mercoledì 12 gennaio 2011

OVIDIANA : Piramo e Tisbe . una storia d'amore

OVIDIANA :Piramo e Tisbe :una storia d’amore


La scelta della storia di Piramo e Tisbe, non è stata casuale; questa vicenda d’amore tragico, cantata da Ovidio con toni delicati ed una sensibilità poetica non comune al resto del poema, risulta essere, a mio parere, particolarmente idonea ad una lettura in sede scolastica, ma soprattutto affascinante, per le nuove generazioni che si accingono a leggere Ovidio. La novella, che si inserisce nel novero delle morti infelici non solo del poema, ma di tutta la storia della letteratura europea, si presta infatti ad un approccio pluridisciplinare, consentendo opportuni collegamenti con la Letteratura italiana, la Letteratura inglese,e la Storia dell'arte.

Nell’analisi del passo latino ho seguito un percorso didattico basato sulla centralità del testo e sulle influenze che il soggetto ovidiano ha avuto nel corso dei secoli sugli scrittori, i tragediografi e sugli artisti italiani e stranieri. Le finalità educative rispondono ad un’esigenza di contestualizzazione ed attualizzazione dell'episodio, volto a favorire un coinvolgimento dell'alunno alla materia e a sviluppare un maggiore senso critico nei confronti della produzione letteraria, teatrale e artistica dei giorni nostri.


L’obiettivo da raggiungere è senz’altro quello di rendere il testo latino quanto più ‘vivo’ possibile, in grado di stimolare la curiositas, l’intelligenza e la sensibilità poetica degli alunni.

Piramo e Tisbe sono due personaggi della mitologia babilonese, la cui leggenda ci viene raccontata da Ovidio nelle Metamorfosi.

Secondo la leggenda, l'amore dei due giovani era contrastato dai parenti, ed erano costretti a incontrarsi e a parlarsi attraverso un alto muro. Questa difficile situazione li indusse a programmare la loro fuga d'amore. Nel luogo dell'appuntamento, che era vicino ad un gelso, Tisbe, arrivata per prima, incontrò un leone dal quale si mise in salvo perdendo un velo che si macchiò con il sangue della belva. Piramo, arrivato e vedendo il velo macchiato, si trafisse con la spada ritenendo morta la sua amata. Tisbe lo trovò così, in fin di vita, ma sussurrandogli il proprio nome riuscì per un attimo a fargli riaprire gli occhi e a guardarla. Poi anche Tisbe si uccise, e i due sfortunati amanti morirono insieme ed il gelso, intriso del loro sangue, tramutò i propri frutti in color vermiglio.


Ecco il testo di Ovidio:

«Pìramo e Tisbe, lui di tutti i giovani il più bello,

lei unica fra tutte le fanciulle che ha avuto l'Oriente,

abitavano in case contigue, là dove dicono che cinse

Semiramide con mura di cotto la sua superba città.

Grazie alla vicinanza si conobbero e nacquero i primi vincoli:

col tempo crebbe l'amore. E si sarebbero uniti in matrimonio,

se i genitori non l'avessero impedito; ma impedire

non poterono che perdutamente ardessero l'uno dell'altra.

Nessuno ne è al corrente, si parlano a cenni, a gesti,

e quel fuoco nascosto più lo si nasconde, più divampa.

Da una sottile fessura, formatasi già al tempo

della costruzione, era solcato il muro comune alle due case.

Quel difetto, ignoto a tutti per centinaia d'anni (cosa mai

non scopre l'amore?), voi, innamorati, per primi lo scorgeste

e l'usaste come via per parlarvi: di lì ben protette

passavano giorno per giorno in un sussurro le vostre effusioni.

Spesso, immobili, Tisbe da una parte, Pìramo dall'altra,

dopo aver spiato a vicenda i propri aneliti:

"Muro invidioso", dicevano, "perché ti frapponi al nostro amore?

Quanto ti costerebbe lasciarci unire con tutto il corpo

o, se questo è troppo, aprirti perché potessimo baciarci?

Non siamo degli ingrati: sappiamo di doverti già molto,

se a orecchie amiche permetti che giungano le nostre voci".

Pronunciate invano, l'uno dall'altra divisi, queste parole,

a notte si salutarono e ognuno alla sua parte

di muro impresse baci senza speranza che s'incontrassero.

L'aurora seguente aveva rimosso i fuochi della notte,

il sole sciolto coi suoi raggi la brina nei prati e loro

si ritrovarono in quel luogo. Con lieve bisbiglio allora,

dopo essersi a lungo lamentati, decisero di eludere

i custodi, di tentare la fuga nel silenzio della notte

e, una volta fuori casa, lasciare la stessa città;

ma per non smarrirsi, vagando in aperta campagna, stabilirono

d'incontrarsi al sepolcro di Nino e di nascondersi al buio

sotto un albero: quello che imbiancato di bacche lì si trovava,

un alto gelso appunto, vicino a una gelida sorgente.


Questo l'accordo; e la luce, che sembrava non volersene andare,

calò a un tratto nel mare e da quel mare si levò la notte.

Di soppiatto aprendo la porta, Tisbe uscì, senza farsi sentire

dai suoi, nelle tenebre e, col volto velato,

giunta al sepolcro, sedette sotto l'albero convenuto:

audace la rendeva amore. Quand'ecco che, con le fauci

schiumanti sangue per la strage di un armento, venne a spegnere

la sete sua nella fonte accanto una leonessa.

Di lontano ai raggi della luna la vide Tisbe

e con le gambe tremanti corse a rifugiarsi in un antro oscuro,

ma nel fuggire lasciò cadere per l'ansia il velo dalle spalle.

La belva feroce, placata a furia d'acqua la sua sete,

mentre tornava nel bosco, trovò per caso abbandonato a terra

quel velo delicato e lo stracciò con le fauci sporche di sangue.

Uscito più tardi, Pìramo scorse in mezzo all'alta polvere

le orme inconfondibili di una belva e terreo

si fece in volto. Quando poi trovò la veste macchiata di sangue:

"Una, una sola notte", gridò, "manderà a morte due innamorati.

Di noi era lei la più degna di vivere a lungo;

colpevole è l'anima mia. Io, sventurata, io ti ho ucciso,

io che ti ho spinto a venire di notte in luoghi così malsicuri,

e neppure vi venni per primo. Dilaniate il mio corpo,

divorate con morsi feroci quest'uomo scellerato

voi, voi leoni, che vi rintanate sotto queste rupi!

Ma è da vili chiedere la morte". Raccolse il velo

di Tisbe e lo portò con sé al riparo dell'albero convenuto;

poi, dopo avere intriso di lacrime e baci quella cara veste:

"Imbeviti ora", esclamò, "anche di un fiotto del sangue mio!".

E si piantò nel ventre il pugnale che aveva al fianco,

poi, ormai morente, fulmineo lo trasse dalla ferita aperta

e cadde a terra supino. Schizza alle stelle il sangue,

come accade se, logoratosi il piombo, un tubo si fende

e da un foro sottile sibilando esce un lungo getto

d'acqua, che sferza l'aria con la sua violenza.


I frutti dell'albero, spruzzati di sangue,

divengono cupi e, di sangue intrisa, la radice

tinge di vermiglio i grappoli delle bacche.

Ed ecco che, ancora impaurita, per non deludere l'amato,

lei ritorna e con gli occhi e il cuore cerca il giovane,

impaziente di narrargli a quanti pericoli è sfuggita.

Ma se riconosce il luogo e la forma della pianta,

la rende incerta il colore dei frutti: in forse se sia quella.

Ancora in dubbio, vede un corpo agonizzante che palpita a terra

in mezzo al sangue; arretra e, col volto più pallido del legno

di bosso, rabbrividisce come s'increspa il mare,

se una brezza leggera ne sfiora la superficie.

Ma dopo un attimo, quando in lui riconosce il suo amore,

in pianto disperato si percuote le membra innocenti,

si strappa i capelli abbracciata al corpo dell'amato,

colma la ferita di lacrime, confonde il pianto

col sangue suo e, imprimendo baci su quel volto gelido,

grida: "Quale sventura, quale, Pìramo, a me ti ha strappato?

Pìramo, rispondi! Tisbe, è la tua amatissima Tisbe

che ti chiama. Ascoltami, solleva questo tuo volto inerte!".

Al nome di Tisbe Pìramo levò gli occhi ormai appesantiti

dalla morte e, come l'ebbe vista, per sempre li richiuse.


Solo allora lei riconobbe la sua veste e scorse il fodero

d'avorio privo del pugnale: "La tua, la tua mano e il tuo amore

ti hanno perso, infelice! Ma per questo anch'io ho mano ferma,"

disse, "e ho il mio amore: mi darà lui la forza d'uccidermi.

Nell'oblio ti seguirò; si dirà che per sciagura fui io causa

e compagna della tua fine. Solo dalla morte, ahimè, potevi

essermi strappato, ma neanche da quella potrai esserlo ora.

Pur travolti dal dolore esaudite almeno, voi che genitori

siete d'entrambi, la preghiera che insieme vi rivolgiamo:

non proibite che nello stesso sepolcro vengano composte

le salme di chi un amore autentico e l'ora estrema unì.

E tu, albero che ora copri coi tuoi rami il corpo sventurato

d'uno solo di noi e presto coprirai quelli di entrambi,

serba un segno di questo sacrificio e mantieni i tuoi frutti

sempre parati a lutto in memoria del nostro sangue!"

Questo disse, e rivolto il pugnale sotto il suo petto,

si lasciò cadere sulla lama ancora calda di sangue.

E almeno la preghiera commosse gli dei, commosse i genitori:

per questo il colore delle bacche, quando sono mature, è nero

e ciò che resta del rogo in un'urna unica riposa».


La storia di Piramo e Tisbe è stata narrata e cantata nella letteratura europea. Tra le varie opere che parlano di questo amore accostato a quello tra Romeo e Giulietta va ricordata quella di Shakespeare:

In Sogno di una notte di mezza estate, e già nel titolo sono possibili diverse letture soggettive: il sogno nella notte: ciò che è reale e ciò che è apparenza, l'estate ossia la giovinezza "di mezza" al suo fiorire massimo allorché l'autunno sembra, si ,un sogno lontano; poi fra folletti, spiriti , filtri e lo schema "A ama B, ma B ama C", per di più con le varie lettere che si accavallano vorticosamente per gelosie, magie, equivoci....si, può essere vista come una fiaba fascinosa, magicamente teatrale. Il fatto è che il Bardo ci mette sempre la questione del potere, che lui affronta su diversi piani e diversi toni, a volte tragici, a volte grotteschi, scurrili persino, anche la sua opera più romantica Giulietta e Romeo, è costellata di doppi sensi e battute da taverna, gusto legato al teatro elisabettiano? che poi in effetti era un teatro popolare, non credo solo quello, è che questo geniaccio, vede la vita nella sua totale interezza.


Il curioso di questo lavoro di Shakespeare, , è come buffonescamente venga raccontata la storia di amore e morte, un topos ricorrente nel mito, nella poesia, nell'arte, visto che è un tema base della vita.

Piramo e Tisbe veri sono i signori bene che fanno il sogno in realtà, i contadini che si improvvisano attori offrono un servizio per il divertimento dei signori, insomma non pigliano seriamente la storia più di tanto, offrono un servizio e basta, il tutto poi ambientato in Atene, riconosciuta patria della democrazia, dove ci si confronta con le imposizioni di un padre dispotico e dove al suo dispotismo si cerca di ribellarsi. Il dispotismo e la violenza sono temi dominati in questo geniaccio, e qui non c'è solo quello di chi ha il comando e delle leggi di Atene da osservare, ma c'è anche la denuncia di come violenza e prevaricazione stiano anche dentro un rapporto fra amanti, il Bardo era femminista prima del femminismo!

infatti : atto II scena uno la solidarietà fra donne si contrappone all'ordinamento patriarcale, Ovidio invece fa finire la sua bellissima storia in modo moralistico Il tema dominante dell'opera infatti non è amore e morte che viene sbeffeggiato in questo caso, il tema vero è la fragilità di ogni trasporto umano, quando non è accompagnato alla ragione, perchè in quel caso è solo un abbaglio, una magia, una confusione intricatissima che non ti fa vedere nemmeno che corri dietro ad una testa di asino! ci si risveglia alla fine e come un sogno svanisce il tutto: vale solo per l'amore? vale per tutto quel che capita nella vita?

Lisandro (Piramo in effetti ) dice, quando rinsavisce o crede di rinsavire:

"la ragione guida finalmente i miei desideri

e mi conduce ai tuoi occhi, dove leggo

tenere storie scritte nel più bel libro d'amore".

Amore e ragione per tutta la commedia invece di amor che fa rima con cor.

il quesito che si pone il poeta: è possono le passioni, ogni moto istintivo dell'animo essere governate dalla razionalità? I desideri possono essere ragionevoli?

Se noi ignoriamo le ragioni profonde, reali di ogni desiderio che nasce spontaneo, siamo fragili, vulnerabili, mai raggiungeremo la completezza di un rapporto che sappia trattenere a lungo il calore umano, se noi ignoriamo la ragione vera, profonda, possiamo alla fine essere dei dementi come Lisandro che giustificando le sue passate leggerezze chiama ERESIA, un precedente amore per quello del senno ritrovato: è solo un moralista, pure lui! che crede di aver ritrovato la ragione.

Fantasia o realtà? questo è il quesito che ci pone Shakespeare, e pare dire è una scelta complicata ma che va fatta!

Teseo:

Amanti e pazzi hanno un cervello così fervido,

una fantasia così fertile,che concepiscono

più di quanto la fredda ragione possa comprendere.

Il lunatico, l'amante e il poeta

sono tutti fatti d'immaginazione

....

La forte fantasia fa di questi scherzi:

se si spera di provare una certa gioia,

s'inventa la persona che reca quella gioia;

o se, di notte, si prova una certa paura,

com'è facile scambiare un cespuglio per un orso!"


Eremo Via vado di sole , L'Aquila, mercoledì 12 gennaio 2011

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