giovedì 10 febbraio 2011

BIBLIOFOLLIA : Togliamo il disturbo

BIBLIOFOLLIA : Togliamo il disturbo


Dopo il terremoto del 6 aprile 2009 a L’Aquila per raggiungere il mio ufficio sono costretto a percorrere un tratto di strada Acquasanta sul quale sorge un copiscuo e numeroso polo scolastico. Già prima del terremoto a Colle Sapone erano ubicati alcuni plessi scolastici che sono diventati successivamente più numerosi. Impiego in macchina circa un quarto d’ora , incolonnato nel traffico , fermo ad aspettare che i genitori facciano scendere proprio in mezzo alla strada i figli dalle auto o in attesa che i pulman riescano a guadagnare il ciglio della strada per le fermate. A volte riesco ad osservare i ragazzi e le ragazze , adolescenti dall’età della scuola media inferiore al quinto liceo scientifico , nel loro abbigliamento, con i loro zaini, borse o quattro libri in mano. Pacchi di fogli da disegno con le copertine strappate, disegnate , jeans attillati, cappucci calati fin sopra gli occhi ( a L’Aquila alle otto del mattino nei mesi invernali fa decisamente freddo ) , scarpine con un po’ di tacco, scarponi e scarponcini, pantaloni con il cavallo alle ginocchia .

Una massa scura, parlottante che sale lungo via Acquasanta dalla sottostante Via Panella. Li osservo meglio poi quando li guardo dalla finestra del mio ufficio che sta proprio su via Acquasanta

Stamattina nell’osservarli ho ripensato alla recensione di Pietro Citati al libro di Paola Mastrocola : “ Togliamo il disturbo”.


Dice Citati : “ Nessuno, o quasi nessuno tra quei ragazzi ha voglia di andare a scuola. Nessuno si vergogna di questo rifiuto . Tutti detestano leggere o scrivere o ascoltare le lezioni. Qualche volta, basta ascoltarli per cinque minuti. Il lessico umano è immenso, ma i ragazzi ne conoscono pochissime parole : usano termini impropri , pasticciano , confondono ortografia e punteggiatura. Non sanno pensare. Non riescono a distribuire le idee e le sensazioni secondo una architettura. Elaborare i concetti e disporli nel tempo sembra. A ciascuno di loro , un’impresa disperatissima. Discorrono in modo vuoto , con parole senza vita, senza agilità e movimento “.

Mi domando se Citati abbia ragione, se è così. E se è così domani mattina mi devo ricordare di guardare bene in faccia quei ragazzi quando sto fermo con l’auto incolonnato nel traffico e loro mi passano a fianco. E mi devo sforzare di ascoltare i loro discorsi.

Comunque sono sicuro che Paola Mastrocola nello scrivere quel suo libro “ Togliamo il disturbo” li ha guardati in faccia e ha ascoltato le loro parole. Mastrocola e Citati non può fare a meno di dirlo “ ama i suoi ragazzi , perennemente annoiati e in quei lunghi sbadigli percepisce delusioni, desideri speranse. Quando guarda verso le cattedre si accorge che i professori non posseggono il dono di insegnare . Nel mondo e nei libri , non esiste quasi nulla di noioso: tutto è misterioso , concentrato, enigmatico, affascinante. Basta saper capire e interpretare: Ma i professori lasciano spento quello che era spento, morto ciò che era morto. Sopra il loro capo ci sono i volti dei presidi : Sopra quello dei presidi , i sottosegretari : sopra quello dei sottosegretari, l’intelligenza sovrana dei Ministri – riformatori…. “


E qui il discorso si fa difficile . E’ vero che la scuola con le ultime riforme viene smantellata mattone dopo mattone e va verso la distruzione ? Oppure è proprio per porre rimedio a questa distruzione a questo degrado che una riforma doveva essere approntata e fatta costi quel che costi ?

Io non lo so perché non faccio l’insegnante e non ho più figli che frequentano la scuola.

So che su questi temi sarebbe possibile formare un’opinione attraverso un dibattito serio e serrato che non fa sconti a nessuno con la partecipazione del movimento studentesco. Ho visto poche occasione in cui gli argomenti pro e contro sono stati affrontati con queste modalità.


Ho visto con simpatia, avendo partecipato da studente a quel movimento e a quello che accadde nel 1968 , il comportamento degli studenti e del loro nonno ( scherzando mi riferisco al Presidente della Repubblica ) che sono riusciti a spostare l’attenzione sulla sostanza dei problemi. Attenzione che va coltivata per dare però risultati.

E proprio dopo aver ricordato quegli studenti mi piace continuare a leggere Citati perché mi fa ripercorrere un percorso che poi in defintiva è quello della mia adolescenza .


“Nel 1943, avevo tredici anni, come gli alunni sonnacchiosi di Paola Mastrocola, e attraversavo le stesse esperienze. Non andavo mai a scuola: non studiavo né il latino né il greco. I bombardamenti di Torino avevano costretto la mia famiglia a rifugiarsi in un'immensa casa in Liguria, con stanze altissime, scale ombrose, soffitte che accoglievano uccelliere vaste come saloni. In quel piccolo paese di mare, vivevo quasi solo. La scuola del capoluogo vicino era chiusa perché gli aerei inglesi mitragliavano le strade: i miei due migliori amici erano stati fucilati durante un rastrellamento tedesco; e qualcosa nel mio contegno teneva lontani da me i ragazzi del paese, coi quali avrei voluto giocare a pallone.


Tutti i libri della mia casa di Torino erano finiti in una cucina abbandonata: identica a quella del Castello di Fratta. Mio padre li aveva sistemati a caso dentro vecchie librerie o lasciati dentro le casse. Dovunque mi avventurassi e esplorassi, l'immensa casa grondava di libri. Un avo aveva nascosto il suo Buffon, il suo Voltaire, la sua Encyclopédie dentro una cassapanca della soffitta: mia nonna aveva raccolto i romanzi della sua Bibliothèque rose, pubblicazioni audaci del Settecento, libri di spiritismo e di rivendicazioni femministe in una madia della stanza da pranzo: dal ripostiglio di cucina emergevano le storie di battaglia, gli studi di tattica e di strategia, che mio nonno militare aveva amato: nelle stanze da letto qualcuno aveva disseminato i fascicoli di un feroce romanzo antimassonico; mentre nel salotto facevano pompa di sé i volumi delle mediocri glorie letterarie della famiglia. Vivevo rinchiuso nella cucina-biblioteca, nella soffitta-biblioteca, nei ripostigli-biblioteca: in tutti gli angoli di quell'alveare ronzante di libri.


Fino allora avevo letto soltanto i romanzi di Salgari. All'improvviso, mi misi a leggere tutti i libri di casa: senza scelta né discernimento, perché la mia curiosità senza forma prendeva tutte le forme. Shakespeare nella versione ottocentesca di Andrea Maffei, i libri rosa di mia nonna, i racconti delle battaglie russo-giapponesi che mio nonno compilava per la Rivista militare, le meravigliose descrizioni di uccelli nella Histoire naturelle di Buffon, le voci dell'Encyclopédie sulle arti, la Storia delle crociate affidata alla penna fantastica di Gustave Doré. Non smettevo mai. Appena sveglio, scendevo in cucina: passavo tra i libri la mattina e il pomeriggio; e la voce di mia madre mi chiamava inutilmente a cena. Quelle letture mi hanno segnato per sempre: malgrado gli anni, sono rimasto un dilettante, a casa in tutti i luoghi e in nessun luogo. La biblioteca domestica, frutto casuale della sedimentazione del tempo, figlia delle generazioni, luogo aperto all'invincibile curiosità, è la più formativa che esista. Con tutte le sue lacune e stranezze, eccita la passione del libro molto più della biblioteca scolastica, dove i libri sono scelti e registrati in ordine, e sopravvivono soltanto i trionfatori della storia e della letteratura.

Finì la guerra. Giunse il 1945: abbandonai la biblioteca della casa al mare: ritornai a Torino; e, insieme ai miei compagni del D'Azeglio, cominciai a passeggiare lungo il Po, a discorrere di tutto - monarchia, repubblica, storia, filosofia, famiglia, scuola, scuola. Su tutto, avevo idee e contro-idee. Nel 1946 scrissi uno sciocchissimo articolo sul giornale scolastico. Sostenevo che bisognava smettere - per sempre - di imparare le poesie a memoria. Niente più Infinito, Chiare, fresche e dolci acque, terzo canto del Paradiso. Era una cosa meccanica: un'esperienza per parassiti; fatta apposta per quei bambini, che avevamo smesso di essere. Ero orgogliosissimo delle mie convinzioni.


Qualche anno dopo, mi resi conto che avevo torto. Imparare le poesie a memoria, richiamare e rispecchiare le parole, andare avanti e indietro, sillabare e risillabare, era un gioco bellissimo. Se dicevo e ripetevo tra me: Sedendo e mirando, interminati spazi: oppure herba et fior che la gonna leggiadra ricoverse; oppure Qual per vetri trasparenti e tersi o ver per acque nitide e tranquille: - la mente variava e arricchiva il vocabolario, rafforzava la scrittura mentale, imparava a pensare e a ripensare. Oggi, sono pieno di rimpianti. Mi ricordo tutti i versi che, per arroganza giovanile, ho dimenticato, e penso a quello che avrei potuto essere e non sono."


Eremo Via vado di sole , L'Aquila,
giovedì 10 febbraio 2011

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