Ve la possa accompagnare

E Sant'Antonio vecchiareglie

Risatolle le famiglie,

Le famiglie satollate

Sant'Antonio sia lodato.

Fonte Pagine D’Abruzzo Coordinamento multimediale Maria Concetta Nicolai Edizioni Menabo’

http://www.profesnet.it/dabruzzo/cultura/tempo_inverno/inverno_panarde.htm


Eremo Via vado di sole, L'Aquila, domenica 16 gennaio 2011

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