giovedì 21 ottobre 2010

ELOGI ED ESORTAZIONI : Elogio della mitezza


ELOGI ED ESORTAZIONI: Elogio della mitezza

Per questi tempi oltracotanti e pavidi, abbiamo bisogno come spiegava il maestro torinese Norberto Bobbio , di una virtù che non sia rinuncia ma si sposi alla fortezza. Per un elogio della mitezza ed una esortazione alla mitezza prendiamo in prestito il testo della Lectio Magistralis che Carlo Ossola ha letto al Teatro Carigano di Torino in chiusura della settima dedicata all’Elogio della mitezza di Norberto Bobbio. Il testo è stato pubblicato su La Stampa del 19 ottobre 2010



Nel vibrante apologo Elogio della mitezza (dapprima conferenza del marzo 1983, poi saggio del 1994 che s'intreccia con Il diritto mite, 1992, di Gustavo Zagrebelsky), la virtù illustrata da Norberto Bobbio è presentata come «virtù dialogica» di risposta accogliente: «lascia essere l'altro quello che è», secondo l'aforisma ch'egli trae da Carlo Mazzantini (1895-1971), filosofo torinese del quale ho caro aver frequentato gli ultimi corsi. Ora tra le molteplici opere di quest'insigne studioso, figura - nel 1940 - uno squisito commento ai Ricordi di Marc'Aurelio. Vorrei partire da quel libro e da un'osservazione di Marguerite Yourcenar nelle Memorie di Adriano: «Gli dei ormai spenti - scriveva Flaubert - e il Cristo non ancora affermato, ci fu da Cicerone a Marc'Aurelio un momento unico nel quale l'uomo soltanto ebbe esistenza». Fu quello il tempo di Seneca, della cura sui, delle virtù della dignitas hominis studiate, in tempi recenti, da Pierre Hadot e da Michel Foucault. Potremmo dire che Norberto Bobbio è stato un degno interprete di quella tradizione.

Il 30 giugno scorso Ezio Raimondi, in una lezione bolognese, ha tracciato una magnifica parabola della storia di queste virtù dell'interiorità: una direttrice «laica» - si dica per semplificare - che va da Marc'Aurelio a Italo Calvino, e un'altra spirituale che va da sant'Agostino a Dag Hammarskjöld. Dove si colloca, in siffatta cornice, la mitezza?

Occorre subito chiarire che essa si afferma con i testi evangelici, tanto nel registro delle Beatitudini (Matteo, V, 5) che nel ritratto che il Cristo offre di se stesso: «imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Matteo, XI, 29). Per circoscrivere i termini, occorre risalire al greco della Settanta: intanto «umile» è traduzione approssimativa, che ha suscitato difatti le riserve di Bobbio. Ma nel greco il termine tapeinòs brilla di luce che sarà poi «francescana»: tapeinòs, tapino, è il «poverello» mite e sorridente, libero e in pace con il creato, che riconosciamo in san Francesco. Nell'uno e nell'altro passo, d'altra parte, mite è identificato dal termine praûs, praeïs (pl.), termini rari che risalgono a un'area semantica molto limitata: al verbo praûnö, che significa: «calmare, addolcire, mitigare» e al sostantivo, che lo ricalca, praüpátheia: «dolcezza, mitezza».

Le traduzioni del saggio di Bobbio bene illustrano questa difficoltà: se l'inglese In Prise of meekness richiama alla mansuetudine (e dunque ancora alle Beatitudini), il francese douceur, per mitezza, bene mostra il lungo cammino di secolarizzazione percorso da queste virtù, essendo la douceur associata alle pratiche (direbbero Norbert Elias e Benedetta Craveri) della sociabilité, di quell'amabile socievolezza che rende meno scomoda la vita associata. È uno snervarsi, col tempo, delle virtù che già il Leopardi contemplava affranto, vedendo quale triste esito avesse, al suo tempo e al nostro, l'euëtheia, la bonitas, visto che l'uomo dabbene viene percepito e definito nella sua dabbenaggine (Zibaldone, 4201, 18 settembre 1826).

Potremmo del resto osservare che le Beatitudini non potevano non secolarizzarsi nello stesso mondo cristiano: quando esso vide la che la parousía, il ritorno del Cristo, tardava, che il tempo e le generazioni scorrevano senza che i miti possedessero la terra e i perseguitati per la giustizia possedessero i cieli (Matteo, V, 10), fu inevitabile riconoscere il carattere apocalittico, proprio del tempo ultimo, di quelle promesse. In questo senso, ha ragione Bobbio, la mitezza è una virtù «impolitica», perché non richiama alla polise al tempo terreno. Per il lunghissimo oggi si tornò alle virtù della Politica, definite da Aristotele nel suo terzo libro (cap. III: Della virtù dell'uomo buono e del cittadino buono): la prudenza, la giustizia, la fortezza, la temperanza. Esse furono dunque le «virtù cardinali» dell'agire da cittadino, cardini e pilastri dell'uomo «tetragono» appunto, saldamente poggiato sui quattro angoli di quelle colonne di Bildung e di resistenza. Ad esse, confermando dunque il mondo greco, il cristianesimo aggiunse le tre virtù teologali sancite da san Paolo nella I Lettera ai Corinti (XIII, 13): la fede, la speranza, la carità, maggiore delle quali è la charitas (che vale come amore).

I trattati medievali ne sono nutriti: e il fine ultimo di queste virtù, cardinali e teologali, è - come ricorderà Dante nel suo Monarchia (I, 4, 1-4; e I, 16) - l'instaurazione di quella pace che il Messia ha portato agli uomini: pax hominibus bonae voluntatis. Più ancora, nella stessa Divina Commedia, Dante celebra le «quattro stelle» (Purg. I, 23-24 e VIII, 89-93) «non viste mai fuor ch'a la prima gente». Poco dopo, Ambrogio Lorenzetti, nello splendido affresco dell'Allegoria del Buono e del Cattivo Governo (1338-1339: Sala dei Nove, Palazzo Pubblico, Siena), fisserà definitivamente quel canone di virtù, aggiunta la Magnanimità, e posta al centro di tutto la Pace.

Sarebbe istruttivo ripercorre la storia della magnanimitas, ma rinvio qui al recente libro di Rob Riemen, La nobiltà di spirito. Elogio di una virtù perduta (Milano, Rizzoli, 2010), che la delinea con sapienza; così non affronto le «virtù teologali», che sono piuttosto dono che esercizio. Restando alle umanissime «virtù cardinali», c'è da chiedersi perché esse siano così dimenticate - nel loro bel vigore - a vantaggio di pulsioni «traslate» da altri orizzonti: passioni, emozioni, sensazioni.

La stessa mitezza del resto (come conferma la versione spagnola del saggio di Bobbio: Elogio de la templanza, 1997) può essere ascritta, come consorella della temperanza, alle virtù maggiori. E le associò lo stesso Dante, in versi misurati del suo Purgatorio : «E ‘l segnor mi parea, benigno e mite, / risponder lei con viso temperato» (Purg., XV, 102-103). La temperanza è mite perché tempera e mitiga; ma è ad un tempo forte perché tempra, esercitando fortifica, fortificando rende lucidi, e impavidi, almeno secondo la lettura del Foscolo che evoca nei Sepolcri "quel grande (Machiavelli ndr)/ Che temprando lo scettro a' regnatori / Gli allor ne sfronda, ed alle genti svela / Di che lagrime grondi e di che sangue» (vv. 155-158).

Temperare e temprare: per questi tempi oltracotanti e pavidi, abbiamo bisogno di una «mitezza ben temperata» dalla fortezza, di quel vittorioso emblema che solcò acque e secoli: mites et fortes.

Eremo Via vado di sole , L’Aquila, giovedì 21 ottobre 2010

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