domenica 20 febbraio 2011

ET TERRA MOTA EST :Cento mercoledì

ET TERRA MOTA EST :Cento mercoledì

Ripubblicato il 15/02/2011 15:05 su Il capoluogo


di Max Massimo Giuliani - Arrivai a L’Aquila con mia moglie tre giorni dopo il terremoto di lunedì 6 aprile 2009. Era il giovedì prima di Pasqua. Raccontai qui quello che vedemmo e quello che sentimmo, ammesso che fosse qualcosa che si può raccontare: per quanto sia difficile rendere l’idea delle crepe e delle macerie, di una città in cui i soli esseri umani che si incontravano per strada erano quelli in divisa o gli ultimi abitanti che trascinavano i loro trolley verso la macchina per andarsene, non esiste la possibilità di raccontare il silenzio che circondava tutto. Si dice “irreale”, per rendere l’idea. Non la rende. Altro che irreale: è reale, concreto e pesante, è il silenzio delle pietre, e per attraversarlo devi tagliarlo, farti largo con le braccia.

Mi ricordo che, arrivati al limitare della gradinata di San Bernardino, alcuni militari ci fermarono e ci informarono, quasi scusandosi, che non era possibile inoltrarsi di là. “Non prima di mercoledì”, e allargarono le braccia. Non prima di mercoledì: così ci dissero. Tanto che interrogai mentalmente la mia agenda per sapere se gli impegni mi avrebbero permesso di tornare la settimana dopo e no, non avrei potuto.
Non ho contato con precisione quanti mercoledì sono passati da allora. A occhio e croce quasi un centinaio.

Durante questi cento mercoledì quella barriera si è persino allargata a rubare altri spazi alla memoria e alla vita delle persone. Restituendone un pezzettino ogni tanto: ora un pezzettino di Corso, ora metà Piazza del Mercato, ora un altro pezzettino di Corso, ora Piazza Palazzo (per darti un’idea, se non conosci la città: il Liceo Classico, il Convitto Nazionale, la Biblioteca, il negozio di dischi di Marcello, il Comune, la fontanella con l’acqua più ghiacciata che tu possa immaginare).

Così le ultime volte che sono andato, ho preso un’abitudine che mi impegno a portare avanti in tutte le prossime occasioni. Vale a dire che, da solo o con altri cattivi soggetti, mentre passeggio per il corso, a un certo punto con aria indifferente svolto in uno dei vicoli e, giunto alle soglie della Terra del Silenzio, mi guardo indietro per essere sicuro di non essere visto; poi trattengo il respiro per farmi più sottile che posso e mi infilo fra le transenne.

So che non sono l’unico, che tanti lì lo fanno abitualmente. Il problema è che lo facciamo uno alla volta.
Ad ogni modo, è domenica mattina, il cielo è grigio e io sono solo. Il varco per il mondo parallelo è Piazzetta del Sole. Ritrovo, di là, quel silenzio che vi dicevo. Mi ritrovo in una delle parti più antiche e suggestive della città, che mi avevano precluso cento mercoledì fa. Percorro nel silenzio via Fortebraccio e parte delle vie che si aprono al lato di quella. Scatto fotografie e le posto su Facebook (le vedete anche in questa pagina); Adriano le vede e, praticamente in tempo reale, rilancia sul blog Versolaquila la cronaca del mio misfatto, che con la connivenza sua e di quanti lo leggono diventa un po’ meno individuale e isolato.
Proseguo verso Porta Bazzano e vedo in lontananza una camionetta dell’esercito. È accesa e si sente il suo motore, e non è più silenzio. Che faccio? Proseguo? Torno indietro? Sono pavido: risalgo per via ed arco Ricci, passo sotto l’archetto e la fitta rete di tubi che lo sostengono e mi godo le vie parallele al Corso Vittorio Emanuele che portano a Piazza del Mercato. Tutti gli edifici fatiscenti sembrano messi in sicurezza. E allora perché tanta parte della città continua dopo cento mercoledì ad essere blindata e controllata dai militari? Forse per impedire ai malintenzionati di approfittare delle case squarciate e incustodite. Ma non ha senso: chi volesse abusare di quel poco che è rimasto non ha mai potuto muoversi così indisturbato come in quel deserto silenzioso.
Le transenne non servono a proteggere le nostre teste dai cornicioni né gli ultimi soprammobili dai ladruncoli. Servono a proteggere i nostri occhi dallo scandalo più grande, altro che festini e donne perdute: su quelle pietre, sulla storia della gente, sull’arte dei secoli, ci cresce l’erba e ci pisciano i cani.

Guardare l’abbandono oltre quelle barriere lascia poca speranza. Capisci che fuori dalle mura nessuno ha intenzione di rendere una priorità una città d’arte e di storia che marcisce né quelle migliaia dei suoi abitanti che non riescono a tornare; e dentro, le divisioni, le diffidenze e chissà quali interessi insondabili contribuiscono alla paralisi.

Sono le dieci meno venti, fra un po’ ci si vede tutti a San Bernardino con quelli delle carriole: “Riabbracciamo la città”. Zappe, rastrelli, guanti da giardinaggio, si ripulisce dalle erbacce e dall’immondizia la gradinata, un tempo maestosa, che si apre di fronte alla chiesa e finisce con le transenne della Terra del Silenzio. Riemergo per andare a rendermi utile ai ramazzatori e agli amici che lavorano per la proposta di legge popolare che sono qui anche oggi, fra le carriole e i pochi inviati dell’informazione.


Si comincia in poche decine, olio di gomito. Insieme a noi, cronisti che ci fanno domande e cameramen che “stringono” impietosamente sulle nostre facce affaticate e sui mucchi di spazzatura che cominciano a prendere forma. Ad un tratto arriva un’ambulanza della Croce Bianca: come mai? Ne scendono gli operatori, coi giubbotti arancioni. Aprono il portellone posteriore, scaricano attrezzi e decespugliatori e si mettono anche loro al lavoro!

Cresce il numero dei volenterosi, altra gente si ferma in cima alla gradinata a dare un’occhiata.
Mentre ramazzo cicche e vetri per un attimo mi domando se tutto questo assomigli allo stare al capezzale di una persona che ami sapendo che oltre alla pratica dei medici la guarigione ha bisogno anche di presenza, di piccole cure e momenti buoni da ricordare, o piuttosto alle carezze pietose di chi saluta un moribondo. Me lo domando guardando in fondo, verso le transenne della Terra del Silenzio. Se lo domandano anche altri, lo so. Poi si imbraccia di nuovo il rastrello e di nuovo ci si china sui vetri, le cicche, le cartacce, le erbacce.

Verso l’ora di pranzo la gradinata ha un colore che forse non aveva nemmeno prima del terremoto.

Fonti



Eremo Via vado di sole, L'Aquila

domenica 20 febbraio 2011

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