lunedì 11 ottobre 2010

SETTIMO GIORNO : Se moriamo con lui, con lui anche vivremo


SETTIMO GIORNO : Se moriamo con lui,con lui anche vivremo

“Se moriamo con lui, con lui anche vivremo”. La seconda Lettera a Timoteo (22,8-13) dell’apostolo Paolo contiene una specie di testamento spirituale inviato proprio al suo diletto discepolo. Paolo nel momento in cui scrive è in catene. Egli che ,inquisito nel suo paese , si è appellato alla sua condizione di cittadino romano, è stato condotto a Roma e qui viene sottoposto ad una specie di detenzione domiciliare. Infatti si venera in Roma un luogo chiamato “ le tre fontane “ dove appunto sembra sia stata la prigione di Paolo. Il brano dunque, che è uno degli ultimi scritti da Paolo, può essere ritenuto davvero il suo testamento ma allo stesso tempo ha un grande valore anche sotto il profilo letterario. Soprattutto nella seconda parte con la tecnica dell’opposizione la lettura risulta avvincente e molto significativa. Nella sostanza poi Paolo dice che Dio vuole tutti salvi perché il Vangelo non può essere incatenato a differenza degli uomini come lui che vengono ristretti e privati della libertà. E in quel suo “se moriamo con lui , con lui anche vivremo” si ode l’eco di uno spirito mutuato dal linguaggio e dalla vita militare. E come in quel mondo a volte i commilitoni erano pronti a morire, anzi desideravano la morte con e per il loro comandante, così nella vita della fede morire con Cristo è il segno della vera vita. I commentatori ritengono che Paolo abbia attinto alcune espressioni di questo brano dal testo di un precedente inno.

Io annuncio nel mio Vangelo, dice Paolo, che Gesù Cristo ,discendente di Davide, è risorto dai morti e per questo porto le catene come un malfattore. Il mio vangelo però non è incatenato come lo sono io. Quell’annuncio è un annuncio di libertà e non di costrzione . Una libertà che Dio stesso ha indicata nel tempo e che va costruita ogni giorno. Ogni giorno dopo la liberazione dalla schiavitù d’Egitto infatti, come, le sacre scritture ci insegnano, il popolo d’Israele ha dovuto fare delle scelte di libertà e per quarant’anni ha vagato nel deserto per dare modo a questa libertà di crescere e che il popolo si educasse a questa libertà.

Così noi. Malgrado le catene , la libertà del Vangelo, la libertà del suo annuncio di salvezza, ci dà la forza di sopportare ogni avversità perché noi speriamo di essere tra coloro che Dio ha scelto perché raggiungano la salvezza.

Raggiungere la salvezza dunque nella perseveranza, dice l’apostolo, abitare la libertà e la solitudine della libertà che ci fa uscire fuori dal mucchio e ci restituisce la nostra personale identità. Una identità che ci porta a non rinnegare Cristo perché egli non ci rinneghi , ad esprimere a lui una fedeltà perché è “ lui che rimane (sempre) fedele perché non può rinnegare se stesso “.

Le letture che vengono proclamate nella XXVIII domenica del tempo ordinario (anno C9 ossia quella del secondo libro dei Re (5,14-17) e il Vangelo secondo Luca (17 ,11-19) hanno un grande rilievo teologico perché affrontano il tema della fede che non conosce confini ed entrambe sono confessioni di fede: quella di Naaman che prorompe in una “esclusiva” confessione di fede in Dio e quella del Samaritano che ritorna indietro per “ ringraziare “ Dio.

Gli stranieri e i lebbrosi sembrano soggiacere allo stesso destino di esclusione e di emarginazione nel popolo ebreo. Ma in quel mondo di emarginati ed emarginato esso stesso è però forte la presenza di Dio. Un mondo nel quale Dio non compie gesti clamorosi ma si manifesta nelle piccole cose. Sta a noi capire queste piccole manifestazioni, questa costante sua presenza appunto attraverso le piccole cose. Per una volta , per esempio, nella scrittura Dio compie un gesto clamoroso: separa le acque del mare per preparare un passaggio all’asciutto perché il suo polo possa lasciare la terra della schiavitù. E realizzare così la sua liberazione dalla schiavitù d’Egitto.

Un prodigio di un attimo seguito però da quaranta anni di piccoli e quotidiani gesti con i quali educare il suo popolo.

Così accade per Naaman. E’ molto bello il racconto che la scrittura fa dell’incontro, anzi del non –incontro tra questo luogotenente, quasi primo ministro, ovvero di un potentato di quel tempo, con il profeta Eliseo. Eliseo non lo incontra , gli invia un messaggero per dettargli che cosa deve fare. Per ottenere di nuovo l’integrità fisica compromessa dalla malattia della lebbra, fino ad arrivare quasi alla condizione di giovanetto, deve immergersi sette volte nelle acque del Giordano. Un atto evidentemente di umiltà che l’uomo accetta di compiere riuscendo mondato dalla sua infermità per altro ritenuta quasi impura. E quando si rivolge al profeta per ringraziarlo offrendo un sacrificio Eliseo rifiuta vigorosamente per dire che non lui deve essere ringraziato ma Dio che opera nel silenzio dei segni ( L’acqua che lava, che purifica, che rigenera e dona nuova vita ) ; segni che vanno cercati e riconosciuti nelle piccole cose di ogni giorno, nella quotidianità, nella perseveranza di un reciproco rapporto di fedeltà.

Il brando di Luca parla della quarta tappa che Gesù fa nel cammino di avvicinamento a Gerusalemme. Un cammino che appunto il racconto di Luca divide in quattro tappe. Alla guarigione del Samaritano Luca vuole dare un profondo significato teologico .. Ovvero che la salvezza non è qualcosa di dovuto , ma è solo il dono di un Dio misericordioso e paziente che ama la sua creatura e la salva . Infatti torna indietro solo il Samaritano a lodare a gran voce Dio e a prostrarsi ai piedi di Gesù. Gli altri nove non tornano indietro non perché non hanno compreso l’eccezionalità di quella guarigione ma perché partono da un altro punto di vista .Essi ritengono che la guarigione gli è dovuta per la sola osservazione della legge .Perchè , come dice lo stesso Gesù, non è la legge che salva ma è il dono gratuito della grazia che rende salvi .


Eremo Via vado di sole , L’Aquila, lunedì 11 ottobre 2010

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