mercoledì 13 ottobre 2010

EDITORIALI : Bandiere albanesi al rogo e simboli etnici : calcio come megafono

EDITORIALI Bandiere albanesi al rogo e simboli etnici: calcio come megafono

di Giulia Zonca, La stampa 13 ottobre 2010

Quando i giocatori serbi hanno provato a comunicare con la curva in fiamme hanno mostrato il segno tre, il solo che quella gente capisce. È il simbolo nazionalista, la croce ortodossa che i nostalgici spacciano come riassunto della Grande Serbia: esiste solo nella loro testa ma la propagandano ovunque, soprattutto negli stadi.

Il calcio non è nemmeno una copertura, è un dichiarato megafono e non è un caso che la guerra dei balcani sia iniziata durante una partita di pallone: Dinamo Zagabria-Stella Rossa, 13 maggio 1990. Prima scintilla di un odio etnico che ancora oggi è difficile tenere a bada. I gruppi organizzati sono il covo degli estremisti, lì dentro mischiano tutto: rivendicazioni, rabbia e follia. Ci mettono la costante protesta contro il Kosovo che non riconoscono come stato indipendente, ci mettono l’odio verso l’eterno nemico, l’Albania e ieri lo hanno sventolato bruciando una bandiera lanciata in fiamme giù dagli spalti. In più, ci mettono anche le loro faide, di solito scontri tra sostenitori del Partizan Belgrado e quelli della Stella Rossa. Per questo hanno minacciato il portiere Vladimir Stojkovic, passato da un club all’altro, ed escluso dal match, per precauzione, già prima che sospendessero la gara.

Sono gli stessi che hanno guastato con scontri e cariche il Gay Pride di Belgrado qualche giorno fa, gli stessi che l’Unione Europea ha già provato a tener lontano dalle partite senza ricevere il giusto appoggio dal governo serbo, accusato anche stavolta di scarsa collaborazione. La mappa dei loro movimenti non segue la logica, si uniscono per manifestare insofferenza e fastidio verso chi, nella loro visione del mondo, gli ruba i confini. Poi però si picchiano pure tra loro, soprattutto nei derby, una specie di happening del tafferuglio che finisce sempre con fermi e feriti. Tutta gente che puntualmente circola libera nell’occasione successiva, tutte persone straschedate che possono acquistare liberamente il biglietto per qualsiasi gara.

Lo stadio del Partizan si chiama ancora Jna, come il vecchio esercito jugoslavo, avrebbe un altro nome ufficiale ma nessuno lo usa, una delle loro frange è stata battezzata Ultra Bad Boys e se la traduzione «ragazzi molto cattivi» non bastasse, aggiungono un extra negli striscioni «siamo un pericolo per lo sport mondiale». Non si muovono mai senza spranghe e bengala, per fregare gli avversari a volte si avvolgono nelle bandiere della squadra rivale e si infiltrano. Quando vogliono limitarsi alle botte, ma sanno far peggio: nel settembre del 2009 hanno ammazzato un tifoso del Tolosa prima di una partita di Europa League.

Il generale Arkan, comandante delle milizie nella pulizia etnica, era un capo curva e ancora oggi i suoi seguaci sventolano il lenzuolo con la scritta «le tigri di Arkan». Arkan è morto nel 2000, ma il suo club di riferimento, l’Obilic è infarcito di veterani militari, irriducibili che spacciano criminali di guerra per santi.

Secondo il quotidiano serbo «Blic», sono almeno 2000 i violenti che non potrebbero più entrare in uno stadio, ma in patria comandano. Sono nel consiglio di amministrazione dei club e non si occupano solo di affari, gestiscono l’ufficio minacce. Usano la persuasione per fermare decisioni non gradite, acquisti mal sopportati e i tentativi di veto sulle trasferte. Nonostante gli infiniti incidenti, raramente si arriva a giocare a porte chiuse in Serbia e quasi mai si riesce a evitare che le curve ultranazionaliste, compattate, si trasferiscano all’estero. Sono gli ultimi hooligan e sono felici di sentirsi chiamare così perché si considerano combattenti e non si preoccupano certo di essere coerenti. Ieri stavano anche contro i loro stessi colori, quelli per cui in realtà sostengono di vivere. Erano indispettiti per la sconfitta subìta in casa, contro l’Estonia, sabato scorso. Una sconfitta, l’ennesima scusa per sfasciare tutto.

Eremo Via Vado di sole, L'Aquila, mercoledì 13 ottobre 2010

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