il Re, il Popolo e i Nemici Stolti
C' era una volta un re Travicello che governava il Popolo convinto di essere lui stesso il Popolo e che il Popolo e le figlie del Popolo e tutte le cose del Popolo fossero roba sua. Sinceramente innamorato del Popolo ovvero di sé, escogitava leggi per il bene del Popolo e dunque di se stesso e per impedire che qualcuno potesse punire eventuali malefatte del Popolo cioè sue. Da vero sovrano laico, riteneva che il Popolo fosse più grande di Dio e che, se era il caso, fosse meglio bestemmiare Dio che il Popolo ovvero se stessi. Dopo qualche tempo, il Popolo - quello vero - cominciò a dar segni di malessere e d' insofferenza nei suoi confronti, a mostrare desiderio che lui se ne andasse a casa, che si ritirasse in una delle sue tante Case del Popolo. Ma i suoi nemici, giustamente esasperati dalle sue megalomanie sempre più ripugnanti, si dimostrarono così stolti da mettersi a parlare tutto il tempo di lui, contro di lui, solo di lui, facendogli il regalo di sentirsi sempre più il Popolo, il protagonista del mondo, di gonfiarsi come il re delle rane della favola, ma senza scoppiare. Non si poteva accendere la televisione senza vedere o lui, il Popolo, che straparlava o i suoi nemici che ripetevano - sia pure per deplorarli - i suoi strafalcioni; diventava sempre più difficile passare la serata vedendo un onesto film anziché il Popolo e gli amici, pardon, i nemici del Popolo. Così alla fine il Popolo, che aveva finalmente cominciato a stancarsi delle sconvenienze del re Travicello, finì per stancarsi di sentir parlare solo di lui e lo aiutò, sia pur di malavoglia, a restare sul trono, per disgrazia di tutto il Popolo - è troppo presto per dire se, alla fine, anche sua.
Magris Claudio
Pagina 56 (4 novembre 2010) - Corriere della Sera
Giuseppe Giusti Il re travicello (1841)
Al Re Travicello / piovuto ai ranocchi,/mi levo il cappello/e piego i ginocchi; lo predico anch'io/cascato da Dio:/oh comodo, oh bello/un Re Travicello! Calò nel suo regno/con molto fracasso;/le teste di legno/12fan sempre del chiasso: ma subito tacque,/e al sommo dell'acque/rimase un corbello/il Re Travicello. Da tutto il pantano/veduto quel coso,/«È questo il Sovrano/così rumoroso?» (s'udì gracidare)./«Per farsi fischiare/fa tanto bordello/un Re Travicello? Un tronco piallato/avrà la corona?/O Giove ha sbagliato,/oppur ci minchiona: sia dato lo sfratto/al Re mentecatto,/si mandi in appello/32il Re Travicello». Tacete, tacete;/lasciate il reame,/o bestie che siete,/36a un Re di legname. Non tira a pelare,/vi lascia cantare,/non apre macello/40un Re Travicello. Là là per la reggia/dal vento portato,/tentenna, galleggia,/e mai dello Stato non pesca nel fondo:/che scienza di mondo!/che Re di cervello/è un Re Travicello! Se a caso s'adopra/d'intingere il capo,/vedete? di sopra/lo porta daccapo la sua leggerezza/Chiamatelo Altezza,/ché torna a capello/a un Re Travicello. Volete il serpente/ che il sonno vi scuota?/Dormite contente/costì nella mota, o bestie impotenti:/per chi non ha denti,/è fatto a pennello/un Re Travicello! Un popolo pieno/di tante fortune,/può farne di meno/68del senso comune. Che popolo ammodo,/che Principe sodo,/che santo modello/un Re Travicello!
Da Esopo
Dopo che l'immoderata libertà degli Ateniesi corruppe i costumi e l'abuso delle leggi sciolse il freno, il tiranno Pisistrato occupò l'acropoli. Allora agli Ateniesi che piangevano la triste servitù, non perchè il tiranno fosse crudele, ma perchè era pesante il peso ai cittadini non abituati alla dominazione, Esopo narrò questa storia. Una volta le rane che erravano libere nelle paludi chiesero a Giove con grande clamore un re affinchè frenasse con la forza i costumi corrotti. Il padre degli dei rise e diede alle rane un travicello, che cadde con grande rumore nello stagno. Allora le rane, prese dal timore, si nascosero nel limo, una silenziosamente tirò fuori dallo stagno il capo e, visto il re, chiamò tutte. Le altre rane, deposto il timore, salirono sopra il legno e offesero con ogni ingiuria l'inutile tigillo, dopo mandarono a Giove alcune di loro per chiedere un altro re. Allora Giove mandò un orribile serpente, che fece un enorme strage delle rane. Inutilmente le rane correvano per tutta la palude per evitare la morte; infine di nascosto mandarono a Giove Mercurio affinchè quello aiutasse di nuovo le infelici. Allora in risposta il re degli dei disse :" poichè non avete voluto sopportare il vostro bene, ora sopportate il vostro male". Anche Esopo così ammonì gli Ateniesi: " Anche voi, o cittadini, sopportate la servitù, affinchè non vi giunga un male maggiore":
Quando Atene fioriva con leggi di uguaglianza, la sfrenata libertà sconvolse la città e il capriccio infranse l'antica moderazione. A questo punto, cospirati i partiti delle fazioni politiche, Pisistrato occupa come tiranno l'Acropoli. Visto che gli Ateniesi piangevano la triste schiavitù (non perché quello fosse crudele, ma poiché ogni peso era un fardello per quelli che non erano abituati) e dato che avevano iniziato a lamentarsi, allora Esopo raccontò la seguente favoletta. "Le rane, che vagavano libere nelle paludi, chiesero con grande clamore un re a Giove, che frenasse con la forza i costumi dissoluti. Il padre degli dei rise e diede loro un piccolo bastone, che, lanciato, per l'improvviso movimento e suono del guado spaventò la pavida specie. Poiché queste giacevano da tempo immerse nel fango, casualmente una silenziosamente fa capolino dallo stagno, e, ispezionato il re, chiama tutte quante. Quelle, sciata ogni paura, nuotano a gara verso il re, e una massa sfacciata salta sopra il bastoncino. Avendolo disonorato con ogni insulto, inviarono a Giove delle rane per chiedergli di un altro re, in quanto quello che era stato dato loro era inutile. Allora Giove diede alle rane impudenti un tremendo e nocivo, che afferrò con in dente aguzzo molte rane. Inutilmentre le rane pavide fuggivano la morte, il timore impediva la voce. Allora tutte le abitanti palustri pregano Giove attraverso Mercurio, nunzio degli dei, ma il dio a gran voce così disse: poichè avete disprezzato il vostro bene, ora in vero sostenete con animo giusto un male mortifero.
Jean de La Fontaine - Favole
Libro terzo
Già sazie le Rane di stare in repubblica, gracchiarono tanto, che Giove pensò di dare allo stato la forma monarchica, e un re tranquillissimo ad esse mandò.
Ma tanto fu il chiasso ch’ei fe’ nel discendere, che scappan le Rane in preda al terror. Sott’acqua, nel fango, quegl’umidi sudditi non osano mettere il muso di fuor.
Ma quel che un gigante dapprima credettero apparve più tardi un re travicel. Sentendo dell’acqua finito il subbuglio, or questa, ora quella, le rane, bel bel,
due prima, poi quattro, tremando in principio, poi dieci si accostano a sua Maestà. Poi piglian coraggio, si fanno domestiche, e c’è qualche ardita, che in groppa gli va.
Il re travicello, che adora i suoi comodi, non parla, non si agita, pacifico in sé. Allora i Ranocchi con Giove borbottano, ché vogliono un re, che faccia da re.
Il re degli Dèi per tôrsi il fastidio, - Prendete, - risponde, e manda la Gru, che becca, che stuzzica, che infilza, che storpia: resistere i sudditi non possono più.
Ma Giove, gridando, pon fine agli strepiti: - Ognuno il governo che merita avrà. Un re non voleste leale e pacifico tenete la bestia che addosso vi sta -.
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