lunedì 17 gennaio 2011

LA PANARDA DI S. ANTONIO ABATE

LA PANARDA DI S. ANTONIO ABATE

Scrive Angelo Melchiorre su http://www.terremarsicane.it/node/722

Il termine «panarda» - un termine certamente non comune e, fino a qualche tempo fa, ignoto ai piú - è diventato da alcuni anni motivo di discussione e perfino di scontro tra gli studiosí di tradizioni locali abruzzesi. Gli aquilani, facendosi forti del nome di un giornalista quale Edoardo Scarfoglio, rivendicano a sé (o, meglio, alla loro frazione di Paganica) l'origine della parola e... del rito.

I marsicani, a loro volta (e, forse, con un pizzico di ragione in piú) affermano che le «panarde» sono e sono state sempre tipiche della loro zona, cioè della Marsica. E, nel recla-mare il giusto riconoscimento dei loro diritti, anch'essi si rifanno alla testimonianza di un grande folklorista abruzzese, Antonio De Nino, il quale ne parla nei suoi Usi e costumi abruzzesi.

In ogni modo - anche se noi decidessimo di optare per questa «paternitá» marsicana - non è facile stabilire in quale dei numerosi centri della Marsica le «panarde» abbiano avuto la loro genesi e il loro sviluppo storico... culinario!

Una tradizione locale, resa famosa dalla penna di un brillante scrittore avezzanese, Federico Nardelli, parla di Luco dei Marsi come del paese per antonomasia della «panarda»:


«II paese della Panarda è composto di un grosso gruppo di case che incombono sulla via principale; alle estremitá, la attanagliano. E la via per imboccare l'abitato diviene angusta e sporca. Larghe lastre di pietra la rendono sdrucciolevole ai quadrupedi. Poi riesce in piazza, dove il ciglio a valle è sgombro e aperto a belvedere. Poi ancora si restringe e s'insudicia per uscire alla campagna aperta, dove riprende l'aspetto deserto e va verso i paesi annidati lungi, per le falde della giogaia». Ma la «panarda» non si svolge solo a Luco dei Marsi. Essa si fa anche a Villavallelonga, ai margini del Parco Nazionale d'Abruzzo, dove fin dal 1652 gli antenati di un certo Pietro Paolo Serafini distribuivano a tutta la popolazione, in segno di devozione per S.Antonio Abate, «le minestre di fave».

E si effettuava, sempre con lo stesso nome, perfino a Trasacco e a Sante Marie; ed anche a Pietrasecca, Pereto e Carsoli, localitá in cui le «panarde» duravano tutta la notte: per la qual cosa - come denunció nel 1735 l'arciprete di Carsoli - «alcuni preti perdono perfino la messa!».

E, con nomi diversi («ceci» o «cenacoli») essa si effettua ancor oggi a Scurcola Marsicana.

Ma che cos'erano queste misteriose «panarde»? Sentiamo un diretto protagonista d'oggi: «Adesso faremo la panarda, proprio la tradizione della nostra panarda per grazia ricevuta da secoli passati dal santo venuto, che si è fermato su Villavallelonga. E da noi ereditariamente abbiamo fatto sempre la piú grande panarda di questo paese. È l'unica casa che verranno invitati tutti i forestieri piú lontano, oltre in tutta la nostra regione degli Abruzzi. La panarda che noi facciamo non è soltanto per invitati che sono questa sera, che saranno a tavola a mangiare; per quanto sará, per quelli che partecipano dopo il pranzo; giá a tutti quanti viene offerto da mangiare e da bere a sua soddisfazione. Alla fine del pranzo viene celebrato il Santo Rosario, tradizione di questa devozione del santo. E dopo celebrato il Santo Rosario, viene cantato la canzone di S.Antonio Abate, e quello sarebbe l'inizio di suoni, canti e balli per fino alla mattina del 17 corrente». (l'«Avvocato» di Villavallelonga). Dunque, dalle parole dell'«avvocato-contadino» di Villavallelonga, siamo venuti a sapere che la «panarda» è un banchetto collettivo, offerto da qualche devoto in occasione di ricorrenze religiose.

Dato per scontato questo signíficato devozionale della «panarda», si apre peró un serio e difficile problema: qual è il vero «menú» delle panarde? Ma, purtroppo, l'accordo sul menu non è tanto facile come qualcuno potrebbe pensare. Le «panarde» di Scurcola Marsicana prevedevano (secondo lo statuto e secondo la tradizione) un povero piatto di ceci lessati. Quelle di Luco dei Marsi, una modesta cena offerta ai predicatori forestieri dal Comitato dei festeggiamenti dello «Spirito Santo». Quelle di Villavallelonga, una semplice minestra di fave bollite: «E prima che s'inizi a mangiare - perché ci sta gente che o non ci tiene o non lo sa fare - all'antipasto vi mangiate le fave: ci do l'ordine prima d'iniziare il pranzo, perché pe' dovizione sono le fave che noi facciamo questa festa; e vi dovete mangiare le fave, vi dovete mangiare. Non perché le fave vengono messe secondo la vostra veduta, ma perché non mangiate le fave. Chi non mangia le fave, non po' venì alla mia panarda..., non po' venì alla mia festa, perché la festa del santo viene onorata con le fave [...]». («Avvocato» di Villavallelonga, 1982).


E proprio su queste «fave bollite» di Villavallelonga si scatenó, nel 1982, una violenta polemica giornalistica tra il sindaco di quel centro, il prof.Domenico Grande, ed un noto poeta dialettale di Collelongo, l'avv.Walter Cianciusi.

Sentiamo la definizione di «panarda» data dal Cianciusi: «A Villavallelonga [...] la Panarda [...] è fatta di fave bollite...». Ed ecco la risposta, alquanto risentita, del prof.Domenico Grande: «La Panarda non è fatta di fave bollite, è tutt'altra cosa. [...] È una lauta e succulenta cena, che viene fatta da alcune famiglie; gli invitati sono parenti ed amici». II prof.Grande, anzi, azzarda persino una spiegazione etimologica del nome «panarda», facendolo derivare dal greco pan (tutto) e ardo (nutro, rifocillo, sfamo). II Cianciusi, allora, ironizza su tale definizione scrivendo: «Un rituale, quindi, questo della panarda di Villavallelonga, che, secondo il Grande, ha radici precristiane, come il pandoro (tutto d'oro) a Milano e il pancotto (tutto cotto) altrove!».


Insomma, una discussione che avrebbe potuto portare i due illustri contendenti perfino davanti al giudice, se non fosse provvidenzialmente intervenuto qualche «santo protettore» (magari lo stesso Spirito Santo) a mitigare i bollenti animi e a ricondurre la questione alle sue giuste dimensioni: «Ma l'amore supera ogni limite. Sí, perché lo Spirito Santo è qui, con noi tutti. La mia esperienza è di solo un anno; ma mi basta per capire la sostanza di questa millenaria tradizione. Perció, compare carissimo, sii fiero del passo che stai compiendo. Sii devoto a questo Santo Spirito; e in piú abbi fede, perché Lui ti aiuterá e ti benedirá insieme alla tua famiglia. Perché da oggi, e sempre, si dirá: In questa casa c'è stato lo Spirito Santo». (Registraz. dal vivo, Luco 1982).


Siamo a Luco dei Marsi, nel momento in cui i «compari» dello Spirito Santo si scambiano le consegne. E proprio la festa dello Spirito Santo, o Pentecoste (o, anche, Pasqua Rosata), è l'occasione religiosa della prolungata «panarda» di questo centro del Fucino. Qui a Luco, una volta, la panarda durava ben otto giorni; nel passato piú recente si era ridotta a tre giorni di banchetto collettivo, per trasformarsi, infine, in questi ultimi anni, in un'unica grande cerimonia rituale, che si conclude con il pasto della «colomba» o del piccioncino, pasto consumato dai soli "signori" o compari dello Spirito Santo. Una descrizione del triplice banchetto collettivo, che per decenni e, forse, per secoli si è svolto a Luco dei Marsi in tale occasione festiva, è quella fornitaci dal giá ricordato Federico Nardelli, autore (nel 1927) di un romanzo intitolato appunto La Panarda:

«La panarda era un pasto rituale di trenta portate. Si faceva obbligo ai commensali di resistervi fino in fondo. Rifiutare i cibi, era somma scortesia. Similmente, avanzarli. Le porzioni erano di una abbondanza entusiasta. E un tal desinare si ripeteva durante tre giorni consecutivi...».


Ma all'origine, certamente, la panarda era ben diversa. Ecco cosa si legge in un documento del 1771: «Corre tradizione in Luco dei Marsi, che nel 1479 una donnicciuola, per celebrare una qualche festa allo Spirito Santo, incominciasse a ritrarre dai paesani alcuna limosina, quale impiegava a suo modo in onore dello Spirito Santo; e che quella donna, morendo, lasciasse una sua casetta sita nella stessa Terra in piazza detta del Macello, perché servisse di magazzeno alla questua che si faceva per la festa dello Spirito Santo, e di ricetto a' preti forastieri, i quali concorressero a celebrar messe nella festa medesima. Questa pia osservanza della donna fece profonde radici nell'animo di tutta la cittadinanza, tanto che generalmente contribuiva larghe limosine per l'annuale celebrazione di tal festa. E vieppiú crescendo questo zelo, si cominció ad invitare preti forastieri oltre i cittadini, per officiare la solennitá, che durava otto giorni.

Ed a' preti non pur si dava una limosina in danaro [...], ma si preparava mensa per tutto detto tempo. E questo costume tuttavia persiste...». Dunque, una tradizione che risalirebbe (secondo la testimonianza appena letta) a oltre cinquecento anni fa. E la panarda non era altro che una modestissima cena offerta dalla popolazione di Luco dei Marsi ai preti «forastieri» che si recavano a predicare nel loro paese! Ben presto, peró, dovette diventare una cena tutt'altro che modesta, se giá nel 1705 il vescovo dei Marsi mons.Corradini fu costretto ad emanare un Editto, con il quale vietava le «panarde» per il seguente motivo: «[...] Alcune feste, che si fanno nella nostra diocesi, massime nella Pentecoste e nel Corpus Domini, si spendono nelle panarde [...] con ubriachezze et altre indecenze, et accesso de' secolari dell'uno e dell'altro sesso, non senza scandalo e offese di Dio [...]».

Divieto poco ascoltato, tuttavia, se 65 anni dopo (nel 1770) fu costretto ad intervenire lo stesso Ferdinando IV, re di Napoli, che il 17 ottobre di quell'anno emanó il seguente Reale Dispaccio contro le «panarde»: «La Regale Maestá proibisce, sotto gravi pene, alla Congregazione dello Spirito Santo di Luco ne' Marsi lo andar questuando, ed a' preti d'intervenire in simili Baccanali, i quali debbono essere in tutto aboliti [...]. E punisce gravemente, in caso d'inosservanza, i trasgressori suoi sudditi».


Eremo Via vado di sole , L'Aquila, lunedì 17 gennaio 2011

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