sabato 13 novembre 2010

ALLEGORIE : Il re travicello

Allegorie

il Re, il Popolo e i Nemici Stolti

C' era una volta un re Travicello che governava il Popolo convinto di essere lui stesso il Popolo e che il Popolo e le figlie del Popolo e tutte le cose del Popolo fossero roba sua. Sinceramente innamorato del Popolo ovvero di sé, escogitava leggi per il bene del Popolo e dunque di se stesso e per impedire che qualcuno potesse punire eventuali malefatte del Popolo cioè sue. Da vero sovrano laico, riteneva che il Popolo fosse più grande di Dio e che, se era il caso, fosse meglio bestemmiare Dio che il Popolo ovvero se stessi. Dopo qualche tempo, il Popolo - quello vero - cominciò a dar segni di malessere e d' insofferenza nei suoi confronti, a mostrare desiderio che lui se ne andasse a casa, che si ritirasse in una delle sue tante Case del Popolo. Ma i suoi nemici, giustamente esasperati dalle sue megalomanie sempre più ripugnanti, si dimostrarono così stolti da mettersi a parlare tutto il tempo di lui, contro di lui, solo di lui, facendogli il regalo di sentirsi sempre più il Popolo, il protagonista del mondo, di gonfiarsi come il re delle rane della favola, ma senza scoppiare. Non si poteva accendere la televisione senza vedere o lui, il Popolo, che straparlava o i suoi nemici che ripetevano - sia pure per deplorarli - i suoi strafalcioni; diventava sempre più difficile passare la serata vedendo un onesto film anziché il Popolo e gli amici, pardon, i nemici del Popolo. Così alla fine il Popolo, che aveva finalmente cominciato a stancarsi delle sconvenienze del re Travicello, finì per stancarsi di sentir parlare solo di lui e lo aiutò, sia pur di malavoglia, a restare sul trono, per disgrazia di tutto il Popolo - è troppo presto per dire se, alla fine, anche sua.

Magris Claudio

Pagina 56 (4 novembre 2010) - Corriere della Sera


«Quando il Loggione» Caro direttore, quando il Loggione chiede il bis bisogna bissare perché quelli del Loggione sono veri intenditori e se loro applaudono alla eccellenza di un' esecuzione vuol dire che c' è vera qualità e vale la pena di ripetere. Allo stesso modo, come vecchio loggionista del Corriere, sono a chiederle una cortesia: quella di bissare - in questo caso ripubblicare - la favola del re Travicello che Claudio Magris ci ha raccontato con grande maestria sul Corriere. Mi rendo conto che la regola di un giornale impone di non ripubblicare mai il medesimo pezzo. Ma questo riguarda la natura dell' informazione, che è quella di un giornale e che inevitabilmente cambia come le lancette dell' orologio: non fai a tempo a dire che è mezzogiorno e già è mezzogiorno e uno. Ma la fiaba allegorica di re Travicello è come quelle ingenue immaginette di San Rocco che si vedevano inchiodate sull' uscio delle stalle per preservare la buona condizione degli animali. E in questo caso - con tutto il rispetto -, nel riferimento della metafora, gli «animali» saremmo noi. Perché ci sono momenti, come questi, dove scoppiano epidemie di stupidità che ci confondono e smarriscono in un ciarpame di obesità intellettuale più nociva delle merendine confezionate. E allora, abbiamo bisogno di qualche giusto richiamo alla saggezza dei semplici e dei giusti, come nelle parabole evangeliche. Allo stesso modo, è per la luminosa fiaba di re Travicello: una parabola del buon senso. E come per ogni bis che interrompe la regola della continuità di un' opera, l' attenzione al valore del brano ripetuto sarà ancora più viva e il piacere di riassaporare più intenso. Per conto mio, ho già inchiodato nella mia mente l' insegnamento di questa «favoletta». Pertanto, caro de Bortoli, - come fa il Maestro direttore d' orchestra - la prego di concedere questo bis dando un più ampio rilievo di collocazione al pari di un elzeviro o, ancora meglio, di un fondo di prima pagina. Ermanno Olmi

Giuseppe Giusti Il re travicello (1841)

Al Re Travicello / piovuto ai ranocchi,/mi levo il cappello/e piego i ginocchi; lo predico anch'io/cascato da Dio:/oh comodo, oh bello/un Re Travicello! Calò nel suo regno/con molto fracasso;/le teste di legno/12fan sempre del chiasso: ma subito tacque,/e al sommo dell'acque/rimase un corbello/il Re Travicello. Da tutto il pantano/veduto quel coso,/«È questo il Sovrano/così rumoroso?» (s'udì gracidare)./«Per farsi fischiare/fa tanto bordello/un Re Travicello? Un tronco piallato/avrà la corona?/O Giove ha sbagliato,/oppur ci minchiona: sia dato lo sfratto/al Re mentecatto,/si mandi in appello/32il Re Travicello». Tacete, tacete;/lasciate il reame,/o bestie che siete,/36a un Re di legname. Non tira a pelare,/vi lascia cantare,/non apre macello/40un Re Travicello. Là là per la reggia/dal vento portato,/tentenna, galleggia,/e mai dello Stato non pesca nel fondo:/che scienza di mondo!/che Re di cervello/è un Re Travicello! Se a caso s'adopra/d'intingere il capo,/vedete? di sopra/lo porta daccapo la sua leggerezza/Chiamatelo Altezza,/ché torna a capello/a un Re Travicello. Volete il serpente/ che il sonno vi scuota?/Dormite contente/costì nella mota, o bestie impotenti:/per chi non ha denti,/è fatto a pennello/un Re Travicello! Un popolo pieno/di tante fortune,/può farne di meno/68del senso comune. Che popolo ammodo,/che Principe sodo,/che santo modello/un Re Travicello!


Postquam immoderata libertas Atheniensium mores corrupit et licentia legum frenum solvit, Pisistratus tyrannus arcem (="l 'acropoli") occupavit. Tum Atheniensibus tristem servitutem flentibus, non quod tyrannus crudelis esset, sed quia civibus dominationi insuetis omne onus grave erat, Aesopus hanc (acc.= "questa") fabulam narravit. Olim ranae errantes liberae in paludibus magno cum clamore ab Iove petiverunt regem ut dissolutos mores vi compesceret. Pater deorum risit atque ranis dedit tigillum, quod magno strepitu in stagnum cecidit. Dum ranae, metu perterritae, in limo latent, una tacite e stagno caput protulit et, explorato rege, cunctas evocavit. Aliae ranae, timore deposito, supra lignum insiluerunt et inutile tigillum omni contumelia laeserunt, postea ad Iovem nonnullas(acc.= "alcune di loro") miserunt ut alium regem peterent. Tum Iuppiter misit horribilem hydrum, qui ingentem ranarum caedem fecit. Frustra miserae ranae per totam paludem currebant ut mortem vitarent; denique furtim ad Iovem Mercurium miserunt petiturum ut ille(nom.= "quello") rursus infelices adiuvaret. Tunc contra(= "in risposta") deorum rex dixit:" Quia noluistis vestrum bonum ferre, nunc malum vestrum perferte!". Etiam Aesopus Athenienses ita admonuit:" Vos quoque, cives, servitutem fertem, ne malum maius(nom.= "più grande") vobis(= "a voi,vi") veniat".

Da Esopo

Dopo che l'immoderata libertà degli Ateniesi corruppe i costumi e l'abuso delle leggi sciolse il freno, il tiranno Pisistrato occupò l'acropoli. Allora agli Ateniesi che piangevano la triste servitù, non perchè il tiranno fosse crudele, ma perchè era pesante il peso ai cittadini non abituati alla dominazione, Esopo narrò questa storia. Una volta le rane che erravano libere nelle paludi chiesero a Giove con grande clamore un re affinchè frenasse con la forza i costumi corrotti. Il padre degli dei rise e diede alle rane un travicello, che cadde con grande rumore nello stagno. Allora le rane, prese dal timore, si nascosero nel limo, una silenziosamente tirò fuori dallo stagno il capo e, visto il re, chiamò tutte. Le altre rane, deposto il timore, salirono sopra il legno e offesero con ogni ingiuria l'inutile tigillo, dopo mandarono a Giove alcune di loro per chiedere un altro re. Allora Giove mandò un orribile serpente, che fece un enorme strage delle rane. Inutilmente le rane correvano per tutta la palude per evitare la morte; infine di nascosto mandarono a Giove Mercurio affinchè quello aiutasse di nuovo le infelici. Allora in risposta il re degli dei disse :" poichè non avete voluto sopportare il vostro bene, ora sopportate il vostro male". Anche Esopo così ammonì gli Ateniesi: " Anche voi, o cittadini, sopportate la servitù, affinchè non vi giunga un male maggiore":


Olim Athenae aequis le gibus florebant, sed paulatim procax libertas civitatem turbaverat bonosque mores corruperat. Tum Pisistratus tyrannus arcem imperiumque occupavit et, quia cives tristem servitutem flebant, Aesopus talem fabellam narravit. Ranae vagabant liberae in palustribus stagnis donec, quod laxatos mores vi compescere cupiebant, ingenti clamore regem a Iove petiere. Pater deorum risit atque parvum tigillum ad ranas demisit. Ut illud (quello, sogg , nom) in paludem missum est, motu sonoque suo ranarum pavidum genus valde terruit. Postea tigillum diu in limo iacuit, donec forte ranarum una caput e stagno tollit et regem magna cum cautela explorat. Ubi ranae togillum iners vident, statim sine ullo timore certatim ad lignum adnatant et tigillum omni contumelia gravibusque verbis laedunt. Postea alterum regem a Iove petiverunt, quoniam deorum pater inutile tigillum dederat dominum. Tum Iuppiter ranis impudentibus hydrum terribilem pestilentemque dedit, qui (che, sogg.) dente aspero multas ranas corripuit. Frusta ranae pavidae mortem fugitabant; timor vocem praecludebat. Tum omnes palustres incolae Iovem iterum per Mercurium, divorum nuntium, orant, sed deus magna voce ita dixit: “ Quia bonum vestrum contempsisti, nunc vero malum mortiferum aequo animo sustinete!” Da Fedro

Quando Atene fioriva con leggi di uguaglianza, la sfrenata libertà sconvolse la città e il capriccio infranse l'antica moderazione. A questo punto, cospirati i partiti delle fazioni politiche, Pisistrato occupa come tiranno l'Acropoli. Visto che gli Ateniesi piangevano la triste schiavitù (non perché quello fosse crudele, ma poiché ogni peso era un fardello per quelli che non erano abituati) e dato che avevano iniziato a lamentarsi, allora Esopo raccontò la seguente favoletta. "Le rane, che vagavano libere nelle paludi, chiesero con grande clamore un re a Giove, che frenasse con la forza i costumi dissoluti. Il padre degli dei rise e diede loro un piccolo bastone, che, lanciato, per l'improvviso movimento e suono del guado spaventò la pavida specie. Poiché queste giacevano da tempo immerse nel fango, casualmente una silenziosamente fa capolino dallo stagno, e, ispezionato il re, chiama tutte quante. Quelle, sciata ogni paura, nuotano a gara verso il re, e una massa sfacciata salta sopra il bastoncino. Avendolo disonorato con ogni insulto, inviarono a Giove delle rane per chiedergli di un altro re, in quanto quello che era stato dato loro era inutile. Allora Giove diede alle rane impudenti un tremendo e nocivo, che afferrò con in dente aguzzo molte rane. Inutilmentre le rane pavide fuggivano la morte, il timore impediva la voce. Allora tutte le abitanti palustri pregano Giove attraverso Mercurio, nunzio degli dei, ma il dio a gran voce così disse: poichè avete disprezzato il vostro bene, ora in vero sostenete con animo giusto un male mortifero.

Jean de La Fontaine - Favole

Libro terzo


IV - Le Rane vogliono un re

Già sazie le Rane di stare in repubblica, gracchiarono tanto, che Giove pensò di dare allo stato la forma monarchica, e un re tranquillissimo ad esse mandò.

Ma tanto fu il chiasso ch’ei fe’ nel discendere, che scappan le Rane in preda al terror. Sott’acqua, nel fango, quegl’umidi sudditi non osano mettere il muso di fuor.

Ma quel che un gigante dapprima credettero apparve più tardi un re travicel. Sentendo dell’acqua finito il subbuglio, or questa, ora quella, le rane, bel bel,

due prima, poi quattro, tremando in principio, poi dieci si accostano a sua Maestà. Poi piglian coraggio, si fanno domestiche, e c’è qualche ardita, che in groppa gli va.

Il re travicello, che adora i suoi comodi, non parla, non si agita, pacifico in sé. Allora i Ranocchi con Giove borbottano, ché vogliono un re, che faccia da re.

Il re degli Dèi per tôrsi il fastidio, - Prendete, - risponde, e manda la Gru, che becca, che stuzzica, che infilza, che storpia: resistere i sudditi non possono più.

Ma Giove, gridando, pon fine agli strepiti: - Ognuno il governo che merita avrà. Un re non voleste leale e pacifico tenete la bestia che addosso vi sta -. 


Eremo Via vado di sole, L'Aquila, sabato 13 novembre 2010

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