venerdì 29 ottobre 2010

SILLABARI : Autorità


SILLABARI : Autorità


Scrive Gianni Chiodi sul suo profilo Facebook il 25.10.2010 : "L’autorità? Chi osa ancora parlarne ? E’ una di quelle parole che possono stroncare una carriera politica, una parola che non si dice tra le persone perbene, anzi una parolaccia per chi professa il pensiero unico. Appena ne parli, vieni immediatamente sospettato di volere come minimo uno Stato di polizia, di voler attentare alla libertà dei cittadini.

A mio parere, c’è una crisi etica nella società italiana. E questa crisi nasce dalla svalutazione dell’autorità e accompagna il gusto folle - e un po’ tardivo - delle trasgressione che, dopo quaranta anni di ideologia e prassi antiautoritaria, è ormai costretto ad esercitarsi nel vuoto, e deve ripiegare nel nichilismo, in una spirale cieca e distruttiva, per l’assenza spaventosa di regole da trasgredire, di tabù da infrangere, per la mancanza di divieti da superare, dopo decenni passati ad irridere l’ordine, il potere e l’autorità in nome della liberazione e della critica alla morale borghese.

Non si è reso un bel servizio alla società nel dare all’ordine una connotazione negativa, nel farne un disvalore da detestare, ridicolizzare e sovvertire. I primi a risentirne sono i più deboli, perché il disordine e l’ingiustizia colpisce non i forti e i potenti, che si possono proteggere da soli, ma i più umili e vulnerabili, che non hanno i mezzi per difendersi. Sovvertire l’ordine significa colpire i più deboli. E questo la sinistra non l’ha mai capito.

Ma non mi ritengo un autoritario perché mi piace l’ordine, mi piace anche il movimento. L’idea di ordine per me non ha niente di trascendente ma è la barriera al disordine.

L’ordine significa riconoscere che c’è una scala di valori, che esistono doveri in cambio di diritti. E’ l’onestà, il civismo, la fiducia. E’ lo Stato di diritto che premia i meritevoli e punisce i criminali.

L’Ordine insomma è libertà più che repressione. Libertà nel senso nobile del termine che un liberale trova subito nella definizione di “Montesquieu”: la tranquillità d’animo che proviene dalla coscienza che ciascuno ha della propria sicurezza.

Ma oggi, per rivalutare l’autorità, e riscoprirne la funzione di principio inderogabile di civiltà, e necessario compiere prima una rivoluzione mentale e culturale.

Bisogna dire basta all’inversione dei valori, ribellarsi al nichilismo ottundente, al relativismo esangue. Bisogna, insomma, rinunciare una volta per tutte alla critica della morale borghese predicata dal 1968 e dai suoi emuli attardati, che ancora oggi si ostinano a ritenere superata l’obbedienza dei figli ai genitori, a giudicare fuori moda la superiorità dei professori rispetto ai desideri degli studenti, e si dilettano a praticare per hobby la trasgressione, schierandosi sempre e comunque e in ogni caso contro la legge, contro lo Stato, contro la Polizia e magari inneggiano alle bande di criminali che infestano gli stadi e ammazzano i poliziotti, o al partito antagonista dei no-global.

Negare tutte le forme di autorità significa introdurre una sorta di violenza primitiva nei rapporti sociali.

Di qui deve partire la critica senza appello al 1968 come ideologia, e ai suoi ultimi adepti inamovibili che, fuori tempo massimo, continuano ad imporsi alla opinione pubblica. Bisogna liberarsi di queste pastoie culturali dei sessantottini ormai maturi.

Comunque non sono contro il ‘68 (che ha avuto anche marginali aspetti positivi) bensì contro gli eredi del 68, contro l’aristocrazia dei sessantottini che imperversano ancora tra i professori di liceo e dell’Università, che continuano a celebrare il passato, autocelebrandosi, senza capire che in questo modo hanno spezzato la schiena ad una generazione che oggi, per imitare i fratelli maggiori, scende in piazza e spacca le vetrine, perché si sente esclusa, tagliata fuori da tutto

L’eterogenesi dei fini li ha presi in contropiede. I vecchi mostri di moralità al negativo credevano di emancipare ? Hanno finito per alienare. Credevano di liberare la società ? L’hanno invece demoralizzata. Erano convinti di agire in nome degli oppressi, di incarnare il potere operaio e realizzare la giustizia del popolo ? Le prime vittime dell’inversione dei valori, del disprezzo dell’ordine e della autorità sono proprio gli oppressi, gli umiliati. Sono loro e i quartieri delle città in cui vivono, a essere i più colpiti dagli effetti del disordine, dalla disfatta della scuola e della famiglia. Il primo ad essere aggredito dalle bande di delinquenti delle banlieu francesi che gli incendiano l’auto sotto casa è l’operaio che non ha ancora finito di pagarla a rate; ed è sempre lui che si ritrova disoccupato quando la concorrenza (spesso sleale) cinese attacca il mercato europeo a colpi di dumping monetario, sociale e ambientale.

Per venti anni in Italia ha dominato il conformismo politicamente corretto della generazione di Veltroni cioè il “pensiero unico”. Si è imposta l’ideologia terzomondista, l’empatia umanitaria di emergency; l’ipocrisia.

Ma la politica ha bisogno di schemi nuovi, di rompere la cappa di piombo del cosiddetto “pensiero unico” delle vecchie abitudini al conformismo e alle idee stantie, come vietato vietare, abbasso la scuola, viva la rivolta permanente contro la morale borghese, contro lo sfruttamento, il capitalismo, il potere, perché è sempre repressivo, e tutto questo in nome di una coazione a ripetere vecchi schemi defunti, di un edonismo di massa che è solo l’altra faccia della disperazione, della illusione di una vita fondata sul proprio piacere, retaggio del 1968 e della sua morale fallimentare.

Però non mi faccio illusioni che ciò accada in Italia velocemente. Un Paese dove il civismo, se mai esista, obbedisce a principi opposti, dove, 60 anni dopo la fine della guerra e la sconfitta, parlare di “fierezza della nazione” mette ancora a disagio, dove può succedere che il disordine, la rivolta, il disprezzo dello Stato vengano addirittura santificati e blanditi dagli stessi membri del governo, sempre pronti a gareggiare in radicalismo con i forsennati di strada, soffiando sull’antagonismo a tutti i costi, e dove persino le “elite” sono convinte che il potere appartenga a colui che è più ricattabile e venga conferito da chi è ancora più ricattabile."

Scrive Giulo Petrilli

"C’è da rimanere senza parole nel leggere questo documento che attacca la democrazia diretta, la partecipazione dal basso, la critica al potere inteso come corruzione e affarismo, perché questa è la vera critica dei movimenti del '68 e del '77 al potere - continua Petrilli. Il garantismo nasce da questa cultura deve sapere Chiodi, non nasce per difendere il ceto politico, nasce come cultura antirepressiva su la liberalizzazione delle droghe leggere, nasce dalla cultura dell’amore libero, nasce dalla critica al quartier generale, da qualsiasi parte esso si esprima". "Nasce si da una cultura contro lo statalismo inteso come oppressione dei movimenti di trasformazione, come ossigeno e ricchezza, come garanzia dei diritti e della difesa nei processi". Petrilli conclude affermando "Berlusconi ha scoperto il garantismo per sé, il '68 l’ha scoperto per tutti e di più per le fasce deboli e gli invisibili, questo non ha capito il governatore Chiodi, che esalta l’autorità tranne quella giudiziaria quando attacca il Pdl".

Scrive Anna Colasacco


Il presidente Della Regione Abruzzo, Gianni Chiodi, ha reso pubblica, tramite una nota di facebook, un'esternazione in merito all'autorità ed al pensiero unico.

Potete leggerla qui:

Chiodi: Contro il pensiero unico sull'autorità

e ho ritenuto opportuno rispondere.

Egregio Presidente Chiodi, vorrei reagire alla Sua intemerata in favore dell’autorità, anzi dell’Autorità, non una qualità di cui si analizzi il senso e la portata, per comprendere a chi spetti, a chi debba essere riconosciuta e perché, ma una sorta di valore assoluto. A prescindere.

Ho riletto la nostra bella Costituzione repubblicana: vi ho trovato i valori della dignità, dell’eguaglianza (art.3), della libertà (art.13,14,15,16 ecc), del rispetto della persona umana (art.32), ma non ho trovato il valore dell’autorità. La parola autorità, lì, non è mai usata da sola, ma come “autorità di pubblica sicurezza” (art.13), “autorità giudiziaria” (art.21) per definire una funzione pubblica.Ho poi letto la più recente “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”,che ha valore giuridico da appena un anno, e anche lì ho trovato che i sei valori cui sono intitolati i capitoli nei quali la Carta è suddivisa sono: dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia. Non si parla dell’autorità. Eppure non sono affatto ignorati i doveri. Anzi, si afferma che il godimento dei diritti previsti “fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future”.Il potere di per sé non è buono. Da Montesquieu in poi abbiamo imparato che deve essere diviso, controllato, soggetto alla legge.L’autorità si conquista con l’autorevolezza.

Se imposta forzatamente, è mero autoritarismo.L’ordine senza aggettivi non è un valore. L’ordine regna anche nei cimiteri. E nei gulag.L’obbedienza di per sé non è una virtù. Il dovere di disobbedire agli ordini ingiusti è una delle conquiste della nostra civiltà giuridica, frutto della profonda “rivoluzione dei diritti umani” che, a partire dal secondo dopoguerra, ha segnato una svolta nella comunità internazionale. Dopo gli orrori della guerra e dell’olocausto. Questo dovere di disobbedienza non ha nulla a che vedere col “nichilismo ottundente” o il “relativismo esangue”. Anzi, richiede un sovrappiù di coraggio e di responsabilità di cui si vedono oggi assai pochi esempi, e non certo per colpa del ’68.E’ davvero azzardato sostenere che la “crisi etica” della società italiana nasca dalla “svalutazione dell’autorità”, quando sono del tutto evidenti ben altre cause. Dalla corruzione, per cui l’Italia vanta un triste primato, alla collusione fra poteri pubblici (le “autorità”, appunto) e le mafie; dall'accaparramento di vantaggi personali da parte di coloro che dovrebbero rappresentare la Nazione, od essere “al servizio esclusivo della Nazione”,ai conflitti di interesse. Sino alla trasformazione in merce e all’umiliante esibizione mediatica del corpo femminile, per dirne solo alcune. Da qui, nasce una cattiva democrazia che esprime istituzioni prevalentemente prive di minimo etico. Estranee ad ogni istanza egalitaria. Una cattiva democrazia non riscuote rispetto per le autorità semplicemente perché non lo merita.Forse lei dimentica che la nostra storia non comincia, né finisce con il 1968, con i suoi pregi e i suoi difetti. C’è un lungo prima e un consistente dopo. Un prima di riscatto da regimi dittatoriali (e “autoritari”, appunto) e un dopo segnato da Tangentopoli.E’ giustissimo pretendere il rispetto per chi esercita legittimamente una funzione pubblica. Dai professori ai poliziotti. Ma, appunto, “legittimamente”. Ed è purtroppo vero che molti danni hanno fatto gli egoismi di un individualismo proprietario, le chiusure e le paure di un Paese che ha perso il rispetto per se stesso e smarrito i valori delle lotte combattute per riscattarsi sia dal passato fascista, che dalla povertà e dallo sfruttamento. Fra questi il valore della solidarietà e l’importanza della conoscenza e della cultura. E’ così che cattivi genitori, aiutati dai pessimi esempi pubblici, non sanno più trasmettere ai propri figli il gusto della propria storia, della conoscenza scientifica, della bellezza dell’arte e della letteratura, il rispetto per chi lavora per loro nella scuola.

Ma tutto questo non si supera invocando l’autorità, l’ordine, il potere.Occorre un’autorità moralmente credibile. Un ordine fondato sulla giustizia. Un potere controllato e responsabile.E’ vero che dall’assenza di regole a guadagnarci sono i forti e i furbi, mentre a perderci sono i deboli e gli onesti. Ma l’esistenza di regole che proteggano efficacemente i deboli e gli onesti si chiama diritto, si chiama giustizia. Dove regnano diritto e giustizia, dove è diffusa l’obbedienza a leggi costituzionalmente legittime, coloro che esercitano funzioni pubbliche (le “autorità”) sono rispettati e la legittima repressione contro le violazioni dell’ordine democratico non suscita rivolte condivise.L’obiettivo da perseguire è la ricerca costante dell’attuazione dei valori di dignità, libertà, eguaglianza e solidarietà.Non quello dell’affermazione di un ordine purchessia. E di un’autorità fine a se stessa. Non è l'autorità che fa libera una democrazia. E' la libertà che deriva dall'eguaglianza praticata. Libertà che è partecipazione alla cosa pubblica. Non già come obbedienti sudditi, ma come cittadini consapevoli.Distinti saluti.Anna Pacifica Colasacco(cittadina dell'assemblea di piazza Duomo all'Aquila)



Eremo Via vado di sole , L'Aquila, venerdì 29 ottobre 2010

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