lunedì 2 maggio 2011

CANZONIERE : Il poeta tuareg: Mahmoudan Hawad (Prima parte )

CANZONIERE : Il poeta tuareg: Mahmoudan Hawad (Prima parte )

Scrittore e pittore tuareg, nato nel 1950 in una famiglia nomade a nord di Agadez, in un accampamento della tribù Ikaskazen, appartenente alla confederazione dei Kel Aïr (l’Aïr è un massiccio montuoso situato al nord ovest dell’attuale Niger). Sua madre e sua zia lo allevarono secondo la tradizione tuareg che egli distingue scrupolosamente dall’educazione islamica per la quale nutrirà un odio profondo per tutta la sua infanzia. Definisce l’educazione tuareg non solo come l’apprendimento della vita nel deserto, della transumanza, della conoscenza e classificazione delle specie (vegetali e animali), ma anche come l’apprendimento di una cultura trasmessa attraverso cicli di racconti molto elaborati, cinque cicli in tutto, di cui l’ultimo tiene insieme il tutto. Impara il dominio sulle parole accompagnando suo nonno alle riunioni politiche (chiamate “asagawar”) e partecipa con sua madre e lo zio materno agli “ahal” le veglie che sono allo stesso tempo scuole di teatro, filosofia e poesia. Oltre a due romanzi, Hawad ha pubblicato una quindicina

di opere poetiche.

Attraversando il crepuscolo

Tra la notte e la luna,

passano gli uomini aghi

che l’insonnia ricuce.

Tra la notte e le tombe,

camminano gli uomini.

Tra la luna e l’ombra della palma,

passano gli uomini della penombra, sogno,

uomini che portano a spalla un fucile

e la rete delle strade e dei canti,

uomini rami del loro sogno,

uomini che calzano i ciottoli,

uomini che risalgono la notte

sul campo della notte,

uomini miscuglio di barba e rivolta,

braccia d’uomini,

passano e seminano aurore,

fruste che fustigano i giorni.

O uomini resistenti

Che attraversano il crepuscolo!

Uomini,

ormai siete braccia dell’aurora

e albero del giorno.

Uomini

Non dimenticate le donne,

radici e cime del giorno.

Animale da torchio,

tendiamo la corda della resistenza

tra i deserti e le montagne

sulle reni e le vertebre

di dune e ciottoli.

Mi chiedi cosa ne è del pozzo?

Il pozzo è il nostro sguardo abisso.

Maledette tutte le città e le prigioni

che sbarreranno la strada

alle nostre grida di assalto,

slancio di felini

che spiccano il volo-fulmine.

Tu, l’ingegnere di non so quale imbroglio,

ora ti conosco!

Sei tu il cervello senz’anima

Dei computer della banca mondiale.

Vedo anche te

il suo doppio, il suo complice,

la chiave delle casseforti del FMI.

O voi che avete speculato sull’esclusione

dei miei scheletri vivi di fratelli

smembrati e gettati dalle spalatrici

come un mucchio d’ossa sulle discariche,

a colpi di decreti annunciati alle folle

di Stati bananieri e dei loro capi cannibali

che li osservano con l’acquolina in bocca,

sì, voi, non vi preoccupate.

Ci berrete,

noi, il cancro e il suo aids assetato,

nella tempesta di sabbia

e nelle ceneri delle nostre terre

che non temono gli uragani della borsa.

Ehi tu, l’ex-maestro coloniale tramutato in conquistador,

e tu l’ex legionario, e tu l’ex prete

della pacificazione castrazione dei nostri,

e tu l’ex-ruffiano riformato per essere Gestapo,

tutta un’epoca di ex sessi gonfiabili,

vi taglieremo i popliti e i nervi

della virilità.

Che tu sia maledetto, fratello nostro,

tu, l’orecchio-gola di pappagallo

ridotto a essere mercenario.

Sì, è a te che parlo,

apprendista cuoco di tutte le salse bollite

dove si consumano a fuoco lento i tendini duri di tua madre,

tu, domani, ancor prima che il pestello dell’aurora

abbia triturato la notte perché nasca il giorno,

noi ti metteremo una ventosa sul cranio

e ti faremo sposare il cadavere furioso

di un’adolescente ribelle.

E voi laggiù,

al mercato di Timbuctù, d’Agadez,

di Ghat, di Tamanrasset,

sugli stracci dell’esotismo

e i pezzi di filo spinato degli Stati spretati,

dal concerto dei razzi e delle mitragliatrici,

noi vi faremo ballare il nuovo tango alla moda,

il tango di tutti gli ombelichi vorticosi,

la marcia dei combattenti che si dondolano e vacillano

e cadono e si rialzano

e s’inginocchiano per balzare di nuovo,

e, come fionda, roteare,

gridare, tendersi e rialzarsi,

schizzi di sangue e bava fusa di proiettili,

rame e bronzo in fusione che seminano il lutto,

opera dei vostri tecnici.

Notte e crepuscolo,

mezzogiorno e aurora,

o palpiti esitanti,

lampeggiare epilettico del giorno morente

come un uccello nelle nostre mani,

oh deserto,

da tutti gli angoli della tua vista, tu ci conosci

e noi abbiamo bevuto la luce del tuo sguardo

fino a inghiottire il proiettore delle tue pupille.

O sole, dà vita alle nostre madri combattenti

Che s’impennano ululando, frenesia,

e spezzano il recinto del loro ventre, fardello piegato

dalla carestia, la sete e la sterilità,

per calpestare il pomo d’Adamo della morte.

Sotto il volo dei rapaci,

le madri, le nostre madri, cavalli delle dune,

s’impennano sul dorso scivoloso del caos.

Oh, madri ribelli,

le nostre madri, pilastri

sotto la tempesta degli avvoltoi,

braccia delle nostre madri tese verso il cielo

che prolungano il nostro assalto.

Lode alle madri,

le nostre madri con le mani nude,

armate del cordone ombelicale degli aborti,

i nostri fratelli effimeri

che dissuadono il cielo di abbattersi sul vento.

Vento gemito delle vette

anche tu sei diventato noi.

Vedi come prendiamo le armi

non solo dagli artigli dell’avversario

ma anche dalle braccia dei nostri fratelli precoci

che non sono potuti maturare nove mesi

ma che già, con il loro vigore,

arrosto ovale di cannone,

hanno lacerato la cavità del ventre delle loro madri.

Corde e cinture dei nostri resistenti,

pergamena ruvida, prole delle madri,

o figli, che non avete potuto rifugiarvi

nel seno delle vostre madri

e nemmeno nel ventre della terra,

assimilati dai mitragliatori di Parigi.

Compagno, eco dei nostri gemiti,

se domani quelli della BBC ti domandassero

chi arma la resistenza del sud della barberìa,

urla nel lobo delle loro orecchie:

- sono gli amministratori del FMI

e della banca di Francia

soprattutto quando ci costringono a mangiare

il cadavere dei vecchi e dei bambini,

dei genitori e dei fratelli.

Per la santità,

cervello e sterco della mia asina,

giuro a te, fratello mio,

triste gufo solitario, compagno,

ti giuro che ci restano ancora

le mammelle di fuoco della parola

per nutrire la resistenza

delle cause del mondo

già perse.

Non accetterò nessuna profezia,

nessuna luce, tenebre o grigiore,

soltanto lo guardo rosso e feroce

d’un resistente esausto

che continua a proiettare il suo veleno

sullo sguardo dei vostri dei.

Una resistenza dalla voce velata

è una bomba atomica.

La offro a tutti coloro

che desiderano frantumare il cervello

dei loro dei.

I nostri cadaveri, che han ricevuto più volte il colpo di grazia,

i nostri cadaveri che a causa del diktat

dei carri armati e dei decreti

non sono stati resi

al ventre della terra,

i nostri cadaveri sono esplosivi

e li lascio a tutti gli esclusi

dall’eredità delle banche

di questo mondo.

I nostri cadaveri sono esplosivi.

Per ogni popolo assassinato sulla sua terra,

non ci sono armi più sicure

del divieto di rendere i suoi martiri

al ventre della terra.

Tutti gli altri bagagli della resistenza,

sono i voli degli avvoltoi

che li distribuiscono nel vento

come l’allergia epilettica e contagiosa

della violenza.

Voi, brava gente,

immaginate tutto un popolo,

un popolo per il quale i suoi fantasmi,

come formiche,

lavorano notte e giorno.

(Tradotto dal tuareg (tamajaght)in francese dall’autore e da Hélène Claudot-Hawad e dal francese in italiano da Angela Biancofiore)

Pubblicato da paolo fichera su dicembre 8, 2009

Mahmoudan Hawad. Biografia e poesia

a cura di Marco Ribani


Eremo Via vado di sole , L'Aquila,
lunedì 2 maggio 2011

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